Prins Bernhardplein 200 è un indirizzo abbastanza anonimo, lontano dal fasto del Prinsengracht, dove hanno sede i più importanti studi legali di Amsterdam. Un palazzo moderno, con i mattoncini rosa, che costeggia una stradina con qualche alberello e tanti vasi di fiori. Molte le biciclette appoggiate agli alberi o nelle rastrelliere fuori dall’ingresso dei garage, che si aprono per far passare, nel silenzio della periferia della capitale dei Paesi Bassi, qualche berlina importante, spesso con i vetri oscurati.
Perché agli avvocati dai roboanti studi sui canali del centro città, ai colleghi di Zurigo, di Londra, di Berlino – ma anche a quelli di Milano e Roma – può capitare di fare un salto nel discreto palazzetto con le persiane rosso scuro. In genere accompagnati da commercialisti di fama internazionale e da qualche funzionario contabile delle più importanti imprese multinazionali.
Prins Bernhardplein 200 ospita infatti anche gli uffici della Intertrust, che annovera tra i suoi clienti 6 tra le 10 società più ricche del mondo e la metà delle “Top 50” di Fortune Global 500, ovvero la lista delle 500 aziende più ricche del mondo. Conglomerati che hanno generato – nel 2018 – 32,7 trilioni di dollari di ricavi e 2,15 trilioni di dollari di profitti. E se i legali e i contabili di queste bottegucce che fanno lavorare 70 milioni di persone passano ogni tanto per Amsterdam, non è certo solo per gustare la cucina locale, fortemente influenzata dal passato coloniale in Indonesia, né per approfittare degli sconti sui tulipani.
Come recita il sito della società in questione – che oltre all’Olanda ha sedi in tutto in mondo, con una spiccata predilezione per nazioni esotiche come le Bahamas, le Isole Cayman, Curaçao, il Lussemburgo, Guernsey e gli Emirati – i Paesi Bassi hanno un clima imprenditoriale internazionale consolidato, grazie a una lunga tradizione di stabilità politica e sociale, a uomini d’affari qualificati e ad una vasta rete di trattati di investimento.
Con raffinatezza, gli esperti “altamente qualificati e motivati in diritto e finanza” della Intertrust, fanno anche notare che Prins Bernhardplein 200 non è lontano dalle eccellenti infrastrutture fornite da Rotterdam – il più grande porto d’Europa – e da Schiphol – il quinto aeroporto internazionale più trafficato del mondo – che giustificherebbe il fatto che i Paesi Bassi siano una delle località più popolari d’Europa per le strutture aziendali, centri logistici e molte altre operazioni legate al business. Soprattutto per le multinazionali, le istituzioni finanziarie ed i fondi di investimento alternativi di tutto il mondo.
Quello che il sito non dice, è che diritto societario olandese offre una sottile particolarità, ovvero quella del “voto ponderato” all’interno del consiglio di amministrazione. Che, in parole povere, vuol dire che chi ha il pacchetto azionario più grande, anche se inferiore al 30 o perfino al 20% delle azioni, può contare su un potere di voto superiore al 50%. E controllare l’azienda anche con poche azioni …
E, se non bastasse questo meccanismo che spiega già da solo perché in quel triste fabbricato rosa abbiano trovato casa la Exor, cioè la cassaforte di Casa Agnelli, e MediaforEurope – ovvero Mediaset e Fininvest – i Paesi Bassi hanno un secondo asso da far uscire dalla manica quando necessario: una tassazione sugli utili finanziari prossima allo zero.
Che vuol dire che delle plusvalenze generate dalle suddette imprese, una piccola parte trova la strada delle casse del governo dell’Aja – invece di transitare in quelle degli stati in cui le multinazionali lavorano, producono e approfittano dei servizi – ed il resto rimane nella disponibilità degli azionisti, che per questo regalo possono perfino accettare di fare un salto ad Amsterdam una volta ogni tanto. Comincia ad essere più chiaro perché il soverno di Sua maestà Guglielmo Alessandro è il più restio a lanciarsi in un’opera di solidarietà europea?
Volendo essere rispettosi, potremmo immaginare che sia proprio il concetto di “solidarietà” che sfugga al primo ministro Mark Rutte e colleghi, perché una parte della fortuna della nazione è proprio costruita sull’idea di sottrarre ricchezza agli altri.
