Gli italiani sono stati protagonisti del maggior esodo migratorio della storia moderna. Nello spazio di poco più di un secolo, dal 1861, si registrano circa 25 milioni di partenze, un numero quasi equivalente alla popolazione totale all’epoca della unificazione dl’Italia. La Legge Crispi del 1888 ufficializza la libertà di emigrare, ma non possiamo dimenticare che essa ha avuto inizio molto prima, anzi in alcune aree il fenomeno è stato sempre presente. Già durante l’Ancien Régime, gli abitanti della penisola si mettono in viaggio. Nel XVI e XVII secolo boscaioli e contadini dell’Appennino piacentino-parmense e tosco-ligure si muovono verso la Corsica. Girovaghi e circensi vanno invece verso l’Europa continentale. Durante l’età napoleonica le attività agricole e minerarie sviluppano nuovi poli di insediamento nel Piemonte, lungo il litorale toscano, in Corsica e nel Lazio. L’impero austro-ungarico attrae regolarmete manodopera dal Lombardo Veneto e offre uno sbocco per quella scuola italiana di muratori e scalpellini formatasi sulle basi di un’antica tradizione durante le grandi stagioni delle opere pubbliche napoleoniche. L’emigrazione parmense di suonatori d’organetto in Inghilterra apre la strada a camerieri, pasticcieri e asfaltatori di strade provenienti da Liguria, Lombardia e Toscana.
Nella penisola italiana di inizio secolo XIX esiste una notevole mobilità interna nonostante ci siano divisioni politiche ed amministrative. Pastori e contadini non esitano a spostarsi dalle terre di origine per recarsi in regioni in cui è pressante la richiesta di manodopera. Al nord uno dei poli di attrazione è formato dai territori occidentali della pianura Padana dove la coltivazione del riso attira braccianti e mondine dalle zone alpine ed appenniniche. Nel centro, la Maremma e la campagna romana attirano manovali e pastori delle Marche e dell’Abruzzo, mentre al sud Foggia e parte della Puglia settentrionale vengono elette residenza invernale dei pastori transumanti. In Calabria i latifondi del Marchesato crotonese sono uno dei luoghi di lavoro preferiti dai contadini pugliesi e lucani. I flussi si intensificano nella metà dell’Ottocento. Nel 1851 si spostano in Corsica più di 1200 manovali emiliani e centinaia di lavoranti toscani. Alla stessa data si trovano ambulanti emiliani e lucchesi a Napoli, Genova, Trieste, Barcellona, Londra, Parigi, Berlino, Pietroburgo, Malta, Tunisi e Corfù. Il flusso diviene sempre più cospicuo: girovaghi lucchesi e piacentini fanno tappa a Genova e da lì si imbarcano per andare nelle Americhe o verso la Scandinavia. Durante la prima metà dell’800, la mobilità degli italiani verso i Paesi europei è comunque piuttosto limitata. Partono soprattutto gli artigiani impiegati nel settore edilizio, i figurinai, i bambini schiavizzati nelle vetrerie d’oltralpe, musicisti ed artisti di strada. A questo tipo di mobilità si accompagna quella degli uomini d’affari e dei finanzieri, degli intellettuali, degli esuli politici e dei profughi. I primi a partire sono gli abitanti delle città del nord come Bergamo e Como.
Vanno soprattutto in Francia e in Svizzera dove lavorano nella costruzione delle strade, ponti e ferrovie. Si tratta di manovalanza a basso prezzo e senza diritti. Ritals, Piafs, Pioums, Maguttes: i nomignoli intraducibili affibbiati agli emigranti italiani nelle regioni di lingua francese sono molti. La lunga lista di spregiativi testimonia quanto sia stata complessa l’emigrazione italiana. “Alcuni decenni fa, lo straniero, il corvaccio, l’uomo col coltello era l’italiano […], era il capro espiatorio responsabile di tutto ciò che non funzionava bene in Svizzera”, ricorda lo scrittore Raymond Durous in Des Ritals en terre romande. Eppure alcuni riescono a migliorare le loro sorti grazie “a una tenace volontà, a un desiderio di lavorare impari e al prezzo di grandi sacrifici”. I movimenti temporari non sono sufficienti a risolvere i problemi causati da economie povere delle valli degli Appennini e delle aree sfavorite del territorio.
