Come ogni evento catastrofico e imprevisto, anche la diffusione del contagio da Covid-19 ha prodotto effetti economici e sociali di grandi dimensioni e riconducibili in larga misura all’improvvisa accelerazione di trasformazioni che, in tempi normali, avrebbero avuto luogo in molto più lento e, soprattutto, molto più graduale.
Si tratta, appunto, di cambiamenti radicali, che incidono direttamente sulla vita quotidiana di milioni di persone e che, presumibilmente, sono almeno in parte destinati a sopravvivere all’emergenza e a diventare parte integrante del nostro modo di vivere e di lavorare. È il caso della subitanea estensione del cosiddetto “smart working” a settori nei quali fino a poco tempo fa la prestazione lavorativa a distanza, su piattaforme telematiche, era considerata qualche volta con diffidenza, ma soprattutto con la certezza che sarebbe rimasto a lungo un fenomeno circoscritto. La reclusione in casa per un periodo di tempo prolungato di un numero eccezionalmente ampio di lavoratrici e lavoratori ha prodotto un improvviso cambiamento di rotta e anche i datori di lavoro meno inclini alle innovazioni hanno dovuto prendere atto dei condizionamenti imposti da una situazione inedita e imprevedibile.
Occorre tuttavia precisare che la repentina diffusione del lavoro a distanza, reso con modalità relativamente flessibili della prestazione, si è innestata sulla realtà ormai pluridecennale di un mercato del lavoro frammentato, fortemente precarizzato e privo di tutele idonee a fronteggiare il rischio della disoccupazione, e quindi, nel quadro della crisi sanitaria, a contenere gli effetti di quella che può assumere le caratteristiche di una vera e propria catastrofe sociale.
È questo un punto molto importante da sottolineare: lo smart working non rappresenta una nuova e distinta tipologia contrattuale (anche se di fatto tende a modificare alcuni aspetti del rapporto di lavoro) bensì una particolare modalità di svolgimento della prestazione, e come tale è applicabile a qualsiasi tipo di rapporto di lavoro instaurato ed è pertanto suscettibile di dare luogo a esiti differenziati a seconda del contesto normativo e contrattuale nel quale viene a svolgersi.
Si vuole dire con questo che, date alcune premesse, il decentramento spaziale e temporale del lavoro può dare luogo a effetti virtuosi, sul piano ambientale (riduzione del traffico urbano e con esso dell’inquinamento) e della vita privata (riequilibrio tra i generi del lavoro di cura familiare), nonché sul piano produttivo (risparmio per le imprese, incremento della produttività e razionalizzazione e riduzione dei tempi di lavoro).
Nei fatti, però, l’esplosione del lavoro a distanza nei giorni del lockdown è avvenuta al di fuori di qualsiasi anche minimo intervento di regolazione, sull’onda di una urgenza di per sé comprensibile, ma che ha finito con l’accentuare tendenze già in atto; in altri termini, l’espansione dell’area dello smart working, protraendosi nel tempo oltre l’emergenza Covid (come è ragionevole prevedere per molti comparti produttivi), in assenza di adeguati correttivi, può tradursi in un incremento dell’orario di lavoro, in una intensificazione dei ritmi e in un sempre maggiore isolamento del singolo lavoratore, ovvero in un complesso di situazioni di fatto che avvantaggerebbero soltanto il datore di lavoro, sia esso pubblico o privato, impresa o amministrazione.
È noto, peraltro, come l’applicazione delle tecnologie informatiche ai processi produttivi abbia da tempo reso mobile il confine tra lavoro e tempo libero, tracciato rigidamente nel modello fordista: la sempre maggiore flessibilità della prestazione nella sua dimensione temporale, amplificata dal ricorso alle nuove tecnologie ed esplicitamente codificata nella tipologia contrattuale “a progetto” e dal ricorso alle prestazioni delle cosiddette partite Iva, ha da tempo determinato un aumento strisciante dell’orario di lavoro, corroborato dalla crescente precarizzazione del mercato e dalla maggiore ricattabilità delle lavoratrici e dei lavoratori.
Nella situazione attuale, pertanto, la diffusione del lavoro a distanza può assecondare queste tendenze che, in assenza di limiti stringenti ed efficaci, sono suscettibili di accentuare ulteriormente un principio di subordinazione della vita quotidiana della singola lavoratrice e del singolo lavoratore alle esigenze dell’azienda, e quindi, in sostanza, di condurre in direzione di un incremento di orario a parità di retribuzione.
Inoltre, la condizione di isolamento nella quale si svolge la prestazione può comportare situazioni nelle quali l’assetto funzionale dell’organizzazione del lavoro viene ad essere ridisegnato, accentuando i rischi di un demansionamento strisciante, con la conseguenza di un complessivo peggioramento della condizione non solo professionale ma anche esistenziale dello smart worker.
È poi intuitivo che, in un contesto di aumento dell’orario di lavoro, di ridefinizione delle mansioni e, prevedibilmente, e di intensificazione dei ritmi, la possibilità per i lavoratori di accudire la prole o comunque persone conviventi non autosufficienti diventi una mera e irrealistica petizione di principio.
