Giovanni Battista Canepa, “Marzo”, fin dall’inizio compagno fedele di Aldo Gastaldi “Bisagno” nella banda Cichero, operante nel Genovesato, il 5 maggio 1954 scrisse su “L’Unità” il resoconto di un viaggio nelle terre della IV Zona operativa, tra La Spezia, la Lunigiana toscana e il Parmense. Nell’articolo “Marzo” raccontò l’azione a Valmozzola del 12 marzo 1944: «Ricordo la risonanza che quell’azione provocò dalle nostre parti: in fondo, almeno nell’Italia settentrionale, questo era il primo segno di una Resistenza armata, e appunto per ciò doveva suscitare tanto entusiasmo e, in noi combattenti, tanto spirito d’emulazione» [1].
L’assalto al treno fu una pietra miliare nella Resistenza, citata tra le prime azioni eclatanti anche da Luigi Longo [2]. Si svolse nell’Appennino parmense, ma le sue conseguenze ebbero sviluppi anche nell’Appennino toscano, in Lunigiana: fu qui che ci fu la rappresaglia nazifascista. Protagonisti furono partigiani spezzini, diversi tra loro: prima autori dell’azione, poi vittime della reazione. E dalla Spezia vennero i massacratori, i militi della Xª Mas di Junio Valerio Borghese. Nell’Appennino parmense a fianco dei partigiani c’erano i contadini, in Lunigiana no. Qui i partigiani erano isolati, e anche per questo fu facile colpirli.
I capi partigiani nelle due zone non erano, invece, spezzini. A Valmozzola il comandante era Mario Devoti “Betti”, proveniente dal Piacentino. Il punto di riferimento dei lunigianesi era invece locale: Edoardo Bassignani “Ebio” – comunista ex confinato – nato e residente a Merizzo, il paesino “rosso” della zona.
Mario Devoti, “Betti”
Procediamo con ordine. Un gruppo partigiano composto prevalentemente da elementi locali, nato spontaneamente, senza un legame con i partiti e il CLN parmense, operò tra Bardi, Valsi e Valmozzola già nel dicembre 1943. Al comando di Mario “il Siciliano” e poi di Giuseppe “lo Slavo” , era rifornito da Fermo Ognibene, che poi costituì il Battaglione Picelli, di cui fu il primo comandante. Alcuni elementi provenienti dal gruppo di Ognibene entrarono nella nuova banda.
Dalla fine del dicembre 1943 il comando fu assunto da “Betti”. Mario Devoti era un caporalmaggiore nato nel 1902 a Travazzano di Carpaneto (PC), disertore. È merito di Attilio Ubaldi avere indagato e scoperto, in un libro uscito nel 2004 [3], chi fosse veramente “Betti”: il suo carattere difficile, le disavventure giudiziarie in gioventù, un decennio di vita di espedienti, un antifascismo sincero. Forse la Resistenza fu per lui un’occasione di riscatto. “Betti” era coraggioso, onesto e generoso – e per questo ammirato dai giovani del luogo – ma personalista e stravagante, oltre che completamente “impolitico”. Si faceva servire i pasti in camera da una cameriera e, alla sera, riuniva i “suoi” uomini e dava loro il soldo giornaliero. Certamente la banda “Betti” fa comprendere come la Resistenza sia stata all’inizio un fenomeno spontaneo, esistenziale, su cui solo più tardi si innestò la Resistenza politica.
Alla fine del febbraio 1944 la banda entrò in contatto – grazie a Riccardo Galazzo, tecnico dell’Arsenale spezzino la cui famiglia era sfollata in Val di Taro, che era il fratello di Aldo “Moretto”, comunista di Arcola (SP), ex confinato politico – con il PCI e il CLN della Spezia, che incominciarono a inviare armi e uomini, militanti in primo luogo del Partito comunista.
L’arrivo degli spezzini nella banda “Betti”
Dopo l’8 settembre 1943 si erano costituite, nelle colline della Val di Magra, le prime bande, formate da “vecchi” antifascisti, giovani dei luoghi, ex militari, anche stranieri. Questi gruppi avevano conosciuto una crisi, che si pensò di superare inviando i partigiani per un verso a Valmozzola – grazie alla segnalazione di Galazzo – e per un altro a Merizzo, dove operava “Ebio”. Probabilmente il PCI e il il CLN parmensi condivisero la presenza spezzina a Valmozzola, dopo avere avuto difficoltà a collegarsi con “Betti”.
