La tormentata nascita, il 17 maggio, del nuovo governo israeliano, non modifica le impostazioni di fondo della politica perseguita da Netanyahu, che sta portando alle estreme conseguenze gli effetti di oltre cinquant’anni di occupazione militare e di colonizzazione dei territori palestinesi, grazie al sostegno determinante del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump.
Si tratta di un processo che viene da lontano, ma ha avuto una brusca accelerazione negli ultimi due anni quando Israele, sciogliendo gli ultimi dubbi, si è dotato di una legge fondamentale che definisce la sua identità. La legge approvata il 19 luglio 2018 dal Parlamento israeliano ha valore sostanziale di Costituzione, perché definisce la natura dello Stato ed i suoi caratteri fondamentali.
Generalmente le Costituzioni guardano al futuro ed insediano la democrazia in un dato Paese. La Costituzione di cui si è dotato Israele, invece, separa definitivamente la democrazia dal sionismo e ripudia il diritto internazionale.
Per essere più chiari, prendiamo in considerazione il primo articolo della Costituzione italiana che definisce l’identità dello Stato in questo modo: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo…”
L’articolo corrispondente nella Costituzione israeliana è il seguente:
“Lo Stato di Israele è la patria nazionale del popolo ebraico, in cui esercita il suo diritto naturale, culturale, religioso e storico all’autodeterminazione. Il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è esclusivamente per il popolo ebraico”.
Tradotto in soldoni, vuol dire che Israele si autodefinisce come uno Stato etnico-religioso, nel quale l’autodeterminazione (cioè le pratiche della democrazia) sono riservate soltanto a chi professa la religione ebraica. In questo modo si restaura, in punto di diritto, l’apartheid e si ammaina la bandiera dell’eguaglianza innalzata dalla rivoluzione francese, che aveva posto fine – fra l’altro – ai ghetti etnico-religiosi.
Date queste premesse, la nuova legge riconosce valore costituzionale (art.7) agli insediamenti nei territori occupati della Cisgiordania, che sono stati definiti come illegali da centinaia di deliberazioni delle Nazioni Unite: “Lo Stato considera lo sviluppo di insediamenti ebraici come valore nazionale e agirà per incoraggiare e promuoverne l’insediamento e il consolidamento”.
Questa vocazione discriminatoria nei confronti della popolazione palestinese, ha trovato un sostegno incondizionato nell’Amministrazione americana che, nel febbraio di quest’anno, ha partorito il c.d. “accordo del secolo”. Un piano che secondo il Presidente Trump dovrebbe portare la pace tra Israele e Palestina.
A parte la bizzarria di definire “accordo” quello che è un diktat che i vincitori vorrebbero imporre ai vinti, il piano sancisce l’umiliazione e la discriminazione del popolo palestinese, rendendole perpetue attraverso la negazione del diritto internazionale e del principio sancito dalle Nazioni Unite dell’uguaglianza dei popoli e del loro diritto alla libertà e alla dignità. Il territorio della Cisgiordania verrebbe ulteriormente smembrato con l’annessione ad Israele della Valle del Giordano e di tutte le colonie, grandi e piccole, con gli annessi terreni coltivabili. L’entità palestinese non avrebbe nessuna sovranità né sullo spazio aereo né sulle falde acquifere, né controllerebbe i confini con la Giordania.
In sostanza il “piano di pace” di Trump spoglia il popolo palestinese del territorio che la Comunità internazionale aveva riconosciuto ai palestinesi nel quadro di una soluzione pacifica del conflitto e confina la popolazione in una serie di bantustan sul modello delle entità create in Sud Africa dal regime dell’apartheid; mentre la popolazione palestinese che vive all’interno viene sempre più discriminata per il carattere confessionale assunto dallo Stato di Israele.
Adesso che in Israele si è insediato un nuovo governo, il progetto di annessione della Valle del Giordano sta per concretizzarsi e con esso diventa inevitabile l’aggravarsi della situazione di oppressione, di discriminazione e di negazione diffusa dei diritti umani individuali e collettivi del popolo palestinese, che impedisce ogni soluzione ragionevole del conflitto.
Il 12 maggio è stata diffusa una lettera aperta al mondo politico e a quello dell’informazione, sottoscritta da numerose associazioni attive nel campo dei diritti umani e della solidarietà internazionale che lancia un grido di allarme, osservando che: “non si può continuare ad emettere vane condanne con vane parole di fronte alla tragedia del popolo palestinese, all’esproprio continuo della sua terra, alla violazione e alla negazione dei suoi diritti. Occorrono parole e fatti che portino a soluzione di pace”.
Per questo i firmatari chiedono “all’Italia, ai Paesi europei che hanno espresso la loro contrarietà a questo piano e all’Unione Europea di non limitarsi alle parole, ma di adottare azioni concrete e coraggiose nel rispetto del diritto internazionale, sospendendo rapporti economici, militari di collaborazione scientifica e tecnologica con lo Stato di Israele, e di applicare sanzioni nei suoi confronti, come fu fatto verso il Sudafrica dell’apartheid”.
Le Nazioni Unite sono riuscite a sconfiggere il regime dell’apartheid nel Sudafrica, richiedendo alla comunità internazionale un atteggiamento intransigente verso quel regime. Ciò ha consentito che si evitasse un bagno di sangue e che la democrazia ritornasse a fiorire in quelle terre dalle quali era stata lungamente scacciata, creando le basi per una rinnovata convivenza pacifica fra bianchi e neri fondata sull’eguaglianza e sul rispetto dei diritti umani.
Una cosa è certa, la pace non si può ricercare al di fuori della giustizia e del diritto. E noi sappiamo – ce lo insegna il salmista – che “nel deserto prenderà dimora il diritto/e la giustizia regnerà nel giardino/l’effetto della giustizia sarà la pace/ frutto del diritto una perenne sicurezza”.
Domenico Gallo, magistrato
Pubblicato martedì 19 Maggio 2020
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