Offrendo uno scudo ornato di fiorellini a tutte quelle imprese che desiderino approfittare degli ingenti finanziamenti dei Paesi in cui lavorano (per carità di Patria eviterei di fare i conti del denaro pubblico sinora iniettato nell’ex Fabbrica Italiana Automobili Torino, ad esempio), sottraendo però alla locale tassazione quegli utili generati anche grazie a tali vantaggi. Insomma, una specie di “furbetti del quartierino europeo”, che della UE sfogliano la margherita, approfittando di tutto quanto fa loro ben comodo (libera circolazione delle sedi legali delle imprese e dei capitali) e rifiutando scontrosamente di partecipare ad ogni azione che ‘restituisca’, che ‘ridistribuisca’ un po’ di quei soldini.
È anche vero che il Premier olandese è in una situazione poco invidiabile, da una parte per il ruolo che i Paesi Bassi hanno scelto d’interpretare ormai da qualche anno, dall’altra per la situazione politica interna. Le elezioni del marzo scorso hanno visto infatti i popolari di Rutte portare a casa solo 12 seggi e la coalizione perdere 7 scranni al parlamento dell’Aja, a fronte del raddoppio dei Verdi e del rafforzamento del Forum per la democrazia di Thierry Baudet, fervente anti-europeo.
Il Forum è il principale concorrente a destra del Partito per la libertà di Geert Wilders ed il Primo ministro ha un margine di manovra assai ridotto. Qualunque cedimento, ogni apertura ad una linea più morbida farebbe il gioco di Wilders e Baudet.
Determinando quella situazione kafkiana per la quale Rutte deve dire “NO” all’Italia perché senno gli olandesi voterebbero Wilders – che è un alleato di Salvini. Insomma, se dicesse “SI”, rafforzerebbe il populismo olandese (ed europeo), quando dice NO fa il gioco della Lega, aumentando i consensi al populismo italiano (ed europeo)…
E lo stesso schema si ripete, ovviamente, anche in Germania. Dove una Merkel in fine mandato ed indebolita da una ripetuta serie di sconfitte, non può dare l’impressione agli elettori di centro destra di fare favori ai paesi del sud, pena l’automatico rafforzarsi dell’Alternativa per la Germania (Afd), il partito di estrema destra che rappresenta ormai il terzo gruppo più numeroso all’interno del Parlamento e che si è detto subito contrario agli eurobond, con la ferma dichiarazione del suo portavoce: “né il coronavirus né l’euro giustificano il fatto che i contribuenti tedeschi siano dissanguati per il debito dell’intera UE”.
A ciò si aggiunge il ruolo di “bad cop”, il poliziotto cattivo, che i Paesi Bassi, volenti o nolenti, interpretano ormai di concerto con Berlino. Le relazioni tra i due stati sono forti e durature, l’elettorato si assomiglia, gli interessi commerciali ed industriali vanno di pari passo. Ma se certe posizioni le assumesse la Germania da front runner, ovvero se fosse la locomotiva d’Europa ad essere in prima fila nel predicare rigore, il governo tedesco da una parte perderebbe quel vantaggio psicologico dato dall’apparire come chi cerca una mediazione (personaggio che Angela Merkel recita con maestria) e dall’altra seminerebbe il panico.
Perché la Germania fa paura e non può o non vuole permetterselo. Essenzialmente per il complesso del passato.
È infatti bastato un articolo su Die Welt (che ha autorevolezza ed imparzialità paragonabili a quelle di Libero, Il Giornale, la Verità ed il Foglio messe assieme) per scatenare commenti indelicati che partivano dall’invasione della Polonia terminando con la remissione dei debiti di guerra. E se Berlino apparisse più forte di quello che lascia trasparire, mettendo sul tavolo dei negoziati UE ed internazionali il suo giusto peso, farebbe paura non solo nella vecchia Europa, ma anche a Washington, che ha un lungo rapporto d’amore/odio, amicizia/timore con la Germania. Da qui la scelta di mandare avanti i Paesi Bassi, un po’ come quei terrier che abbaiano ai doberman, forti del pastore tedesco che sta alle loro spalle…
Germania ed Olanda a tener la linea dura quindi, con il sostegno dell’Austria, della Finlandia ed il balletto francese, che ha visto Emmanuel Macron schierato con Conte e a Sanchez per chiedere una svolta nella politica europea sino al fischio di Angela Merkel, che ha riportato l’Eliseo dalla parte di chi i covidbond non li vuole nemmeno dipinti. Ed in tutto questo l’indebolimento della percezione dell’Europa, l’euroscetticismo montante, un senso di tradimento che serpeggia. A ragione? Forse no.