I partigiani più esperti inviati a Valmozzola furono Primo Battistini “Tullio” di Santo Stefano Magra e Mario Portonato “Claudio” della Spezia, che arrivarono il 2 marzo, e Paolino Ranieri “Andrea” di Sarzana, che arrivò il 9 marzo con il ruolo di commissario politico. Scrisse il parroco di Mariano (Valmozzola) don Mario Terzoni: «Il Betti […] decide il 2 marzo 1944 di discendere il monte, si stanzia coi superstiti presso l’osteria del paese, ove è instancabile giorno e notte alla ricerca di aiuti e d’armi per la sua squadra composta da spezzini che s’ingrossa di giorno in giorno» [4].
La testimonianza inedita di Primo Battistini, “Tullio”
Leggiamo brani di una memoria inedita di “Tullio” (di cui sto curando la pubblicazione). Appena arrivato, “Betti” gli propose il comando dei Gruppi d’Assalto, che “Tullio” inizialmente non voleva accettare. Poi “Betti” lo mise subito alla prova facendogli dirigere un’azione: «Mi comunicò quindi che avrei dovuto dare l’assalto e svuotare l’ammasso delle Guardie Forestali di Mormorola (paesino nel quale era la sede comunale di Valmozzola). […] Fummo guidati da una persona di Valmozzola, non conoscendo io le strade. L’azione si svolse fulminea e senza grandi difficoltà. Tutta la roba catturata fu fatta trainare sulle slitte dei contadini in ogni villaggio, ove, giorno per giorno, la farina fu fatta panificare, assicurando così al movimento partigiano ogni giorno il pane. Una parte restò, come compenso, ai contadini che l’avevano trasportata, custodita o panificata: la popolazione tutta era in sostanza al nostro servizio; solo una piccolissima minoranza ci era ostile, ma doveva far buon viso a cattiva sorte, trovandosi in zona controllata da noi».
Continua “Tullio”: «[…] Si fecero le elezioni per nominare il Comandante dei Gruppi d’Assalto. Su 92 votanti ottenni 90 voti (due si astennero), da allora comandai i Gruppi d’Assalto. Betti mi indicava le azioni da compiere. Un giorno mi trovavo di pattuglia a Branzone, sulla destra del fiume Taro, di fronte a Roccamurata. “Patata” [un alpino bergamasco della banda, nda] venne ad avvertirmi che il mattino dopo, con il treno delle ore 10, sarebbero stati trasferiti a Parma, per essere fucilati, tre giovani catturati dai fascisti a Roccamurata. Credetti di non dover attendere ordini da Betti. Decisi di dare subito l’assalto al presidio di Roccamurata, dove i tre giovani erano tenuti prigionieri. Con l’acqua alla cintola, a fuoco aperto, attraversammo il Taro e assalimmo il presidio. Un milite rimase ucciso, mentre gli altri riuscivano a fuggire dal di dietro dello stabile. Penetrati nel presidio, c’impadronimmo di tutto il materiale, consistente in armi, munizioni e viveri; ma i tre prigionieri erano già stati trasferiti a Borgotaro, da dove il mattino dopo (12 marzo 1944) sarebbero stati tradotti a Parma».
Il neocomandante dei Gruppi d’Assalto prosegue: «Nessuno dei miei uomini era rimasto ferito. Il mio colbacco era stato sfiorato da una pallottola. Tornato a Mariano, incontrai Paolino Ranieri “Andrea” e Podestà Giuseppe “Giandò”, che si congratularono con me per le mie continue azioni [Podestà era arrivato con Ranieri, nda][Efisio Piria, sardo sbandato dopo l’8 settembre, nda]. Andai a riferire a Betti sull’esito dell’azione. Gli spiegai che mi ero preso la responsabilità di decidere l’attacco per liberare i tre uomini. Aggiunsi che, al punto in cui stavano le cose, non restava che l’assalto al treno. Mi rispose che era impossibile, poiché della novantina di uomini in forza al nostro gruppo, solo una trentina erano in possesso di armi automatiche; gli altri erano pressoché disarmati. Gli risposi che trenta uomini erano più che sufficienti, al resto avrebbe contribuito il fattore sorpresa. Betti rimase in un primo momento pensieroso ed incerto, poi convenne sul da farsi. Decise di dare il comando dell’azione a me; lui sarebbe stato presente esclusivamente come osservatore (voleva rendersi conto personalmente e direttamente circa le mie capacità di Comandante). Nella notte ebbi modo di constatare la sua incertezza e titubanza circa l’esito dell’azione: non faceva che portarsi dalla sua stanza alla mia (dove io dormivo appoggiato a una sedia) per chiedere sempre chiarimenti o consigli. Durante una delle sue uscite gli esposi il mio piano. Per non allarmare gli uomini avrei annunciato che si sarebbe andati a vuotare l’ammasso della stazione ferroviaria di Valmozzola, ma che la vicinanza dei tedeschi imponeva di farlo armati di tutto punto. Quindi avrei chiesto chi volesse partecipare all’azione. Ai due emissari del CLN spezzino (“Andrea” e “Giandò”) non doveva essere assolutamente detto nulla per evitare ogni qualsiasi opposizione da parte loro».
