Il 1° aprile 1939 il generalissimo Franco diramava l’ultimo bollettino: «Le forze armate nazionali hanno raggiunto i loro ultimi obiettivi militari. La guerra è finita». Si esauriva così l’impegno anomalo dei soldati italiani mandati a combattere in terra di Spagna, a sostegno della nascente dittatura franchista; una guerra non dichiarata di natura eminentemente ideologica.
Appena una settimana dopo, il 7 aprile, un corpo di spedizione militare sbarcava in Albania. In queste due date così ravvicinate lo specchio della politica del regime fascista: un’impresa militare si chiude, un’altra si apre, così come, subito dopo la conquista dell’Etiopia, l’attenzione era stata rivolta alla Spagna. Due piccole esperienze militari che avrebbero dovuto insegnare molte cose ma che non lasciarono altra traccia se non l’infatuazione di due successi consecutivi che avevano dato molte illusioni alle gerarchie fasciste e, allo stesso sovrano, il gusto di una grandezza fuori misura e fuori tempo.
Animatore e gestore di questa nuova impresa fu Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri e genero di Mussolini. In un’Europa dove già spiravano venti di guerra, l’Albania, a portata di mano, era per l’Italia il boccone più facile. Una piccola monarchia impersonificata da re Zog, un sovrano senza pretese e senza un ruolo ben preciso se non quello di rappresentare al meglio il carattere bellicoso e lo spirito di indipendenza del suo popolo. Piccolo manovriero qual era, non giunse al punto di piegarsi alle pressioni politiche del regime fascista che mirava a renderlo vassallo. Le insistenze del ministro Ciano sul piccolo re Zog divennero sempre più pressanti, minacciose, prepotenti ma re Zog, duro come le pietre delle sue montagne, non le accettò e cercò di rinviare. Ma il suo destino era ormai segnato.
Quando Ciano capì che re Zog non avrebbe mai accettato il suo diktat puntò decisamente sull’azione di forza. Assunse il ruolo di anima nera dell’operazione-Albania riuscendo anche a piegare una certa riluttanza di Mussolini che benché avesse sempre predicato «molti nemici molto onore» in realtà non era propenso in quel momento ad averne troppi (1).
Del piano operativo vero e proprio se ne parlò per la prima volta il 13 marzo in una riunione di vertice, presente Mussolini. Il comando della spedizione venne affidato al generale Alfredo Guzzoni e il 6 aprile iniziò la nuova facile avventura. Se dal punto di vista politico l’invasione non fu che un’avventata mossa tesa a emulare e controbilanciare l’invasione hitleriana della Cecoslovacchia, dal punto di vista militare oltre che un vero atto di sopraffazione – né il primo né l’ultimo, purtroppo, nella storia politico-militare d’Europa – fu la prova provata della disorganizzazione e del pressappochismo che qualche mese dopo avrebbero caratterizzato l’aggressione italiana alla Grecia. Alcuni reparti ebbero l’ordine di mobilitarsi e partire con sole sette ore di preavviso: 22.000 uomini, 64 pezzi di artiglieria, 860 automezzi e 2.500 quadrupedi presero posto su 22 piroscafi scortati da una imponente flotta. Non ci fu, né poteva esserci una forte resistenza. Re Zog, con la sua graziosa consorte Geraldine, madre da 48 ore, riparò in Grecia. Le perdite subite dalla spedizione furono limitatissime: 12 morti e 81 feriti, per lo più della Marina. Ma quanta confusione! II corpo di spedizione aveva avuto come punta di diamante una forza di 12 battaglioni bersaglieri di cui 9 di ciclisti. Per portarli all’organico di guerra furono repentinamente chiamati alle armi elementi di classi anziane, soprattutto del 1901. Questi quarantenni si trovarono inquadrati con i giovani di leva, alle prese con quell’ordigno infernale che era la bicicletta da bersagliere sulla quale molti non erano mai montati. (2)
Ma non furono solo questi gli inconvenienti di questa improvvisata «impresa». A operazione conclusa il Maresciallo Badoglio, Capo di Stato Maggiore della Difesa in una relazione diretta a Mussolini lamentò il ritardo con il quale l’apparato militare era stato allertato.
Proprio questa relazione del Maresciallo Badoglio, allora capo di S.M. Generale contiene interessanti spunti che ancora oggi offrono elementi di giudizio e di riflessione su quella che fu la protervia del fascismo ma anche l’acquiescenza delle più alte cariche militari. Vi si può leggere «Dall’Albania è possibile attanagliare la Jugoslavia, minacciare la Grecia, stendere una mano alla Bulgaria, appoggiare le isole italiane dell’Egeo contro offese anglo-franco-greco-turche; speciale valore ha questo territorio per l’Aeronautica che può avanzare di circa 250 chilometri le sue basi verso probabili avversari. Questa preziosa posizione, che il Vostro genio politico ha, con ben poco sacrificio di sangue, assicurato alla patria nel momento propizio, deve essere ora apprestata politicamente, economicamente e militarmente in modo da poter rispondere a ogni eventuale esigenza».
In effetti non era propriamente così. L’Italia aveva dimostrato sempre un certo interesse verso l’Albania; il «momento propizio» era stato dato dall’occupazione tedesca della Cecoslovacchia di fronte alla quale Mussolini non voleva essere da meno. Indipendentemente dallo stucchevole frasario comune a quanti sono costretti a servire una dittatura, la relazione costituiva una rigorosa analisi di una serie impressionante di deficienze registrate sia durante le operazioni di sbarco sia nel corso degli spostamenti sul terreno occupato. Tra l’altro uno scambio di fusti di carburante destinato ai mezzi di trasporto – gasolio anziché benzina – ritardò l’intero piano di movimento della non difficile operazione. Ogni cosa ha il suo risvolto e anche questi ritardi servirono egregiamente ad organizzare il rituale piano di festeggiamenti – registi il ministro Jacomoni e alcune personalità locali – tanto che Ciano poté tranquillamente telegrafare al suocero, Mussolini, «ufficiali si mettano ai nostri ordini, popolazione è nella sua grande maggioranza a noi favorevole; capi amici si stanno muovendo per eliminare ogni residuo del vecchio regime e far atto di omaggio all’Italia».
Ma ebbe una relativa importanza che in questa relazione Badoglio avesse elencato minuziosamente la serie di deficienze registrate nel corso della operazione; come ha scritto il generale Mario Montanari su Rivista Militare, «sulla spedizione niente è stato taciuto e tutto è stato riferito. Purtroppo la conoscenza di tutti gli errori ed inconvenienti sembra sia rimasta circoscritta alle alte sfere politico-militari».
Era il 1939 e stava per cominciare la seconda guerra mondiale.
(1) “Non vale la pena di correre questo rischio (di rompere lo status quo) per prendere l’Albania che potremmo avere in un qualsiasi momento” (Ciano: Diario, 16 marzo 1939).
(2) …Ad esempio, una sensibile percentuale di bersaglieri del 1901, 1902, 1903, 1904, affluiti ai reparti non sapeva usare la bicicletta o la motocicletta e non conosceva le nuove armi (da: «Le truppe italiane in Albania» – Ufficio Storico S.M. Esercito).
(da Patria Indipendente n. 5/6 dell’aprile 1989)
Pubblicato giovedì 7 Marzo 2019
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