Alcuni emigrano anche in luoghi più distanti come la Gran Bretagna ove il primo cenno della presenza di italiani poveri a Londra è dato dal Times. In un articolo del 20/3/1820 si legge: “Il pubblico è da qualche tempo sempre più irritato dalla comparsa di alcuni ragazzi italiani con scimmie e topolini, che vagabondano per le strade sollecitando la compassione delle persone benevole. Sembrerebbe che da un bel po’ di tempo due italiani si guadagnino da vivere mandando a mendicare questi ragazzi, che loro stessi hanno condotto dall’Italia per questo scopo. […] La «Società contro il vagabondaggio» ha scoperto che i due uomini sono ritornati in Italia l’anno scorso con ben 50 sterline, risultato di questo traffico”. Occorre ricordare che nella prima metà del Settecento i mercanti italiani di spezie, tessuti e seta si recano periodicamente in Francia alle fiere della Champagne. A partire dalla seconda metà del secolo prevalgono, invece, i professionisti legati alle attività finanziarie e al prestito di denaro, come gli usurai e i banchieri dapprima lombardi, poi toscani, liguri e veneti. Accanto a loro, nell’Ottocento si affacciano i musicisti, gli ambulanti, i vetrai, i suonatori di organetto, i lustrascarpe e gli spazzacamini. Gente in fuga dalla povertà delle campagne e delle province urbane italiane cerca lavoro nei campi, nelle fabbriche, nelle miniere francesi. Tra le fila di agricoltori, operai, minatori, muratori, artigiani e mercanti, si nascondono anche molte donne, mamme e operaie, come le carbonare nel Département du Tarn, le balie toscane, le sarte e le seggiolaie provenienti dalle regioni del Nord Italia.
Poi vi sono le storie drammatiche dei bambini: piccoli vetrai nella valle del Rodano, nella Loira e del Puy de Dôme chiamati anche gli «schiavi bianchi» relativamente ai quali un’inchiesta parlamentare del 1901, presentata dal giornalista Ugo Cafiero, denuncia le condizioni di vita e di sfruttamento, individuandone le responsabilità politiche e le ragioni sociali. Iniziano anche episodi di xenofobia nei confronti degli italiani. Se fino alla metà dell’Ottocento la presenza italiana in Francia è scarsa, da questo momento in poi si parla di vera e propria invasione, come scrive Bertrand Louis nell’omonima opera «L’invasion». Nel 1851 i censimenti francesi cominciano a conteggiare anche gli stranieri e la presenza italiana è valutata di una certa consistenza numerica. I sudditi dei vari stati della penisola italiana risultano pari a 63.000, sul totale complessivo di 380.000 stranieri. Il vero salto quantitativo verso un’emigrazione di massa si realizza però dopo il 1860. Nel 1876 gli italiani in Francia sono 163.000; nel 1881 il loro numero sale a 240.000; mentre all’inizio del nuovo secolo la colonia transalpina avrebbe raggiunto la cifra di 330.000. E che dire della Norvegia nell´Ottocento che pure accoglie gli italiani?
L’emigrazione in Norvegia nell’Ottocento è composta soprattutto da mercanti, artigiani, venditori di statuine di gesso e musicisti da strada. Si tratta di gruppi di persone provenienti dal Nord Italia, una manodopera povera e spesso ostacolata dalle autorità norvegesi. Nonostante l’esiguo numero di italiani che si sposta nel Nord, l’emigrazione ottocentesca in Norvegia è un fenomeno che condizionerà le scelte migratorie degli italiani nell’immediato dopoguerra. Intanto in America fino al 1830 si contano appena 439 italiani e il modesto esodo rimarrà tale fino alla costituzione del Regno d’Italia, quando per l’aumento della popolazione, le repressioni nel meridione, le politiche adottate dallo statuto Piemontese ed altri motivi che saranno approfonditi in altro articolo, il movimento migratorio degli italiani subirà una grande impennata, soprattutto verso le Americhe.
.Antonella Rita Roscilli, giornalista brasilianista, scrittrice e traduttrice
Pubblicato venerdì 16 Novembre 2018
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