Il racconto di “Tullio” prosegue: «Un’ora prima di alzarci Betti venne nuovamente da me e mi confermò la sua volontà di partecipare all’azione (al momento di partire si maschererà con un passamontagna ed un paio di baffi finti). […] Ci mettemmo in cammino e ci fermammo soltanto quando giungemmo a dieci minuti dalla stazione ferroviaria di Valmozzola. Lì svelai il vero obiettivo e spiegai il piano d’assalto. Ad ognuno fu affidato un compito. “Ballaben” e Squassoni di Bardi sarebbero venuti con me sul treno, una squadra avrebbe immobilizzato il personale, una squadra avrebbe tagliato le comunicazioni, un’altra avrebbe accerchiato il treno ed un’altra provveduto al bottino. Quando giungemmo alla stazione il treno era già in sosta, con i vetri appannati. Non si capiva, a prima vista, in quale vettura si trovassero i tre prigionieri. […] Non c’era tempo da perdere».
«Come urlai ‘Forze armate a terra!’, due ufficiali della Xª Mas risposero con un fuoco infernale e prolungato, lanciando anche bombe anticarro. Io mi trovavo vicino al magazzino, al fianco di Betti, e gridai ai miei uomini di diradare il fuoco in attesa che i fascisti consumassero le munizioni. Vidi Betti che stava sporgendosi in avanti, ma non avevo ancora finito di dirgli di tirarsi indietro, che una bomba lo colse in pieno, uccidendolo sul colpo. Il fuoco accanito dei fascisti continuò ancora per poco poi cessò; avevano esaurito le munizioni. Saltammo sul treno, le cui porte erano ormai distrutte, alla ricerca dei prigionieri».
La situazione diventava drammatica: «Un sergente della milizia ferroviaria riprese a sparare. Mi abbassai per non essere colpito e per rispondere al fuoco. In un primo momento il mitra mi si inceppò, poi con una raffica gli tagliai di netto una mano. Gli fui sopra ma stranamente non aveva più la pistola; eventualmente l’aveva gettata da un finestrino. Mi fu poi riferito che tale sergente approfittava delle donne che salivano o scendevano dal treno per requisire loro grano, farina, olio e uova. Finalmente trovai la vettura e i carabinieri con i tre detenuti. Uno dei carabinieri, considerato elemento molto pericoloso e sadico anche per dichiarazione dei detenuti, fu subito giustiziato; l’altro, che li aveva trattati invece con molta umanità, fu condotto via con noi e quindi lasciato libero di decidere se rimanere o tornarsene a casa. Un sergente della Xª Mas cercò di indossare abiti borghesi per sfuggire alla cattura; sorpreso in tale frangente fu subito ucciso. Intanto i due tenenti della Xª Mas tentavano di fuggire, ma rimasero feriti. Un appuntato dei carabinieri che, sdraiato a terra, tra il magazzino ed i gabinetti della stazione, stava tentando di togliere la linguetta ad una bomba a mano per lanciarla contro di noi, venne ucciso da me, che stavo scendendo dal treno, con una raffica di mitra».
«Restarono sul terreno, alla fine, otto morti avversari. Quaranta furono i prigionieri, tra carabinieri, militi ferroviari, elementi della Xª Mas, tedeschi e militari di ogni specialità. Due dei tedeschi chiederanno, ed otterranno, di rimanere con me. Uno dei nostri, residente a Luni, che aveva la fidanzata a Valmozzola, rimase ferito alla gola [Efisio Piria, sardo sbandato dopo l’8 settembre, nda]. Nello stesso treno, in un vagone, incontrai il mio compaesano Montani, che qualche mese dopo si arruolerà col nome di “Garibà” nella formazione da me comandata a Ponzano Superiore; gli raccomandai di recarsi a casa dei miei a salutarli. Feci ripartire il treno. Non potemmo purtroppo recuperare il corpo di Mario Betti perché si temeva che da un momento all’altro arrivasse qualche treno. Compiuta l’azione e tornati alla base, con i 40 prigionieri, trovammo Paolino Ranieri molto inquieto e incerto sul da farsi» [5].
