carcereDopo il tentato colpo di stato dello scorso 15 luglio in Turchia gli eventi stanno precipitando. Il governo Erdoğan sta letteralmente radendo al suolo ogni forma di opposizione. Diritti umani, democrazia, libertà di espressione, rispetto delle minoranze sembrano espressioni senza importanza per un governo di un Paese strategico nell’area mediorientale e mediterranea, che appartiene alla Nato e che sta facendo carta straccia di valori, intenti e promesse fatte all’Europa.

Ma andiamo con ordine.

Nell’ambito della lotta al terrorismo invocata dal presidente turco a seguito del tentato golpe, agli inizi di novembre i co-presidenti del partito filo-curdo HDP (Partito democratico dei popoli) Selahattin Demirtas – giovane avvocato denominato dalla stampa occidentale “l’Obama curdo” – e Figen Yüksekdagm, con altri 11 deputati della stessa formazione, sono stati arrestati in Turchia e messi in isolamento. L’HDP – come anche tutti i partiti di ispirazione curda formatisi via via negli anni e poi sciolti – è da tempo nel mirino delle autorità perché accusato di essere la facciata politica del PKK, il Partito curdo dei lavoratori fondato da Öcalan e considerato un’organizzazione terroristica da Ankara, Ue e Stati Uniti.

L’HDP, con Demirtas leader, nelle elezioni del 7 giugno del 2015 ottenne una vittoria storica entrando in Parlamento. Per accedere all’assemblea turca, infatti, è necessario superare la soglia di sbarramento del 10%. Nonostante la repressione, nelle successive elezioni indette nel novembre 2015 l’HDP è riuscito nuovamente ad entrare in Parlamento diventando la terza forza politica del Paese, ottenendo 59 seggi che hanno permesso di bloccare l’introduzione di un sistema ultra-presidenziale in Turchia.

A maggio di quest’anno però, prima del tentativo di golpe contro il governo Erdoğan, molti deputati dell’assemblea turca sono stati privati dell’immunità parlamentare tra cui 53 esponenti del partito filo-curdo. Ecco perché gli arresti degli ultimi giorni sono stati possibili.

Secondo le autorità i deputati curdi devono pagare il loro appoggio al terrore: “erano stati convocati in tribunale e non si sono presentati”, ha detto il ministro della giustizia turco.

Erdoğan, con la proclamazione dello stato di emergenza, ha potuto così incarcerare migliaia di dirigenti, consiglieri comunali e provinciali tra cui i due co-sindaci di Diyarbakir, la più importante città curda della Turchia. Sono stati epurati anche migliaia di accademici, docenti, avvocati, giuristi e dirigenti delle ong.

Oltre 180 organi d’informazione sono stati vietati, più di 140 giornalisti sono in carcere, compresi autori e intellettuali di fama internazionale.

x-art-turchiaCan Dündar, l’ex direttore di Cumhurriyet, ovvero il più antico quotidiano turco, è stato condannato a cinque anni e dieci mesi di prigione per aver divulgato segreti di Stato ma è riuscito a fuggire in Germania. Aveva pubblicato una notizia su un camion dei servizi segreti di Ankara carico di armi e diretto in Siria. È stato arrestato però il suo successore, Murat Sabuncu, con altri giornalisti e, qualche giorno fa, è finito in carcere anche l’editore del quotidiano, Akin Atalay, appena rientrato a Istanbul. Tra le personalità vittime delle purghe di Erdoğan e conosciute anche fuori dal Paese val la pena citare la scrittrice Asli Erdoğan – nessuna parentela col presidente – da più di due mesi in prigione perché faceva parte della redazione del quotidiano Özgür Gündem, giornale filo-curdo ora chiuso. Per lei e per altri giornalisti e editori del quotidiano è stato chiesto l’ergastolo per attività terroristiche.

Sul sito Turkey Purge (www.turkeypurge.com) vengono conteggiati quotidianamente gli arresti di tutti gli oppositori di quello che dai maggiori analisti di politica estera ormai viene definito un regime autoritario. Più di 35mila persone sono state arrestate dallo scorso 15 luglio, oltre 6mila accademici hanno perso il loro posto di lavoro. Erdoğan ha di fatto annullato l’indipendenza degli atenei: lo scorso 30 ottobre ha infatti emanato un ordine esecutivo che assegna al presidente il potere di nominare i rettori universitari.

Spesso il clima politico di un Paese viene anticipato e raccontato dalla letteratura, dai romanzi che scrive chi vive l’oppressione e la limitazione delle libertà fondamentali. Così è stato anche per la Turchia, ma ovviamente negli ultimi dieci anni a chi in economia e in politica parlava di “modello turco”, di “tigri anatoliche” tutto sembrava così finto, irreale, inventato.

Anche l’Italia ha fatto la sua parte nel non vedere quanto stava accadendo. Il nostro Paese continua a fare affari con Ankara, soprattutto a vendere armi attraverso Augusta Westland, una società del gruppo Leonardo-Finmeccanica. Come del resto anche l’Europa – ostaggio dell’accordo sui profughi e con alle spalle più di dieci anni di negoziati per l’ingresso della Turchia nell’Ue – che ha ancora paura di innervosire Erdoğan. I balbettii di questi giorni pronunciati dalle cancellerie europee sullo stato di diritto e sulle libertà fondamentali dei cittadini in Turchia purtroppo non fermano la repressione in atto.

L’Europa impaurita dall’avanzare dei populismi – in primis Angela Merkel che ha sottoscritto l’accordo sui profughi con il presidente turco – non vuole ritrovarsi spalle al muro a dover gestire da sola il problema dei disperati che scappano dalla guerra in Siria. Così, in cambio di soldi, ha dato le chiavi della fortezza a Recep Tayyip Erdoğan.

Antonella De Biasi, giornalista professionista freelance. Ha lavorato al settimanale La Rinascita della sinistra scrivendo di politica estera e società. Collabora con Linkiesta.it e si occupa di formazione giornalistica per ragazzi