Il Financial Times, alla vigilia dell’Eurogruppo di “giovedì santo”, scriveva che gli Italiani erano furiosi per l’indifferenza europea verso le loro condizioni e l’eccessiva resistenza ai coronabond. Per il prestigioso quotidiano economico “c’è il rischio che l’Italia volti le spalle al progetto europeo”. Eppure chi porta l’analisi più fine è l’ex Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, che parla di “enorme perdita di reputazione”.
Perché di questo si tratta, in fondo. La massiccia campagna antieuropea, la diffusione – a destra ed a sinistra – di giudizi invece che d’informazione, l’ondata di notizie false sulle reazioni di alcuni stati europei all’emergenza Covid, che hanno addirittura portato sia la Commissione europea sia alcuni governi a nominare specifiche commissioni di lavoro contro le fake-news, hanno dato dell’Unione Europea la peggiore immagine possibile, minando quel poco che ancora restava della sua reputazione.
Eppure. Eppure se si analizzassero i passi avanti fatti in questo momento di crisi, la percezione potrebbe/dovrebbe essere ben diversa.
In un mese è caduto il dogma del “deficit zero”, seppellito con l’annuncio del piano da 156 miliardi di euro finanziato principalmente dal debito. Si sono scritte pagine di fuoco sul pareggio di bilancio e sulle pessime scelte fatte. E “Puff!”. Spazzato via in un attimo.
La Grecia è l’emblema della cattiveria con la quale alcuni governi hanno usato strumenti dell’Unione per rafforzare il rigorismo. Il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), detto anche Fondo salva Stati, pareva graniticamente prevedere clausole capestro per asservire ed umiliare quei poveri paesi che si fossero ritrovati a seguire Atene sulla cattiva strada. Ed in una notte (e qualche giorno di negoziato piuttosto duro) il MES ha perso ogni durezza diamantata, piegandosi alla politica con la creazione di una linea di credito speciale chiamata “Pandemic Crisis Support”. Alla quale ogni Paese dell’eurozona potrà eventualmente attingere per una cifra pari al due per cento del suo Pil alla sola condizione di impegnarsi ad usare questi fondi per il sostegno “diretto e indiretto dell’assistenza sanitaria reso necessario dalla crisi del covid-19”.
Chi dai tetti del Brandeburgo predicava l’indissolubilità del matrimonio tra “salva Stati” e cattiveria, chi ha sostenuto che l’economia avesse il primato sulla politica, chi difendeva con le armi la cassaforte nata per venire in aiuto ai bisognosi, oggi si pavoneggia dichiarando di aver bloccato i coronabond. Cercando di nascondere dietro l’ampia coda la sonora sconfitta del rigorismo. Ma, soprattutto, la vittoria della politica sull’economia.
Vero che l’Italia e altri paesi UE si sedevano al tavolo dei negoziati con la richiesta di un accesso agli aiuti del MES senza condizionalità, ma come sempre succede quando si tenta di ottenere qualcosa, occorre partire da una posizione estrema per far passare un punto di mediazione. Missione riuscita con una certa abilità dal nostro governo, che in un solo colpo ha ottenuto di “poter” eventualmente ricorrere anche a quei fondi (non vi è infatti nessun obbligo), di far prevalere il dialogo politico alla fermezza dei principi economici e di smontare il paradigma delle “rigorose condizionalità” previste dall’articolo 136 del Trattato, che dispone che la concessione di “qualsiasi assistenza finanziaria” sia soggetta ad esami preventivi per non lanciare un cattivo segnale ai mercati.
Al di là della disastrosa comunicazione che tende a fare di Bruxelles il consueto capro espiatorio, la lista degli interventi coordinati dall’Unione Europea è in realtà lunga e dettagliata. Senza voler essere esaustivi, varrebbe la pena di non dimenticare ad esempio che già il 23 marzo scorso i ministri delle Finanze avevano approvato la decisione della Commissione sulla flessibilità nei bilanci nazionali, per sostenere l’economia. Con uno specifico quadro temporaneo di approvazione semplificata ed in deroga degli aiuti di Stato per accelerare il sostegno pubblico alle imprese.