Poi “Tullio” spiega la decisione del trasferimento del gruppo. Quindi si sofferma sui prigionieri: «Dei quaranta prigionieri ne avevamo trattenuti a Mariano soltanto nove, i più pericolosi. Gli altri li avevamo liberati. Mi dovetti recare a Mormorola. Quando rientrai a Mariano trovai che ai nove rimasti erano state tolte le scarpe: dei nove, giudicati molto pericolosi e colpevoli di vari atti contro antifascisti e condannati alla pena capitale, facevano parte due sergenti della milizia, massesi, il sergente da me ferito alla mano ed altri, quasi tutti massesi o carrarini. Parlai agli uomini rimasti con me, dicendo loro che occorreva giustiziarli senza informarli preventivamente, per rendere meno dure le ultime ore. Quindi restituissero ai prigionieri le scarpe. Dopo averli giustiziati, avremmo tolto loro ogni cosa che ci tornasse utile. Mi recai quindi dai nove prigionieri, feci loro restituire le scarpe e, secondo quanto convenuto con i miei uomini, annunciai loro che da quel momento, per amore e per forza, dovevano considerarsi arruolati nelle forze della Resistenza ma che, però non potevano restare in quel luogo. Li avremmo quindi condotti in un altro luogo, dove avrebbero fatto parte di un distaccamento.
Dopo aver mangiato, ordinai di partire. L’intesa nostra era di avviarli nella Val Tiedoli, anche per far credere ai nazifascisti che noi ci trovassimo lungo il fiume Taro. Ad un certo punto, arrivati vicino al Taro, mi rivolsi ai nove, dicendo loro che da quel momento dovevano proseguire la strada da soli. Li invitai a salutarci col pugno chiuso e gridando ‘Viva il Comunismo e i partigiani!’. Mentre ci salutavano in tal modo, senza che avessero modo di accorgersene, furono uccisi. A causa dell’assalto al treno e del successivo rastrellamento non dormivo da quattro o cinque giorni. Nevicava. Tutti eravamo sfiniti per il sonno e le fatiche» [6].
La testimonianza di Paolino Ranieri “Andrea” e le testimonianze locali
In queste pagine c’è tutto “Tullio”: radicale, coraggioso, passionale, indisciplinato, violento. Non sappiamo se c’è tutta la verità. C’è sicuramente la data giusta dell’assalto al treno, il 12 marzo. Nel monumento a Valmozzola la data è il 13, così come in alcuni libri [7]. Ma “La Gazzetta di Parma” del 14 marzo e del 18 marzo 1944 [8] e il “Notiziario della Gnr” del 14 marzo 1944 [9] scrivono di domenica 12. Come “Tullio”.
Se non c’è tutta la verità c’è quasi tutta, perché si riscontra una concordanza sostanziale sullo svolgimento dei fatti del racconto di “Tullio” con le testimonianze raccolte da Giacomo Vietti e Attilio Ubaldi nei loro libri e con la testimonianza scritta di don Bruno Terzoni. E c’è concordanza sostanziale anche con un altro testo importante: la relazione del 14 marzo 1944 di Paolino Ranieri al PCI – contenuta negli archivi delle Brigate Garibaldi – che conferma essa pure la data del 12. “Andrea” scrive di non essere stato presente all’azione, che non gli fu preannunciata da “Betti”, e concorda con “Tullio” sul punto dei prigionieri tedeschi liberati e dei prigionieri fascisti uccisi: ci fu una sorta di processo, una decisione unanime, attuata nella notte: «Decidemmo di tenerli con noi […] Per gli altri sei all’unanimità decidemmo la condanna a morte: fu eseguita la notte stessa con giustizia e lealtà» [10]. La differenza – non di poco conto, trattandosi di vite umane – è sul numero degli uccisi: nove per “Tullio”, sei per “Andrea”. Furono sei. “Tullio” e “Andrea” scrivono entrambi di otto morti nell’assalto, ma in realtà i caduti furono quattro, per tre dei quali “Tullio” racconta, come abbiamo visto, la modalità dell’uccisione. Su alcune questioni, dunque, non sempre le testimonianze tra loro e le testimonianze e i documenti concordano perfettamente. Ma nella sostanza sì.
