Controversi, criticati, seguiti, idolatrati. Sono gli influencer: gli abitanti dell’olimpo del marketing digitale. Le discussioni su queste figure sono all’ordine del giorno: è etico che guadagnino così tanto? È morale trasmettere ai giovanissimi il messaggio che basta apparire per avere successo? L’argomento è, per alcuni aspetti, una ferita aperta: influencer e influenzati ogni giorno stabiliscono e confermano il loro rapporto attraverso i social network, i commenti, i like, i post e le stories. Per comprenderne meglio la dinamica e capire se sia un circolo vizioso o abbia anche degli aspetti positivi, è bene fare un passo indietro e individuare gli antenati degli attuali influencer.

Il sociologo di origine austriaca Paul Lazarfeld

Nella cornice degli Stati Uniti alla vigilia dell’ingresso nella Seconda guerra mondiale, il sociologo Paul Lazarsfeld elaborò una teoria destinata a segnare tutto il Novecento: quella degli opinion leader. Lo studioso e i suoi collaboratori condussero una ricerca sull’orientamento di voto alle presidenziali Usa del 1940 e constatarono che, nella provincia americana, un sistema aveva dominato l’intenzione di voto: quello del two-step flow of communication. In altre parole, si trattava di un modello che identificava due livelli di propagazione delle informazioni nell’ambito della società.

Il libro dove Lazarsfeld raccolse i risultati della ricerca sugli effetti dei mass media nelle scelte politiche degli americani al voto

L’erogazione di una notizia, di un’informazione o di un fatto, passando dai mezzi di comunicazione di massa, approdava a soggetti-ancore – gli opinion leader – ai quali veniva riconosciuta una particolare competenza professionale o una validità della rete di rapporti sociali. Un ruolo e una definizione, quella di opinion leader, destinati a perfezionarsi e a caricarsi di significato, fino ad assurgere a guida intellettuale, “smistatore” di notizie e fatti necessari all’edificazione di un pensiero critico.

Si arriva, quindi, ai giorni nostri e allo sfaccettato mondo dei social network: Instagram e Tik Tok sono, in primis, la culla degli opinion leader 2.0. Ma parlare di influencer e di opinion leader è la stessa cosa? Il mondo dell’influencing, in realtà, non ha confini ben delimitati: è una definizione magmatica e caotica in cui si collocano realtà tra loro estremamente diverse. Negli ultimi anni, si è assistito alla nascita di figure ibride, collocate a metà tra intrattenimento, spettacolo e promozione: sono i social broadcaster, personaggi conosciuti prima dell’avvento del sistema-influencer e che hanno mantenuto la loro notorietà attraverso i social (molto spesso, mettendo in campo nessuna conoscenza o abilità specifica).

Di contro, c’è chi, attraverso le centinaia di migliaia di follower, divulga a un pubblico più vasto competenze già espresse nella vita professionale offline: tecnologia, fitness, danza, tecniche di autoimprenditorialità – si tratta dei mass influencer. In mezzo, troviamo figure a cui viene riconosciuta un’autorevolezza, ma le cui competenze non sono necessariamente irreggimentate in un campo specifico. Anzi, si potrebbe dire, usando una tautologia, che in moltissimi casi la capacità di queste figure di monetizzare coincide proprio con la loro capacità di monetizzare. In altre parole, nessun talento specifico è richiesto o esibito ma, in compenso, la conoscenza dei social media ripaga lautamente questi nuovi guru.

Un errore in cui si incappa spesso è che l’influencer sia una figura caratterizzata da un numero elevatissimo di follower, una conditio sine qua non, ma non un elemento che concorre da solo alla definizione di influencer. In questo caso, infatti, dovrebbero essere considerate tali delle personalità pubbliche che nulla hanno a che vedere con questo mondo – come il Presidente della Repubblica o il Papa – o fenomeni virali che durano il tempo di un clic, ma nei quali le velleità di popolarità non fanno da contraltare a una pianificazione strategica dei post. Infatti, un altro elemento che caratterizza un influencer è la programmazione di contenuti pensati per essere in linea con il proprio pubblico. Foto, video e testi accattivanti, aderenti al target dei follower, capaci di intrigare e di condurre all’azione. Quindi, quanto più un influencer sarà convincente, tanto più sarà persuasivo e, dunque, rappresenterà un valido punto di riferimento sia per i follower che per i brand (il marchio di un prodotto).

Allora, in cosa si discosta questa nuova maniera di fare marketing dalla precedente, sostanzialmente dominata dai mass media: in altre parole, quanta distanza c’è tra influencer e opinion leader? Appunto, ecco la chiave di volta: i mezzi di comunicazione di massa. Per tutto il Novecento, sono state radio, televisione e stampa a dominare il mondo dell’informazione e della comunicazione, diventando veicolo unico per pubblicità e marketing. Proporre un prodotto e far scaturire nel pubblico la pulsione all’acquisto è stato alla base del marketing tradizionale, che in modo brillante instillava le necessità nei consumatori.

L’avvento di internet ha reso necessario il perfezionamento di queste tecniche applicate a dei mezzi di comunicazione nuovi, il cui linguaggio persuasivo poteva essere solo parzialmente plasmato sulle dinamiche pregresse e già sperimentate dai mass media. Internet, nella sua fase embrionale, divenne l’orizzonte per ampliare il raggio di azione delle aziende e vendere a costi più bassi e in tempi ridotti, in aree nettamente più estese rispetto a quelle di un punto vendita fisico.