Così come l’uso delle risorse esistenti del bilancio UE per combattere la crisi, con l’utilizzo di 37 miliardi di euro per affrontare il covid-19 e l’accesso ad un sostegno finanziario fino a 800 milioni di euro. O l’azione dalla Banca centrale europea, che dopo la caduta di stile di Madame Lagarde ha lanciato un programma di acquisto di titoli di stato nazionali da 750 miliardi di euro. Cui si aggiunge la risoluzione della Banca Europea per gli Investimenti di creare un fondo di garanzia paneuropeo di 25 miliardi di euro, che potrebbe sostenere 200 miliardi di euro di finanziamenti per le imprese con particolare attenzione alle Pmi.
Ed accanto ai provvedimenti per la sanità, le grandi e piccole imprese, non va dimenticato “Sure”, uno strumento a sostegno degli Stati membri per proteggere l’occupazione, sotto forma di prestiti concessi a condizioni favorevoli dall’UE fino a 100 miliardi di Euro, per tutelare i lavoratori e l’occupazione finanziando regimi come la cassa integrazione in Italia o il Kurzarbeit in Germania.
Insomma, ci siamo stracciati le vesti per anni sostenendo, giustamente, che questa non era l’Europa che volevamo. Lo abbiamo messo nero su bianco nell’appello che le organizzazioni antifasciste europee hanno preparato e diffuso in occasione delle elezioni del 26 maggio scorso, chiedendo un’Europa che assicurasse “una politica sociale che garantisca a tutti il lavoro, l’istruzione, il sostentamento.” Ma è solo seguendo acriticamente quel flusso d’informazioni che tende a stigmatizzare l’Unione Europea a qualunque costo, che potremmo analizzare in modo totalmente negativo la risposta europea all’emergenza Coronavirus.
Se – al contrario – procedessimo con un’attenta analisi di quanto è stato fatto (e non di cosa questo o quel leader politico d’opposizione sostiene si sarebbe dovuto fare), le conclusioni potrebbero essere differenti.
Perché, certo, si sarebbe potuto fare di più. Più velocemente, meno burocraticamente, con definizioni e spiegazioni più alla portata di tutti. Ma sarebbe colpevole dimenticare che, piaccia o meno, ogni decisione è il risultato di un compromesso tra 27 governi, che a loro volto devono tenere assieme sensibilità sociali e politiche differenti. Perfino i nostri ex compagni di viaggio d’oltremanica si sono appoggiati alle strutture dell’Unione nonostante l’infausta decisione di uscirne; e lo stesso hanno fatto stati che nell’UE hanno rifiutato d’entrare come la Norvegia o la Svizzera. Perché come ricordato da autorevoli fonti, nessuno si salva da solo.
Senza la collaborazione dei consoli di tutti questi Paesi con il meccanismo di protezione civile dell’Unione, non avremmo riportato a casa oltre 400.000 cittadini europei in viaggio durante la pandemia. Senza la forza che un insieme di mezzo miliardo di persone rappresenta nel quadro internazionale, ci saremmo trovati da soli a combattere a suon di dollari contro gli acquisti degli Stati Uniti di materiale protettivo. Senza l’imposizione europea di mantenere aperte le frontiere per il transito dei mezzi che distribuiscono beni necessari, ogni Paese avrebbe corso il rischio di soccombere alla tentazione di sequestrare tutto il possibile per i propri cittadini, a scapito dei destinatari reali di quei beni.
Spetterà ai capi di Stato e di governo dei 27 continuare il lavoro comune. Che ha visto sin qui – nonostante i tentativi dei populisti e dei rigoristi di ogni latitudine – far finalmente prevalere la politica, il dialogo, l’attenzione ai bisogni dei cittadini, sul cieco formalismo che l’Unione Europea pareva aver adottato come dogma da un po’ di tempo.
Non è ancora “la nostra Europa”, lungo è il cammino, ma sembra che all’ultimo bivio si sia scelta la giusta direzione. Aiutiamo a tenere la rotta senza cacofoniche distrazioni, perché non vi è nessuna certezza che il prossimo crocicchio non nasconda altre insidie.
Filippo Giuffrida Repaci, membro dell’Esecutivo della Federazione Internazionale Resistenti
Pubblicato venerdì 10 Aprile 2020
Stampato il 11/10/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/niente-tulipani-ma-lue-ce/