Le questioni principali da approfondire restano due
La prima riguarda la modalità della morte di “Betti”. Secondo la testimonianza di Enzo Venturini, aiuto macchinista, riportata nel libro di Ubaldi, “Betti” fu ucciso da un ufficiale della Gnr quando ritornò sul vagone per vedere se c’era ancora qualcuno ed affrontare direttamente un altro militare nascosto, mentre il gruppo dei ribelli si stava ritirando. L’ufficiale, secondo questa versione, fece scoppiare una bomba a mano e morì insieme a Betti sul treno [11]. Il racconto di Venturini diverge dunque da quello di “Tullio”. Lo stesso Ubaldi evidenzia comunque che dall’autopsia effettuata sul corpo del fascista risulta che la sua morte fu causata da un colpo di proiettile e non dallo scoppio di una bomba [12].
Ubaldi riporta anche la testimonianza di Marino Marchini, secondo cui la salma di Betti fu sistemata per alcune ore in una stanza del Palazzo della Stazione di Parma, dove alcune persone depositarono garofani rossi sul feretro [13]. “Betti” fu sepolto in una fossa comune del cimitero di Parma il 16 marzo 1944.
La seconda questione riguarda la conoscenza o meno, da parte di “Betti” e di “Tullio”, della presenza dei renitenti prigionieri nel treno. Sia i curatori del libro I fatti di Valmozzola (Il gruppo di Monte Barca) 13-17 marzo 1944 (1974) che lo storico Giulivo Ricci in Storia della Brigata garibaldina “Ugo Muccini” (1978) sostennero, basandosi su una testimonianza resa da Paolino Ranieri, che la liberazione dei prigionieri sia stata estemporanea [14]. Ranieri ribadì questa tesi nell’intervista al Museo della Resistenza di Fosdinovo, molto successiva [15]. Ma le testimonianze del tempo, invece, su questo punto concordano tutte. Edoardo Frazzoni, partigiano tra i protagonisti nell’assalto al treno, è netto. Frazzoni – la cui testimonianza fu raccolta da Giacomo Vietti [16] – era molto legato a “Betti”, che con lui si confidò nella notte tra l’11 e il 12 svelando il piano della liberazione dei prigionieri. Nella relazione del 14 marzo lo stesso Ranieri non sostiene quanto poi affermò in seguito. Così Vietti raccontò quanto avvenuto: «Il segretario del Pnf di Borgotaro Vittorio Ferrari li aveva presi in consegna; tramite la linea telefonica della Cieli, la società elettrica, aveva comunicato l’accaduto a Parma chiedendo istruzioni; gli era stato ordinato di trasferire i due ragazzi a Parma. Questa notizia ascoltata da un operaio della Cieli venne comunicata al Comitato clandestino antifascista di Borgotaro che mandò una staffetta: Pellizzoni Aldo, ad avvisare i partigiani del Betti» [17].
“Andare in cerca di partigiani in carne e ossa”
Leggiamo alcuni passi del brano finale della relazione di Andrea a “cari compagni” su “Betti”: «Betti non era l’uomo adatto per affidargli degli uomini. Betti era uno di quegli uomini che la decisione e l’audacia nessuno poteva contestargliela. Ma Betti non aveva le altre qualità che occorrono a un nostro comandante, e che non possono assolutamente disgiungersi dal coraggio. Esso non conosceva, o non si interessava di conoscere, le più elementari regole di tattica e di strategia. […] Non si interessava di sapere fino a qual punto possono arrivare le capacità fisiche di un giovane. […] Nei suoi modi era prettamente borghese. Schiaffeggiava e minacciava continuamente con la pistola i compagni. Alle azioni dava carattere di banditismo, faceva dipingere di nero le facce ai giovani, faceva metter loro barbe e baffi finti, nel bottino faceva comprendere anche biancheria e posate. Quello che più mi meravigliò fu il fatto che al ritorno da un’azione diede ad ogni partecipante 50 lire ciascuno come se si trattasse di mercenari. […] Mi raccomando il Comitato di essere più accorto» [18].
Tutto questo è giusto. Ma in Betti c’era anche una moralità che indusse un prete come don Terzoni a un ricordo commosso, contrassegnato dal sentimento dell’”amicizia” [19].
In questa storia c’è tutto il tumultuoso percorso della Resistenza, che all’inizio fu caratterizzata da esperienze esistenziali eccentriche, carismatiche, libertarie, che sempre più male si concilieranno con le esigenze di disciplina di un esercito. Anche se spesso furono esperienze molto morali, basate sull’indignazione contro l’ordine sociale. L’azione prevaleva su tutto, il male poteva – in un mondo la cui essenza era la guerra – essere necessario al bene. Viene in mente la grande letteratura sulla Resistenza: Fenoglio, Calvino, Revelli, Meneghello… Non servono storie canoniche, serve «andare in cerca di partigiani in carne ed ossa […]: grandezze e miserie» [20] per comprendere meglio le grandezze. Certamente l’azione di Valmozzola fu un’azione che aprì una nuova fase, che scosse i dormienti, che fece epoca. Alla fine a prevalere sono certamente le grandezze.