In assenza di adeguati accorgimenti, si verifica poi già ora una situazione nella quale il lavoratore a distanza mentre è costantemente a contatto con l’azienda (o, per meglio dire, con la forma spersonalizzata di questa costituita dall’organizzazione del lavoro), versa contemporaneamente in una situazione di totale “disconnessione” rispetto ai propri compagni di lavoro: il lavoratore isolato, privato – certo, per condizioni di fatto al momento non superabili – di forme di socialità anche minime (la mensa, la pausa caffè, etc.) è obiettivamente un lavoratore più debole, tendenzialmente meno incline alla sindacalizzazione e comunque più esposto ai fenomeni di sfruttamento che fin qui si è cercato di descrivere.
C’è un ulteriore aspetto, probabilmente destinato ad avere carattere di temporaneità, ma che sull’onda dell’emergenza Covid-19 ha assunto una dimensione non trascurabile: sull’onda dell’urgenza, gran parte dei lavoratrici e dei lavoratori collocati in smart working hanno adoperato personal computer o tablet o anche smartphone di loro proprietà, che, nella circostanza data, sono da considerare a tutti gli effetti mezzi di produzione. In altri contesti, il verificarsi di questo fenomeno ha comportato un’ulteriore e plateale aumento delle diseguaglianze: basti pensare come il digital divide abbia di fatto impedito a molti allievi delle scuole elementari, medie e superiori (e anche delle università) di seguire regolarmente i corsi on line, realizzando una condizione di svantaggio che difficilmente potrà essere colmato in tempi brevi. Ma nel caso del lavoro si è verificato un vero e proprio paradosso della modernità, per cui l’impreparazione delle aziende e delle amministrazioni ha fatto sì che per molte lavoratrici e molti lavoratori si riproducesse una condizione simile a quella del lavoro a domicilio propria del protocapitalismo industriale, quando produttori isolati nelle campagne ricevevano dal mercante-imprenditore la materia prima e tessevano su telai di loro proprietà le stoffe che venivano poi immesse sul mercato: il fatto che invece di filati si tratti ora di trattare dati non cambia più di tanto una realtà per effetto della quale, comunque, si è realizzato un risparmio non irrilevante in favore della parte datoriale.
Chi ha avuto la pazienza di seguire il filo del ragionamento fin qui svolto avrà notato che parlando dei rischi impliciti in un ricorso massivo del lavoro a distanza non si è voluto ignorare il carattere emergenziale e quindi, presumibilmente, temporaneo, della decisione di decentrare nel tempo e nello spazio attività fino a poche settimane or sono svolte nelle fabbriche e negli uffici, né negare che tale scelta abbia in molti casi consentito di evitarne altre e ben più dolorose.
Occorre però tenere presente quanto si è detto sopra: le condizioni di contesto fanno ritenere più che probabile che alcune delle trasformazioni prodotte dal lockdown siano destinate a protrarsi oltre il periodo dell’emergenza sanitaria e che lo smart working, svolgendosi all’interno di un mercato del lavoro debole, frammentario, precarizzato e in larga parte immerso nell’irregolarità, possa alla fine stabilizzarsi con modalità tali da incrementare la posizione di subordinazione di lavoratrici e lavoratori rispetto ai datori di lavoro. Questo esito sarà inevitabile se non verranno garantiti i diritti e assicurate le adeguate tutele, in primo luogo nel senso della volontarietà e reversibilità di questo particolare modo di lavorare, nonché della garanzia della stabilità dell’occupazione, dell’orario, della conservazione delle mansioni, dell’esercizio dei diritti sindacali.
La riflessione sullo smart working e sulle sue conseguenze sociali chiama dunque direttamente in causa il tema più generale delle scelte politiche di fondo da intraprendere per uscire da una crisi inedita per i suoi caratteri e per la sua portata. L’accordo raggiunto nel recente Consiglio europeo sul Recovery Fund mostra come, sia pure tra mille difficoltà e non senza contraddizioni, il modello di sviluppo neo liberista, fondato, in ultima analisi, sulla fiducia nelle virtù autoriparatrici di un mercato lasciato in balia degli “spiriti animali” del capitalismo, abbia dovuto cedere il passo a una visione più meditata del rapporto tra realtà tra loro interdipendenti. Nel generale capovolgimento delle gerarchie della globalizzazione causato dalla pandemia, l’Unione europea sembra muoversi in modo autocritico nei confronti delle scelte del recente passato e verso la valorizzazione di princìpi di solidarietà, non solo interstatale, di coesione sociale e di reciprocità, che può andare oltre il sostegno ai Paesi più colpiti dall’emergenza sanitaria, assumendo i tratti di un’opzione strategica e delineando un nuovo modello di sviluppo su base continentale.
È una prospettiva ancora fragile, ma che occorre consolidare, anche attraverso l’adozione di un metodo autocritico che non riguarda solo l’Unione europea ma deve investire molte delle scelte politiche maturate in passato nel nostro Paese e oggi non più idonee a fronteggiare un futuro prossimo carico insieme di incertezze e di aspettative: in primo luogo, per quanto concerne il lavoro. Come avvenne cinquant’anni or sono con il varo dello Statuto dei lavoratori, appare oggi necessario rimettere al centro del dibattito politico e istituzionale il tema della centralità dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, non solo come somma di rivendicazioni di una parte pur consistente della popolazione, ma come chiave di volta di una idea di società sulla quale si misura la maturità civile della Repubblica fondata sul lavoro e la sua capacità di tenuta e di ripresa nei momenti di crisi.
Pubblicato giovedì 30 Luglio 2020
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