Da parte di vari studiosi e anche della minoranza Pd si era giustamente sostenuto, in ossequio al secondo comma dell’articolo 1 della Costituzione – secondo il quale «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione» – che anche l’elettività del “futuro” Senato avrebbe dovuto essere diretta. In altre parole, avrebbero dovuto essere gli elettori e non i consigli regionali ad eleggere i futuri senatori. Così però non è stato.
Trinceratosi dietro l’argomento della non emendabilità del comma 2 dell’articolo 2 del disegno di legge costituzionale n. 1429-B, che prevedeva che i senatori verrebbero eletti dai consigli regionali e provinciale fra i propri membri – comma sul quale si era formato il consenso delle due Camere –, il duo Renzi-Boschi ha concesso alla minoranza Pd nulla di più di una soluzione ambigua e pasticciata, come tale indegna di essere recepita in un testo costituzionale che, per definizione, dovrebbe ispirarsi a sobrietà e chiarezza.
Il vero è che l’argomento secondo il quale il comma 2 era inemendabile, è falso. Esso urta contro il noto precedente della Giunta del regolamento della Camera del 5 maggio 1993 (presidente Napolitano), in occasione della modifica dell’art. 68 della Costituzione, secondo il quale nel procedimento di revisione costituzionale, a differenza del procedimento legislativo ordinario, possono essere introdotti emendamenti anche soppressivi pur quando si sia formato il consenso tra le due Camere. Una modifica della Costituzione, fino a quando non sia stata definitivamente approvata e promulgata, non può infatti prevalere sulla vigente Costituzione.
Ho detto che la soluzione adottata per modificare l’articolo 57 della nostra Costituzione è ambigua e pasticciata. Da un lato (comma 2), i futuri senatori verrebbero eletti dai consigli regionali e da quelli provinciali di Trento e Bolzano, «con metodo proporzionale (…) fra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, fra i sindaci dei comuni dei rispettivi territori»; dall’altro (comma 5), le elezioni dei consigli dovrebbero essere effettuate «in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi, secondo le modalità stabilite dalla legge di cui al sesto comma»: legge che dovrebbe disciplinare le modalità di attribuzione dei seggi e di elezione dei membri del Senato tra i consiglieri e i sindaci.
È però facile obiettare che due “elezioni” – e cioè due scelte aventi lo stesso contenuto –, sono davvero troppe. Infatti, delle due l’una: l’elezione dei senatori da parte dei consigli regionali e provinciali (comma 1), in asserita «conformità alle scelte degli elettori» (comma 5), o sarà una presa d’atto dei risultati dell’elezione popolare – e allora sarebbe un’inutile finzione – oppure (ed è quel che temo) costituirà il pretesto per consentire al Governo di interferire sulle scelte degli elettori in sede di approvazione della legge che disciplina le modalità stabilite per le elezioni senatoriali, ma allora contrasterebbe palesemente con l’art. 1 della Costituzione che garantisce al popolo sovrano l’elettività diretta degli organi legislativi dello Stato e delle Regioni.
Una norma, quella dell’art. 1 della Costituzione, che viene però comunque violata con riferimento ai senatori-sindaci, con riferimento alle cui elezioni i consigli regionali non dovrebbero conformarsi a nessuna previa elezione popolare.
Alessandro Pace, professore emerito di Diritto costituzionale all’Università “La Sapienza” di Roma
Pubblicato giovedì 5 Novembre 2015
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