La reazione fascista e nazista
La reazione fascista e nazista fu immediata e feroce. Il 13 marzo Franz Turchi, Prefetto della Spezia, scrisse al Ministero dell’Interno informando che: «Seguito assalto treno da parte ribelli in provincia Parma et uccisione alcuni ufficiali et militari sono stati inviati 300 uomini Decima Flottmas in detta Provincia et in quella di Apuania at seguito sollecitazione ricevuta» [21].
Nelle province di Parma e di Apuania: in quest’ultima, sul Monte Barca, sulle alture di Bagnone, era nascosto un altro gruppo di partigiani spezzini, inviati da Edoardo Bassignani “Ebio”. C’erano state, in quei giorni, anche azioni della banda Beretta e del battaglione Picelli nel Parmense. Le due aree contigue, Val di Taro e alta Lunigiana toscana, furono rastrellate. Per la prima volta le operazioni si svolsero in un clima di guerra: anche tre civili furono uccisi [22]. Anche i tedeschi si mobilitarono. Lutz Klinkhammer cita documenti tedeschi che dimostrano che, a seguito dell’azione di Valmozzola, i partigiani furono ricercati anche nella zona a sud di Villaminozzo, dove si pensava si fossero rifugiati. Contro quella zona furono inviate truppe della corazzata Hermann Goring [23].
Stranamente non furono prese misure di rappresaglia contro i tre partigiani della banda Betti arrestati il 13 febbraio dopo un’azione di requisizione nella casa di un fascista a Valmozzola, che in quei giorni di marzo erano prigionieri nel carcere di Parma [24]. Si mirò ai ragazzi del Monte Barca.
L’eccidio del Monte Barca
Il 14 marzo tredici partigiani del gruppo vennero sorpresi nel loro rifugio, un essiccatoio, da un plotone repubblichino del battaglione San Marco della Xª Mas. Erano partigiani della Spezia, di Sarzana e di Lerici, più tre prigionieri russi, evasi da un campo di concentramento e nascosti da “Ebio”. Erano ancora inattivi e solo in parte armati: si trattava del nucleo di una nuova formazione che i comunisti intendevano formare nell’alta Lunigiana grazie al lavoro organizzativo di “Ebio” e di Dario Montarese “Brichè”, il commissario politico.
Al comando, all’essiccatoio, c’era il più esperto ed “anziano”: Ernesto Parducci “Giovanni”, comunista sarzanese. Gli altri erano giovanissimi: operai, studenti, in qualche caso renitenti alla chiamata di Salò. Alcuni avevano già esperienze di partigianato alle spalle, nella banda di “Tullio” in Val di Magra. Brichè” quel giorno era sceso a Spezia per contatti con il CLN. Due ragazzi, Luigi Amedeo Giannetti e il russo Viktor Ivanov, vennero uccisi sul posto. Un altro, Luciano Righi, fu gravemente ferito. Parducci, anch’egli ferito, riuscì a fuggire. Mentre i dieci partigiani venivano portati verso il basso della montagna, Righi venne falciato da una raffica di mitra. I nove rimasti vennero rinchiusi nel Seminario Vescovile di Pontremoli, che era stato occupato dalla Xª Mas.
Questi i loro nomi: Ubaldo Cheirasco, Nino Gerini, Domenico Mosti, Gino Parenti, Giuseppe Vilmo Tendola, Angelo Trogu e i russi Vassilij Belacoskij e Michail Tartufian. Del gruppo faceva parte anche un ragazzo di Comano, Mario Galeazzi, che li aveva raggiunti, e su cui erano in corso accertamenti. Il loro capo spirituale e morale, per sensibilità e cultura, era Ubaldo Cheirasco, studente universitario socialista. Si era formato nel Liceo Classico Costa della Spezia, fucina dell’antifascismo. Mentre i dieci partigiani venivano portati verso il basso della montagna, uno di loro, Luciano Righi venne falciato da una raffica di mitra. I nove rimasti vennero rinchiusi nel Seminario Vescovile di Pontremoli, che era stato occupato dalla Xª Mas.
