Nel quadro generale della «prigionia» italiana della seconda guerra mondiale un posto a parte spetta all’internamento dei civili. Se il combattente in armi, caduto nelle mani della potenza avversaria, viene ridotto in prigionia e quindi assume lo «status» di prigioniero di guerra, con i diritti e i doveri riconosciuti da Convenzioni internazionali, il cittadino non militare, del pari, può essere ridotto in restrizione di libertà dalla potenza avversaria. In questo caso assume la veste di «internato civile», con diritti e doveri un po’ più affievoliti per mancanza di norme internazionali chiare (almeno nel periodo bellico 1939-1945).
L’internamento italiano nella seconda guerra mondiale assume due aspetti temporali ben marcati e decisamente diversi: il primo che va dalla dichiarazione di guerra alla firma dell’armistizio (10 giugno 1940-8 settembre 1943); il secondo dal 9 settembre 1943 al 25 aprile 1945. Nel primo caso le potenze che operarono l’internamento furono la Francia e la Gran Bretagna, poi la Grecia e la Jugoslavia, indi l’Unione Sovietica e in ultimo gli Stati Uniti e i loro alleati. In definitiva le nazioni a cui l’Italia – appartenente all’Asse – aveva via via dichiarato guerra.
I cittadini italiani sorpresi dalla dichiarazione di guerra in Gran Bretagna e in Francia, non aventi un particolare «status» diplomatico, furono da inglesi e francesi internati per motivi di sicurezza. Soprattutto i molti italiani in Tunisia furono inizialmente soggetti a regime di restrizione della libertà. II governo di Parigi non ebbe tempo per attuare tutte le misure messe in atto per il sopravvenuto armistizio del 24 giugno di Villa Incisa (1). Cosa invece che ebbe modo di fare la Gran Bretagna attuando un regime di internamento abbastanza duro, riflettendo in parte la situazione generale in cui questa, isolata e sola contro tutti, si era venuta a trovare. Gli internati italiani dovettero attendere il 1943 per godere di un regime più accettabile. Nel resto dell’Impero inglese le misure prese non furono da meno, come diremo più avanti.
La dichiarazione di guerra del 1940 sorprese diverse navi italiane in porti nemici: solo negli Stati Uniti ve ne erano ben 27, con relativi equipaggi. Una vera flotta che solo l’imprevidenza del governo di allora fece cadere nelle mani dell’avversario; navi che sarebbero state utilissime nel corso della guerra, soprattutto nella battaglia dei convogli, nel 1942. Tutti gli equipaggi furono internati; quelli negli Stati Uniti furono per tutto il 1940 e il 1941, cioè fino alla dichiarazione di guerra, «fermati» nei porti dove si trovavano il 10 giugno 1940. Con la dichiarazione di guerra dell’11 dicembre 1941 anche questi marittimi furono definitivamente internati e destinati per la gran parte in un campo di concentramento nello Stato del Montana (2).
Oltre che nei territori metropolitani i civili italiani furono particolarmente presi di mira nei territori coloniali. La sorte più dura toccò, a partire dal 1940, agli oltre 100.000 civili italiani in Egitto. La notte del 10 giugno 1940 la polizia egiziana, su mandato dei comandi inglesi, iniziò una sistematica azione di intimidazione e di arresti. Furono in fretta e furia costituiti campi di concentramento in aperto deserto: in genere erano arrestati i soli uomini validi ed atti a portare le armi o chi aveva destato sospetti. Tutte le famiglie degli internati italiani subirono sistematicamente vessazioni, angherie, perquisizioni: alcune donne furono processate e condannate a mesi di carcere per aver dato ospitalità a ricercati o ad evasi dall’internamento. Le donne italiane sospette furono internate nel campo di concentramento di Mansourah, con un trattamento abbastanza severo e pieno di privazioni: ancora nel 1944 non avevano ricevuto gli indumenti e il vestiario femminile che era stato varie volte promesso. II campo di Feyed-Cairo raccoglieva 3.288 internati italiani ma non era assolutamente adatto a contenerli tutti, soprattutto per mancanza di servizi igienici. Altri punti di raccolta erano stati istituiti nel convento di Giza, nella scuola italiana di Boulac, a Tantah. L’internamento non subì interruzioni fino al 1944 quando si iniziò a rilasciare alcuni internati. Il 23 settembre 1944 furono rilasciati 2.700 capifamiglia e tutte le donne. Oltre 350 internati furono liberati solo alla fine della guerra.
Accanto a quello in Egitto – pagina poco conosciuta che meriterebbe di essere approfondita – va collocato l’internamento dei civili italiani a seguito della conquista del nostro «impero» in Africa Orientale da parte inglese.
