«Come il coronavirus cambierà le nostre vite» o «Cosa ci lascerà la pandemia» sono titoli di cui si stanno arricchendo i giornali in questi giorni: punti di vista interessanti e verosimili nel descrivere l’apocalisse emotiva che ci attende nelle prossime settimane, nel caso in cui questo nemico invisibile dovesse attanagliarci ancora, tenerci rinchiusi in casa e lontani dalle interazioni sociali. Per non parlare delle disastrose conseguenze che questa situazione si trascinerà sui mercati, sull’economia, sul mondo del lavoro: se, fino a questo momento, il panorama lavorativo era ancora impigliato nelle maglie strettissime della grande crisi economica, la pandemia non darà certamente giovamento a uno scenario già fortemente compromesso. Eppure, a fronte di numeri catastrofici e decrescita tutt’altro che felice, bisogna considerare che guardare al futuro, seppure con le sue disastrose ripercussioni, appare comunque un modo per percepirsi sull’altra sponda del fiume, proiettati a quando tutto questo sarà finito. In un modo alquanto sbilenco, ben in linea con il momento storico, le proiezioni poco confortanti appaiono quasi come il modo per infondersi vicendevolmente sicurezza.
Tuttavia, ciò che si sta considerando poco è che questa gravissima situazione si fonda sostanzialmente su un progressivo farsi delle circostanze: un aggravarsi o un tenue migliorare che, in qualsiasi caso, accadono proprio sotto i nostri occhi. La crisi che sta ingoiando il mondo intero mostra le fauci in modo estemporaneo, mettendoci direttamente faccia a faccia con la paura, l’isolamento e i mille tipi di vulnerabilità fisica e sociale propri dell’umano. Una pandemia che ci impone di tenere gli occhi ben aperti sull’oggi, sui bollettini delle ore 18, sui notiziari, sulle breaking news.
Una situazione come una voragine, che mette a nudo le debolezze umane, dei singoli individui, e quelle “macro” – di un’organizzazione, di un sistema di autonomie regionali, di un sistema sanitario –, la finitezza che ci sublima nel nostro essere umanamente caduci. La pandemia, in altre parole, ci impone di guardare al qui e ora, tenere gli occhi fissi sulla casella del calendario corrispondente ad oggi, a queste ventiquattro ore, nella speranza che passino in modo indolore, tra file distanziate per fare la spesa, scenari post-atomici, mascherine, guanti e abolizione del contatto.
Tuttavia, per l’istinto di sopravvivenza che è proprio dell’essere umano, continuiamo a proiettarci oltre: per la necessità di vedere la “luce in fondo al tunnel”, tendiamo a concentrarci su quello che ci sarà dopo, sugli infiniti riverberi della pandemia, su come cambierà la nostra vita “normale”. Ma ciò di cui, molto spesso, non ci rendiamo conto, è che il “normale” l’abbiamo già abbondantemente lasciato alle nostre spalle, e di esso non ci restano che i brandelli, che accudiamo con grande attenzione e a volte, addirittura, amore. Di normale non ci è rimasto molto, nemmeno ora. Siamo in un limbo, una bolla, in cui il vecchio mondo sta già cambiando pelle. Se gli attentati terroristici hanno regolamentato i nostri spostamenti, aumentato i controlli, introdotto nuove tematiche come la tutela della privacy o l’utilizzo dei dati biometrici ai fini della sicurezza pubblica, il Covid-19 sta modificando già da ora il nostro dna.
Non sta imponendo dei quantitativi massimi di liquidi da poter portare in un bagaglio: sta imponendo una massiva conversione industriale come in un’economica bellica, ponendo un veto sui nostri affetti, quantificando le distanze, minando i rapporti umani, compromettendo i valori e ridisegnando le interazioni.