Sappiamo tutto, dalle testimonianze [25], del tormento di quei giovani: le sevizie cui furono sottoposti negli interrogatori dei fascisti; il trasferimento, il 15 marzo, nelle carceri di Villa Andreini alla Spezia, dove furono interrogati e percossi – in particolare i due russi – dai tedeschi; il loro ritorno a Pontremoli il 16 marzo, dopo che fu decretata la condanna a morte: con i volti lividi e tumefatti per le violenze subite in quei tre giorni, senza acqua né cibo; il purtroppo inutile intervento del Vescovo di Pontremoli, monsignor Giovanni Sismondo, che tentò di salvarli, e pregò insieme a loro, li abbracciò e li benedisse.
E poi l’ultimo viaggio, il 17 marzo, da Pontremoli a Valmozzola, dove i partigiani vennero condotti per la fucilazione: a Valmozzola, perché i nazifascisti volevano far credere che i partigiani del Monte Barca fossero gli stessi che avevano assaltato il treno. Così scrissero la Xª Mas in un manifesto e la stampa di regime dell’epoca. I partigiani, quando seppero che la fucilazione era prevista alla schiena, si ribellarono e chiesero di essere fucilati al petto, come combattenti. Il capobanda fascista aderì alla richiesta, e anche a quella di salvare Mario Galeazzi, perché – dissero loro – era stato costretto a forza a entrare nel gruppo.
Nella sua testimonianza Galeazzi scrisse: “In quel momento tragico, sereno come sempre, il Cheirasco si tolse la sciarpa di lana a quadri di colore rosso e nero che aveva al collo e rivolto verso il picchetto di esecuzione gridò: ‘questa al tiratore che mira dritto’ e porse il petto ai mitragliatori tedeschi. Un grido di ‘Viva l’Italia’ e quindi la scarica ordinata dall’ufficiale” [26].
Nascono le Brigate Garibaldi
L’eccidio fu una perdita grave per la Resistenza. Una rappresaglia che per i nazifascisti doveva essere esemplare: con il terrore essi volevano impedire che altri giovani salissero ai monti per diventare ribelli, e che la gente di montagna fosse solidale con loro. Ma il risultato che ottennero fu esattamente l’opposto: tanti altri giovani diventarono partigiani. L’attacco al treno rappresentò, al di là di ogni considerazione, un momento decisivo per il movimento patriottico.
Il gruppo degli spezzini di Valmozzola si spostò in parte in Val Ceno, in parte in Val di Magra, per poi riunirsi, nel settembre 1944, nella Brigata Muccini. In alta Lunigiana “Ebio” e “Giovanni” diedero vita – questa volta con una larga adesione di giovani locali – alla brigata 37b, nucleo della futura Brigata Borrini. Nell’archivio del Comune di Lerici è conservato un volantino, firmato Comando Distaccamento d’Assalto Garibaldi, datato marzo 1944. Scritto dopo l’assalto al treno di Valmozzola per “la liberazione dei giovani” presi prigionieri – che rivendica – e dopo l’eccidio del Monte Barca, invitava alla lotta, in particolare i giovani ad arruolarsi nelle formazioni partigiane [27].
Nell’Archivio di Stato della Spezia è conservato un volantino quasi del tutto simile – ritrovato dalle forze dell’ordine ad Arcola – in cui fu aggiunta la rivendicazione dell’uccisione dei sei militi fascisti presi prigionieri nell’azione di Valmozzola [28]. I due commissari politici, Ranieri e Montarese, avevano entrambi raggiunto la città ed evidentemente informato il PCI e il CLN. Il Comando Distaccamento d’Assalto Garibaldi non esisteva ancora. Furono i comunisti a “millantare” un poco: lo fecero per galvanizzare gli animi e incitare alla lotta. La primavera partigiana del 1944 era davvero cominciata.
Giorgio Pagano, storico, sindaco della Spezia dal ’97 al 2007, copresidente del Comitato provinciale Unitario della Resistenza della Spezia in rappresentanza dell’Anpi
NOTE
[1] G. B. Canepa, Sulla strada che porta a Spezia la “Via Crucis della Resistenza”, “L’Unità”, 5 maggio 1954.
[2] Luigi Longo, Un popolo alla macchia, Editori Riuniti, Roma, 1965 (II edizione), p. 174.
[3] Attilio Ubaldi, Omaggio a Mario Betti, ALPI-ANPI-APC, Parma, 2004.
[4] Angelo Porro (a cura di), Nella bufera della Resistenza. Testimonianza del clero piacentino durante la guerra partigiana. Memorie raccolte da Domenico Ponzini, Tipografia Columba, Piacenza, 1985, p. 594.
