Da redattoresociale.it

L’odio in rete non si ferma, anzi. In questi mesi di pandemia ed emergenza sanitaria anche la violenza digitale si è riorganizzata e ha trovato nuove forme.

Si chiama “zoombombing” il nuovo modello in voga soprattutto tra i giovani, messo in pratica da cybercriminali o più spesso da semplici troll (nel linguaggio internet, utenti disturbatori). Lo scopo? Per usare una parola: boicottaggio, senza se e senza ma. Gli “zoombomber” sabotano gli unici spazi di confronto, discussione sociale e politica a nostra disposizione. In questo doloroso periodo abbiamo potuto comprendere l’importanza dell’incontro tra le persone che, non potendosi vedere fisicamente, hanno rimediato con la tecnologia. E meno male! Cosa succede, però, quando l’unica possibilità di ritrovo concessa viene minacciata? Che fine fa il nostro diritto di riunirci pacificamente, fisicamente o digitalmente che sia?

(imagoeconomica)

La cosa che più preoccupa di questo nuovo odio è che non si tratta soltanto di un boicottaggio fine a se stesso, ma esso si impone sempre più come mezzo di propaganda razzista e fascista, omotransfobica e antisemita attraverso le più utilizzate piattaforme streaming, quindi non solo Zoom. Le incursioni non sono casuali, ma avvengono con forme che appaiono sempre più organizzate e quel che è ancora più grave è che, nella maggior parte dei casi, prendono di mira conferenze online ben precise, ostacolandole in ogni modo. Gli haters sono ovunque ma, se possono scegliere, prediligono incontri web dedicati alle donne e alle pari opportunità, ai diritti civili, all’inclusione e alla solidarietà. Come se il lockdown non fosse bastato ad aumentare le violenze, specie nei confronti delle donne, ora le molestie si moltiplicano anche nella rete.

Gli haters odiano, punto. Odiano ad ogni livello, piccolo o grande che sia, con tanti o pochi partecipanti. Loro odiano e basta. Ovunque possono, si infilano. A macchia d’olio anche lo zoombombing sta contagiando il mondo, Italia compresa.

Uno scatto dell’incursione durante la videoconferenza a Treviso

Martedì 22 dicembre, ore 20.30 circa, il Partito democratico di Treviso aveva organizzato un’assemblea pubblica su Zoom per discutere del Women New Deal, la proposta nazionale del Pd per rilanciare l’occupazione femminile e le pari opportunità. All’incontro sono state coinvolte delle giovani ragazze impegnate in politica e nel mondo dell’associazionismo: Rachele Scarpa e Giulia Tonel, trevigiane e candidate alle recenti elezioni regionali del Veneto con il Pd, insieme a chi scrive, in qualità di prima presidentessa del Consiglio nazionale degli studenti universitari. Erano le 20,45 quando gli organizzatori, Liana Manfio e Giovanni Tonella, entrambi segretari del Pd, decidono di avviare la registrazione e inaugurare il dibattito. Nel mentre già numerose persone si erano connesse. Nel giro di pochi secondi, non appena Liana ha preso parola per introdurre gli ospiti, gli haters a microfono acceso (ma videocamera spenta!) hanno iniziato a bestemmiare e offendere i presenti incitando all’odio; nella chat della conferenza, nel frattempo, scorreva in loop la frase “viva il duce”. Alcuni di loro hanno per brevi secondi attivato la videocamera, in particolare uno di loro era a viso coperto e in penombra, luce rossa: urlava mentre sembrava imbracciare un’arma, poi ha spento. È stato un flash, ma è bastato. Le imprecazioni, gli insulti sessisti, le lodi a Mussolini e le cattiverie ai presenti, tra le quali alcune esplicitamente rivolte agli anziani, sono durante fino a quando l’host della conferenza virtuale non li ha espulsi.

L’escalation d’odio contro i temi dell’assemblea e i gender è stato più che esplicito. “Ma c’è di peggio – ha denunciato il Pd di Treviso in un comunicato alla stampa –. Perché tra coloro che hanno chiesto di entrare nella discussione, più di qualcuno ha usato il nome di una dirigente scolastica di un liceo trevigiano. Un nome che non compare nei giornali e la cui identità può essere conosciuta soltanto dagli studenti che frequentano quella specifica scuola”. Fortunatamente, comunque, l’incontro è poi proseguito senza intoppi e con grande partecipazione.

L’episodio, però, è purtroppo solo un esempio tra i tanti, troppi. È anche la seconda volta che, nel giro di poco tempo, nella provincia trevigiana si verifica una cosa simile, perché la settimana precedente gli haters avevano preso di mira un convegno online organizzato dall’Ordine degli avvocati e dall’Università, hanno denunciato i consiglieri regionali del Pd manifestando subito solidarietà ai partecipanti e condannando l’accaduto. Le indagini faranno il loro corso e ci confermeranno se i responsabili sono stati o meno dei giovani ragazzi. Sicuramente derubricare tutto questo a semplice bravata è possibile, ma è rischioso e va scongiurato con ogni mezzo. Il Pd trevigiano si è subito rivolto alla polizia postale.

Una cosa è certa: l’hate speech non si ferma da solo. Dobbiamo fermarlo noi. Come? Dobbiamo denunciare e reagire, sempre. Dobbiamo farlo perché la violenza non è una bravata. La violenza, anche verbale, è violenza e come tale va trattata e respinta. Quel che sta succedendo ci fa capire che non possiamo smettere di parlare di uguaglianza, di diritti, di antifascismo, di parità di genere, di inclusione. Non possiamo e non dobbiamo farlo soprattutto ora, anche nel bel mezzo di un’emergenza sanitaria.

Perché le nostre parole, insieme, saranno più forti delle loro.

Anna Azzalin, presidentessa del Consiglio nazionale degli studenti universitari dal 2016 al 2019