magnifici_treIl risultato delle amministrative a pochi giorni dai ballottaggi: val la pena fare il punto.

Il clima politico non è stato dei migliori: la torsione polemica e propagandistica sui temi del referendum è parsa la più significativa preoccupazione da parte del Presidente del Consiglio, che ha mantenuto sulle amministrative un profilo relativamente basso; lo scontro fra 5Stelle, Pd e destre è stato peraltro aspro e caratterizzato da reciproci tentativi di delegittimazione: mai con i 5Stelle per le loro ambiguità politiche e ideali e per la scarsa esperienza amministrativa, mai con il Pd per i ripetuti scandali che hanno visto protagonisti rappresentanti del partito, mai con le destre perché vent’anni di Berlusconi hanno rovinato il Paese. Questo, in sintesi.

Con qualche specificazione: la divisione nelle destre è stata lacerante in alcune città, a cominciare da Roma, dove hanno perso proprio perché hanno presentato due candidati in conclamata contrapposizione: Meloni e Marchini. Non si fa la storia (né la politica) con i se e con i ma; è peraltro ragionevole supporre che, ove la destra a Roma si fosse presentata unita, sarebbe giunta al ballottaggio, come è avvenuto – per esempio – a Milano. Anche il Pd ha pagato pegno: a Roma per la inusuale defenestrazione del suo stesso sindaco, a Napoli per le lacerazioni interne, a Milano per la candidatura di Sala, non unanimemente condivisa. Chi ha ragione nel cantare vittoria – entro certi limiti – è il movimento di Grillo, che ha davanti a sé una straordinaria chance nella capitale ed avanza significativamente in alcune città, a cominciare da Torino dove c’è stato con tutta probabilità un errore di sottovalutazione dell’avversario da parte del sindaco uscente Fassino. Del tutto deludente il risultato di Sinistra Italiana, a cominciare da Roma e da Torino (Fassina e Airaudo) e a finire alle discussioni del giorno dopo: davanti al ballottaggio SI si è spaccata fra chi sostiene la necessità di votare per il candidato Pd e chi, viceversa, rivendica la scelta opposta. In ogni caso l’intero progetto politico sembra in forse, confermando l’attuale anomalia italiana, e cioè l’assenza di una forza di sinistra radicata sul territorio, popolare e credibile. Fanno infine storia a sé Napoli e Cagliari, rispettivamente con Luigi de Magistris e Massimo Zedda, addirittura riconfermato al primo turno.

Buche a Roma (da http://www.giornalettismo.com/wp-content/uploads/2014/02/buche-a-roma-11.jpg)
Buche a Roma (da http://www.giornalettismo.com/wp-content/uploads/2014/02/buche-a-roma-11.jpg)

Più da vicino: il successo elettorale del Movimento 5Stelle è meno lineare di quanto non possa apparire vedendo i risultati di Roma; la presenza delle liste di Grillo in soli 251 Comuni su 1.300 rivela una debolezza ancora sistemica: una forza politica che rappresenta indubbiamente un partito che può ambire alla maggioranza relativa non è ancora in grado di presentarsi in modo omogeneo sul territorio; per di più, a fronte di risultati del tutto positivi e in alcuni casi clamorosi, raccoglie anche esiti mediocri, come a Napoli e a Milano. Impressiona, per il Pd, la distribuzione territoriale del voto, con evidente perdita di appeal nei confronti dei ceti popolari, nelle grandi città, Milano, Torino, ma specialmente Roma, ove vince alla grande solo ai Parioli e nel Centro, in cui prevale la presenza di elettorato benestante, e passa il testimone ai 5Stelle nei Municipi periferici, a conferma di una profonda mutazione dell’elettorato di sostegno (o, se si preferisce, del blocco sociale di riferimento): un vastissimo strato popolare, a cominciare da ceti medio borghesi o piccolo borghesi in qualche modo declassati dalla crisi, ha votato per Virginia Raggi; si tratta di lavoratori dipendenti, liberi professionisti, esercenti, oltre che, ovviamente, operai e disoccupati. Tutto questo a fronte di una propaganda 5Stelle obiettivamente più matura: sembra per ora rimossa la politica del “vaffa” e lo stesso Grillo è rimasto in disparte.

Vedremo se e come i ballottaggi redistribuiranno il voto.

Un manifesto del tempo della Prima Repubblica
Un manifesto del tempo della Prima Repubblica

Intanto stupisce nei commenti del giorno dopo da parte di tanti media – ed anche di tanti politici – la scoperta della fine del bipolarismo, essendo evidente che i poli qui ed ora sono quanto meno tre: Pd, Grillo, destra; a sua volta quest’ultima appare divisa in due ed alla ricerca del leader perduto. Stupisce, perché in realtà sono anni che in Italia in bipolarismo si è liquefatto. Anche per questo i paragoni ed i modelli istituzionali che fanno il verso ai grandi bipolarismi occidentali, a cominciare da quello americano, trovano il tempo che trovano. La Prima Repubblica è stato il tempo del multipolarismo, del proporzionale e della conventio ad excludendum del Pci. La (cosiddetta) Seconda Repubblica è stato il tempo di un bipolarismo deforme, con una larga prevalenza di governi Berlusconi: Prodi ha governato per un totale di soli quattro anni (1996-1998, 2006-2008).

Un manifesto della cosiddetta Seconda Repubblica, quando “scende in campo” il tycoon italiano
Un manifesto della cosiddetta Seconda Repubblica, quando “scende in campo” il tycoon italiano

Rimane l’incognita della (ancor più cosiddetta) Terza Repubblica, che nasce nel particolarissimo scenario di tre grandi conglomerati politici – Pd, destra, 5Stelle – con la sostanziale evaporazione di una formazione dichiaratamente di sinistra, nel pieno di una crisi economica e morale senza precedenti, e nella prospettiva di una coppia di riforme (Costituzione e legge elettorale) che, ove passasse, darebbe a un partito di minoranza ed al suo leader un potere mai visto prima dai tempi della Liberazione. L’obiezione per cui nelle “grandi democrazie” come gli Stati Uniti è sempre una minoranza che governa cozza contro il dato di fatto che lì ci sono due partiti, qui no, dunque la rappresentanza in Italia è molto più ridotta. Non solo: lì esiste un reale (e pesantissimo) bilanciamento dei poteri, essenzialmente assente sia nella riforma costituzionale che nell’Italicum. L’altra obiezione: un fortissimo tasso d’astensione nelle suddette grandi democrazie – sostengono alcuni – è un dato fisiologico, per cui il medesimo fenomeno in Italia – peraltro ulteriormente cresciuto in occasione delle amministrative – non sarebbe un problema, anzi può essere considerato una sorta di “dato di crescita” della democrazia italiana. Questo punto di vista mette a nudo una visione davvero pericolosa della democrazia, di fatto elitaria e censitaria, per cui – è il non detto – il suffragio universale è una forma di democrazia che ha fatto il suo tempo. Con tanti saluti alla partecipazione, alla rappresentanza, al controllo sociale e specialmente allo spirito della Costituzione del 1948. E con la benedizione, naturalmente, della J.P.Morgan e degli altri Grandi Manovratori: le banche, le finanziarie e le multinazionali.