[5] Primo Battistini, Tullio. Memorie. Cronache resistenziali, manoscritto inedito, pp. 22-26.
[6] Ivi, pp. 26-27.
[7] I fatti di Valmozzola (Il gruppo di Monte Barca) 13-17 marzo 1944, Istituto Storico della Resistenza, La Spezia, 1974; Giulivo Ricci, Storia della Brigata garibaldina “Ugo Muccini”, La Spezia, 1978. In una nota Ricci rileva tuttavia come, nel ricordo dei protagonisti, l’assalto sia avvenuto il 12 marzo.
[8] Feroce attacco di banditi ad un convoglio ferroviario – 10 viaggiatori sono stati assassinat i e quattro feriti – Misure in atto contro gli assalitori, “La Gazzetta di Parma”, 14 marzo 1944; Fulminea azione della ‘X’ contro i partigiani in Val di Taro. Diciannove responsabili dell’aggressione al treno pagano con la vita il loro misfatto, “La Gazzetta di Parma”, 18 marzo 1944.
[9] “Notiziario della GNR”, Parma, 14 marzo 1944. I notiziari sono conservati alla Fondazione “Luigi Micheletti” di Brescia e consultabili on-line.
[10] Rapporto di Andrea a “cari compagni”, 14 marzo 1944, Fondazione Gramsci, Brigate Garibaldi, Emilia Romagna, G.IV. 2.2.
[11] Attilio Ubaldi, Omaggio a Mario Betti, cit., pp. 14-15
[12] Ivi, p. 15.
[13] Ivi, p. 16.
[14] Giulivo Ricci, Storia della Brigata garibaldina “Ugo Muccini”, cit., pp. 113-115; I fatti di Valmozzola (Il gruppo di Monte Barca) 13-17 marzo 1944, cit., p. 9 e p. 38.
[15] Intervista di Gianfranco Contini, Paolo Pezzino e Francesca Pelini a Paolino Ranieri, Museo Audiovisivo della Resistenza delle Province di Massa Carrara e La Spezia, s.d.
[16] Giacomo Vietti, L’Alta Val Taro nella Resistenza, ANPI, Parma, 1978.
[17] Ivi, p. 113.
[18] Rapporto di Andrea a “cari compagni”, cit.
[19] Angelo Porro (a cura di), Nella bufera della Resistenza. Testimonianza del clero piacentino durante la guerra partigiana. Memorie raccolte da Domenico Ponzini, cit, p. 593.
[20] Santo Peli, La Resistenza difficile, Prefazione alla seconda edizione, BFS, Pisa, 2018, p. 9.
[21] Telegramma e fonogramma del Capo della Provincia al Ministero dell’Interno, Prefettura di La Spezia, Gabinetto, b. 100, ASSP
[22] Mino Tassi, Pagine pontremolesi, Angelinelli, Pontremoli, 1960 (II edizione), pp. 68-73.
[23] Lutz Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia. 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino, 1993, p. 578.
[24] Questi i loro nomi: Mario Bertorelli, Giuseppe Colombani, Giuseppe Fulgoni. I tre saranno poi deportati a Mauthausen. Fulgoni si salverà, Bertorelli morirà, Colombani tornerà gravemente malato. Si veda: Giacomo Vietti, L’Alta Val Taro nella Resistenza, cit., pp 109-110.
[25] Mario Galeazzi, Ricordo e testimonianza di un graziato, in I fatti di Valmozzola (Il gruppo di Monte Barca) 13-17 marzo 1944, cit.; mons. Giovanni Sismondo, Nei venti mesi della dominazione tedesca (1943-1945), Angelinelli, Pontremoli, 1946; don Pietro Necchi, Il rastrellamento e la strage a Pieve di Bagnone, Angelinelli, Pontremoli, 1948; Testimonianza di don Marco Mori, in Luciano Casella, La Toscana nella guerra di liberazione, La Nuova Europa, Carrara, 1972.
[26] Mario Galeazzi, Ricordo e testimonianza di un graziato, cit., p. 68.
[27] Il Comando Distaccamento D’Assalto “Garibaldi” a “Lavoratori, cittadini della Spezia!”, archivio Comune di Lerici.
[28] Il Comando Distaccamento D’Assalto “Garibaldi” a “Lavoratori, cittadini della Spezia!”, Prefettura di La Spezia, Gabinetto, b. 100, ASSP.
Pubblicato giovedì 14 Marzo 2024
Stampato il 16/10/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/lassalto-al-treno-in-valmozzola-pietra-miliare-della-resistenza/