Nel 1936 – urlato in ogni modo e maniera – il fascismo aveva proclamato di aver fondato un impero rinnovando «i fasti imperiali sui colli fatali di Roma». Sul filo della retorica fascista, alle parole ed alle millanterie seguirono le tragedie. Non difeso come si doveva, l’impero crolla nel maggio 1941 e a nulla servirebbe fermare l’attenzione sugli atti di eroismo che accompagnarono ogni nostra sconfitta, ogni nostra tragedia militare. Una di queste crude realtà fu la sorte dei cosiddetti «civilizzatori» che al seguito delle «legioni fondatrici di imperi» si erano recati a trovare lavoro e, sperando, fortuna in Africa. Si cantava e si cercava «Faccetta Nera», ma l’unica cosa nera fu la sorte! (…)
Tutti i civili atti al lavoro furono trasferiti nel Kenya, in Rodesia, in Uganda, in Tanganica e nel Sud Africa per contribuire alla carenza di mano d’opera a basso costo dovuta alla mobilitazione maschile in atto in quei territori da parte dell’impero inglese.
Le donne, i bambini, i vecchi e gli invalidi e i malati furono raccolti in campi inospitali dell’Africa Orientale, in particolar modo nella zona di Mandera – ove uno dei campi era detto «l’inferno dei vivi» – a Barbera, a Die Daua e ad Harar. In quest’ultimo campo si verificò una epidemia di morbillo che uccise centinaia di bambini.
Gli internati civili, tranne gli uomini, furono in gran parte rilasciati e rimpatriati nell’arco di tempo che va dal 1941 al 1943 per mezzo di navi-ospedale. II loro stato, al momento dell’imbarco, era veramente tragico.
Gli uomini invece furono sparpagliati per tutta l’Africa, utilizzati come mano d’opera. In particolare in Rodesia, fra i lavoratori internati, vi erano ragazzi di età non superiore ai 15 anni che le loro madri, fra strazi indicibili, avevano dovuto lasciare in Africa. L’internamento civile in mano inglese in Africa ebbe termine dopo la guerra, nel 1946.
L’internamento civile ebbe aspetti di minima entità nel continente americano, essendo l’Europa in guerra e l’Africa e l’Asia in mano alle Nazioni Unite. In Messico, in Giamaica, in Guiana Britannica, ad Haiti, a Panama, a Cuba, in Venezuela e in Brasile vi furono internati civili, soprattutto marittimi sorpresi dalla dichiarazione di guerra; si possono quantificare in gruppi di centinaia di unità. Le vicende di questi gruppi non sono dissimili tra loro: trattamento affidato più alla bontà ed ai sentimenti umanitari dei loro detentori che a norme di diritto internazionale in un quadro di privazioni e sofferenze che sempre si accomuna alla restrizione della libertà.
La tragedia dopo l’armistizio del settembre 1943
Se l’internamento civile ebbe termine con l’armistizio ad opera delle Nazioni Unite, all’indomani dell’8 settembre si aprì una pagina dell’internamento ancora più dura e tragica. A tutti è nota la tragedia degli internati militari italiani: oltre 600mila nostri connazionali rinchiusi in campo di concentramento da parte della Germania nazista. Una tragedia che espresse la condanna della Repubblica Sociale Italiana in quanto ad essa aderirono solo il 9% dei militari italiani che preferirono la prigionia piuttosto che tradire la Patria. È l’aspetto più noto dell’internamento, ma accanto all’internamento in Germania occorre ricordare anche l’internamento attuato dagli alleati della Germania, e nostri ex alleati: Ungheria, Bulgaria, Romania e Giappone.
È abbondante la disponibilità di libri e di documenti relativi all’internamento in Germania in tutti i suoi risvolti; molto scarsa, se non addirittura inesistente, quella relativa all’Ungheria, alla Bulgaria e alla Romania per non parlare del Giappone (3). Fu in ogni caso un internamento allo stesso livello di quello tedesco, soprattutto in Giappone dove, per esempio, fu internata la famiglia della scrittrice Dacia Maraini il cui padre diede un esempio di abnegazione, di amor patrio e senso umano davvero ammirevoli.
L’internamento civile e militare, quindi, rappresenta una dolorosa pagina della nostra partecipazione alla seconda guerra mondiale. Un capitolo che lentamente sta scivolando verso l’oblio anche se qualcosa è in atto (4) affinché queste amare esperienze siano, ancora a lungo, di monito e di riferimento alle future generazioni.
Da Patria indipendente n. 18/19 del 1996
NOTE:
(1) Per questo particolare aspetto si veda il volume di M. Coltrinari – E. Orlanducci: «I prigionieri militari italiani nella seconda guerra mondiale in Francia e nei territori francesi», Edizioni ANRP, Roma, 1995.
(2) Degli stessi autori, per la prigionia statunitense, vedasi: «I prigionieri militari italiani nella seconda guerra mondiale degli Stati Uniti», Edizioni ANRP, Roma 1996.
(3) L. Coltrinari «La Prigionia Italiana nella Seconda Guerra Mondiale – Elementi di una bibliografia generale», paperback book, Edizioni ANRP, Roma 1996.
(4) Dal 1996 molto lavoro di ricerca sugli internati è stato realizzato dall’ANRP – Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia, dall’internamento, dalla guerra di Liberazione e loro familiari – e continua tutt’oggi. I volumi pubblicati possono essere richiesti o visionati nella modernissima biblioteca nella sede nazionale della ANRP in Via Labicana 15A – 00184 Roma. Il catalogo è quasi tutto on line, consultabile da http://www.anrp.it/pubblicazioni/
Pubblicato martedì 3 Ottobre 2017
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