“Vicini, anche se distanti” e slogan analoghi sono stati il perno della fase di lockdown, in cui il ferreo distanziamento sociale ha fondato nuove categorie sociali, umane, ontologiche. Il mondo è stato filtrato attraverso nuovi dispositivi (siano essi tecnologici che mentali), infrastrutture invisibili e connessioni costanti, anche se in absentia.
È stato inventato un altro modo possibile di socializzare e adempiere ai doveri quotidiani e, ciò che è più importante, è stato introdotto senza gradualità, senza mezze misure. Straordinario e quotidiano si sono improvvisamente mescolati e, ad oggi, è difficile dire se l’ordinario fosse il periodo prepandemico o, al contrario, la “normalità” sia oggi. Stilemi insoliti, quelli che caratterizzano il “qui e ora”, ma pur sempre fondativi di un periodo storico. La pervasività del digitale è un dato di fatto: filo di Arianna e spada di Damocle, insieme, che congiunge e separa, isola e protegge. Uno strumento controverso che, però, ha avuto ricadute anche sul modo di interagire.
Cosa è rimasto, allora, dei nostri cinque sensi, a fine lockdown? L’ottundimento ha prevalso o, forse, si sono affinati, anche se seguendo percorsi “laterali”? Il primo stadio di esperienza, la persona (sia l’individuo, che la specie) lo pone in essere proprio attraverso i sensi; i filosofi presocratici e i neonati insegnano questo: mettere a sistema il mondo partendo dai sensi e dagli elementi della natura. Un approccio deduttivo, primordiale, in cui le sensazioni sono veicolo di conoscenza. Certo, l’Homo sapiens postmoderno ha saputo guardare oltre, ma questa traccia primitiva è rimasta sottocutanea.
La comunicazione si è spostata quasi totalmente sul digitale, relegando all’offline interazioni infiacchite dalla presenza di presidi medici e da una distanza interpersonale molto maggiore rispetto al passato. In questo modo, alcuni sensi, quelli abitualmente usati in modo collaterale, sono stati completamente scalzati e sostituiti da vista e udito, fortemente messi a repentaglio dal nuovo vademecum della comunicazione. “Occhio per occhio, dente per dente”, “occhio non vede, cuore non duole”, “se non vedo, non credo”: sono innumerevoli i proverbi e le locuzioni che dimostrano quanto la vista sia il senso egemone. Lo confermano le religioni, la letteratura, la cultura popolare… insomma: gli occhi sono sempre al centro della comunicazione e dell’interazione. Doversi o potersi vedere solo in videochiamata ha aperto scenari totalmente nuovi.
Quindi, percepire ed essere percepiti come immagine corrotta va molto oltre una semplice connessione internet basculante: è un ponte tra psicologia e sociologia, che si irradia tra Jung e Marx, individuo e società dei consumi. L’imago junghiana orienta le percezioni del soggetto attraverso degli schemi mentali che fanno elaborare le presenze con cui si interagisce come archetipi. A ciò si somma l’asse Marx-Debord che arriva a identificare una connessione tra immagini e relazioni nella società massmediatica dello spettacolo degli anni Sessanta.
Un legame che, oggi, non sarebbe difficile traslare nella presenza (e nel presenzialismo) social: «Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra individui, mediato dalle immagini» affermava il filosofo francese riattualizzando “Il Capitale”. L’immagine, quindi, non è solo il riflesso di sé su e attraverso uno schermo, ma un setaccio attraverso cui passano le percezioni e si compie la relazione con l’esterno. Restituire all’interlocutore digitale una imago accidentata, dunque, significa anche, che lo si voglia oppure no, utilizzare quell’immagine così frammentata come “biglietto da visita”. Una ripercussione non dagli esiti funesti, ma comunque significativi. Immaginare una videolezione di una classe liceale in cui la professoressa o il professore, temuti e severissimi a scuola, vengono ridotti a icone traballanti con una scarsa dimestichezza con il medium, lascia presagire con facilità quanto l’avatar possa far perdere rapidamente autorevolezza alla sua controparte in carne e ossa.
E, forse, gli ultimi mesi ci hanno dimostrato proprio questo: è l’essere umano il vero glitch, il robot insubordinato, l’androide che scopre di avere dei sentimenti. Nell’era del post-postumano, ci scopriamo schegge impazzite del cyberspazio, ologrammi in carne e ossa, che misurano gli affetti sullo schermo di uno smartphone e si bloccano in pose anomale.
Letizia Annamaria Dabramo
Pubblicato martedì 2 Giugno 2020
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