Da animali sociali, ci siamo riscoperti animali… “social”: l’online si è insinuato nel profondo, sopperendo a quelle gravi mancanze che il distanziamento sociale ha imposto trasformandoci in eremiti digitali, isolati eppure bisognosi di connessione umana. Videocall, streaming, contenuti video interattivi, lezioni scolastiche e universitarie e acquisto di beni (di prima necessità e “superflui”) sono le azioni che contribuiscono a tenerci ancorati a quell’isolotto chiamato normalità, dal quale sembriamo ogni ora più alla deriva. I social, così lungamente demonizzati come inibitori delle interazioni e delle relazioni “reali”, fungono ora da àncora di salvezza. Da socialità di serie B, ostacolo alle interazioni autentiche, il 2.0 si è trasformato nel dispositivo salvifico, quello che permette, in queste settimane ad altissima criticità, di mantenere la calma, e che si prospetta, insieme, come fonte provvidenziale di distrazione e strumento indispensabile per portare avanti i compiti quotidiani.
Una tecnologia che è diventata non solo prolungamento dei nostri arti, supportandoci nelle azioni quotidiane (fare la spesa, lavorare, pagare le bollette, etc.), ma si è addirittura evoluta fino a toccare la coscienza, la volontà, l’animo. La tecnologia, oggi, è soprattutto una stampella emotiva indispensabile per tutelare i rapporti umani attraverso le videochiamate (uno strumento, prima di questo infausto 2020, relegato sostanzialmente all’ambito lavorativo), per sentirsi più solidali con i social, per provare a tenersi stretti i riti “offline”, traslandoli nell’online.
È questa iperconnessione (di cui, a sorpresa, si stanno mostrando entusiasti sostenitori soprattutto gli over 70) a garantirci continuamente il flusso di notizie: tra gli aspetti positivi c’è la facilità nel reperire informazioni scientifiche attendibili e informazioni certe sul progredire della pandemia in zone lontane da quella di residenza, così come, il risvolto della medaglia presenta anche il proliferare di fake news, bufale in salsa complottista, miracolose soluzioni taciute dai “poteri forti”. L’algoritmo, la pietra filosofale dei social network, premia e garantisce maggiore visibilità alle pubblicazioni “in-topic”, videotutorial e dirette che mirano a coinvolgere gli utenti costretti in casa con contenuti interattivi e di utilità condivisa che spingono a sfruttare al meglio il tempo con attività piacevoli.
Virali sono anche gli hashtag che spopolano sui social network in queste settimane di grande concitazione: #andràtuttobene e #iorestoacasa rappresentano la cristallizzazione di un sentimento di ottimismo che si vuole veicolare in un momento delicato. Un’ostentazione di ottimismo, a tratti, quella che vuole spingere a tutti i costi lo sguardo verso un futuro roseo, quando invece così bene non va, già da ora; allietarsi con hashtag e canti patriottici dai balconi, a tratti, rischia di sembrare una negazione della tragedia quotidiana che si sta vivendo. Certo, trincerarsi in una visione cupa e senza via d’uscita non sarebbe di maggiore aiuto, ma volendo convincersi che tutto volgerà al meglio, sembra quasi di ignorare le migliaia di vittime e i contagiati che non possono godere di tutte le cure a causa di un sistema sanitario evidentemente sotto pressione: i piccoli drammi di cui i notiziari non possono parlare, ma che rappresentano la vera ferita sanguinante.
È, a tutti gli effetti, una realtà distopica quella in cui ci troviamo a gravitare, in cui alla civiltà del terzo millennio è stata scippata persino l’incredibile valenza comunicativa della morte. I funerali, come le altre cerimonie pubbliche, sono sospesi per ridurre il rischio di contagio: niente estremo saluto, niente fiori, niente condoglianze, né rito collettivo di espiazione del dolore. È una negazione, questa, che equivale quasi a depauperare millenni di civiltà: e sottrarre il culto dei morti all’homo sapiens sapiens lo scaraventa ancora più in basso dell’australopiteco nella scala evolutiva. In un periodo, quindi, in cui viene imposta la dis-umanità, l’essere dissimili da ciò che il nostro istinto ci porterebbe a fare, riecheggiano quelle parole acuminate: Restiamo umani. E restiamo umani sempre: non solo ora, che ci viene imposta la lontananza dai nostri affetti più cari, ma anche quando, domani, l’abbraccio dovrà essere teso verso l’altra sponda del Mediterraneo, per aiutare l’altro umano, mai davvero diverso da sé.
Letizia Annamaria Dabramo
Pubblicato giovedì 2 Aprile 2020
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