Gli adolescenti americani hanno molto influito sulla campagna elettorale di Trump: oltre al boicottaggio pacifico del comizio del presidente a Tulsa, hanno bocciato le iniziative social dell’ormai quasi ex inquilino della Casa Bianca

Il perfezionamento di queste tecniche e il definitivo avvento dei social network, capillarizzati in una società votata al capitalismo, sono stati gli elementi-detonatore che hanno sancito la nascita del modello influencer, un anello di congiunzione tra prodotto e acquirente. Consideriamo il rapporto consumatore-azienda: fino a qualche decennio fa, contattare una multinazionale richiedeva una trafila lunga che non garantiva nemmeno una risposta. Oggi, i brand hanno perfezionato i servizi di customer care (l’assistenza ai clienti) per essere quanto più vicini possibile ai consumatori, rispondendo ai messaggi privati e fornendo feedback, riscontri, tempestivi anche a critiche negative. Perciò, nell’era della viralità social, la sovraesposizione mediatica può ritorcersi contro, quindi va maneggiata con cautela.

Ecco, quindi, che entrano in gioco gli influencer, figure di supporto all’attività di customer care: si tratta di persone reali che testano dei prodotti e danno la loro opinione (non totalmente disinteressata!) e invogliano all’acquisto non attraverso i prodigi raccontati da uno slogan pubblicitario, ma basandosi sulla propria esperienza (di persona influente, certo, ma con bisogni sovrapponibili a quelli dell’acquirente).

È su questa mimesi tra influencer e consumatore che si basa la fiducia generata nelle fette di mercato intercettate: da una parte, una personalità capace di influenzare e, dall’altra, un substrato incline a essere influenzato e a farsi megafono delle opinioni. Del resto, la promozione commerciale che questi testimonial social portano avanti, in molti casi, consiste più che nella sponsorizzazione di un prodotto, nella promozione di uno stile di vita, il più delle volte emulato dai follower. Dunque, il perfezionamento della figura dell’influencer passa anche attraverso il racconto di un modo di vivere nel quale – guarda caso! – si integrano molto bene i prodotti sponsorizzati.

Giorno dopo giorno, racconto dopo racconto, l’influencer in fieri mette in atto uno storytelling efficace, in cui racconta (con un notevole margine di approssimazione) le proprie giornate. È questa sincerità percepita, mescolata a contenuti accattivanti e in grado di incuriosire gli utenti, che incorona l’influencer come depositario di fiducia da parte del suo pubblico. Quindi, non si mette in atto una blanda sponsorizzazione di un prodotto, ma la capacità di un determinato prodotto di soddisfare alcune esigenze. Producendo contenuti per i social, l’influencer non promuove un articolo di make-up, un film o un capo d’abbigliamento: vende un’esperienza. Perciò, diventa ambasciatore o ambasciatrice di un modo di vivere che – certo – include anche delle merci da acquistare con brand che investono grosse somme in campagne pubblicitarie, ma non è tutto. L’influenza che, collateralmente, esercitano queste figure sui loro seguaci digitali non è da sottovalutare: letture, discipline sportive, regimi alimentari e idee relative alle più disparate materie vengono condivise e nuovamente ricondivise nella vita offline dai follower.

Chiara Ferragni. Con il marito Fedez, in una storia su Instagram, ha rivolto le condoglianze alla famiglia di Willy, il ragazzo picchiato a morte a Colleferro, inoltre ha condiviso con i suoi 20 milioni di follower il post che parlava di “cultura fascista”. Di recente ha invitato i follower statunitensi a votare Biden (foto Imagoeconomica)

Un esempio su tutti è rappresentato dal primo nome che viene in mente quando si pensa agli influencer: Chiara Ferragni che, qualche settimana fa, è stata “incaricata”, insieme al marito, direttamente dal Presidente del Consiglio Conte di sensibilizzare i giovanissimi sull’utilizzo della mascherina. Una mossa istituzionale che evidenzia le capacità di persuasione che queste figure hanno sugli utenti social. Del resto, Ferragni, la scorsa estate, era già stata al centro di una campagna di promozione dei poli museali italiani. Una campagna che ha avuto il solo “merito” di evidenziare come enti e istituzioni non abbiano ancora inteso questo nuovo e un modo di fare marketing e considerino gli influencer meri testimonial. La figura dell’influencer, infatti, sebbene controversa è, da un punto di vista promozionale, una nuova frontiera che attinge al mondo della pubblicità tradizionale, ma adattandosi a nuovi canali e a nuove forme di comunicazione, dal momento che il contesto mediatico in cui viviamo richiede qualcosa di più di un promoter.

Sono ben lontani i tempi in cui il pubblico poteva essere “imboccato” da pubblicitari senza scrupoli e i bisogni potevano essere indotti in modo indistinto. Ciascun influencer, oggi, è consapevole del proprio target di follower e ha un raggio d’azione entro cui poter trasformare la propria esperienza in induzione all’acquisto da parte del pubblico. E chissà se, con il passare del tempo, queste figure potranno evolversi in veri e propri opinion leader, punti di riferimento ai quali si ancorano il pensiero e l’opinione pubblica, o se, invece, si sarà giunti a un ulteriore stadio evolutivo in cui il marketing avrà trovato una dimensione più orizzontale e il pubblico avrà sublimato il proprio diritto all’autodeterminazione (all’acquisto!).