L’aborto è divenuto legale in Argentina. Una conquista dei “fazzoletti verdi”, simbolo del movimento femminista nel Paese sudamericano

Ci separano poco meno di dodicimila chilometri. Ma le distanze non contano quando si tratta dei diritti delle donne. In Argentina le donne ce l’hanno fatta, dopo anni di battaglie: potranno scegliere, non moriranno più di aborto, la legge ora è dalla loro parte. Con una decisione storica, il Senato ha reso legale l’interruzione volontaria di gravidanza.

Una grande vittoria che rallegra noi e le donne di tutto il mondo, che cancella un’ingiustizia, una delle tante, che vuole le donne prive di diritti sacrosanti. Una legge che le donne argentine aspettavano da un secolo tondo. Dal 1921 avevano la possibilità di abortire solo in due casi: pericoli per la salute della madre, violenza sessuale. Mai prese in considerazione le decine di altre motivazioni, economiche, sociali, o privatissime, la libertà di scegliere.

Dopo il via libera del Senato all’interruzione volontaria di gravidanza, in migliaia hanno festeggiato in piazza

E ora ci si aspetta che il traguardo possa fare da apripista in tutti gli altri Paesi dell’America latina. Nel continente sudamericano questa libertà è “concessa” solo nello Stato di Città del Messico, a Cuba, in Uruguay e in Guayana. E adesso in Argentina. Finalmente. Sappiamo bene però che le donne non possono mai smettere di lottare. Per conquistare prima, e tutelare poi il loro spazio, la loro dignità, la loro stessa vita. In ogni angolo del pianeta.

Mentre dall’altra parte dell’Atlantico un urlo di gioia squarciava il silenzio delle strade di Buenos Aires e di altre città argentine, dove migliaia di donne e anche di uomini si riversavano per festeggiare la vittoria, qui da noi, in Italia, si piangeva una grande donna.

Agitu Ideo Gudeta, ammazzata e violentata

Assassinata da un uomo, l’ennesima, Agitu Gudeta. “Un delitto nato per un contrasto di lavoro”, avevano titolato inizialmente alcuni dei mass media. A riprova che pure l’etica del linguaggio continua a fare acqua, a minimizzare, oltraggiare, uccidere le vittime una seconda volta.

È vero. Non è la prima volta che un dipendente aggredisce un datore di lavoro. Raramente, ma accade. Persino per il ritardo di un pagamento di un solo stipendio che, senza concedere attenuanti ad alcuno, in tempi di magra è un problema. Eppure avete mai letto, sentito, mai immaginato che un dipendente, oltre ad aggredire il datore di lavoro, dopo averlo tramortito, lo stupra mentre è agonizzante? No, mai. Però la grande, splendida, creativa, colta, coraggiosa Agitu Gudeta è una donna. Qui sta la grande differenza, l’orrenda e inaccettabile discriminante che fa di questo assassinio un femminicidio. Atterrisce questa ormai eterna vulnerabilità dell’essere donna. Al di là di tutte le azioni violente a cui non riusciamo ad assuefarci, per fortuna, delle motivazioni mai accettabili, e che riguardano l’umanità intera, l’essere donna è, nella cultura e nel sentire di molti uomini, sinonimo di fragilità, di cosa propria, di possesso. Di quel corpo esamine l’assassino, reo confesso, ha fatto quello che ha voluto.

Una seconda considerazione. Si è detto pure che Agitu è morta per mano di un “fratello”, cioè un africano come lei, il custode della sua azienda, originario del Ghana, e che questo provoca, oltre al dolore, anche meraviglia, sconcerto, incredulità. Perché questa sorpresa se la cultura che fa delle donne “cosa propria” degli uomini è dura da sradicare in ogni parte del mondo?

Non solo. Qualcuno, qua e là, ha scritto e detto che solo una “bestia” di “extracomunitario” avrebbe potuto compiere questo orrore. Le strumentalizzazioni razziste della destra non potevano mancare. Non ce le hanno mai risparmiate, del resto. Dimenticando che la stragrande maggioranza dei femminicidi in Italia avviene per mano bianca e “ariana”. Allora è bene ribadire che, bianca o nera che sia stata quella mano, ha voluto cancellare l’indipendenza di una donna ardita e libera. Che l’assassino, di pelle nera o bianca che sia, non sopportava il suo potere di essere donna libera. È stato un uomo. Punto. Noi continuiamo a dire ad alta voce che questi sono stereotipi da abbattere, che se colpiscono una colpiscono tutte noi, che la violenza sessuale e i femminicidi, sono parte integrante delle dinamiche di potere dell’uomo sulla donna duri da sconfiggere. Parte di quell’ordine patriarcale che Agitu, come tante altre donne nel mondo, lottando in prima persona e rendendosi autonome, vogliono abbattere. Non ci sono attenuanti per l’assassino che l’ha uccisa a martellate e poi, avrebbe ammesso, abusato di lei, di quel corpo inerme che è stato così umiliato perché corpo di donna, una cosa, non una persona.

Agitu Gudeta con alcuni dei prodotti della sua azienda agricola

In molti conoscevamo questa donna coraggiosa, nata ad Addis Abeba 43 anni fa, che aveva studiato sociologia all’università di Trento per poi ripartire per l’Etiopia, il suo Paese. Era tornata in Italia 10 anni fa per fuggire alla guerra. Aveva iniziato un allevamento di capre in Trentino. Non voleva dipendere da nessuno. Era riuscita ad aprire un negozio dove vendeva formaggi di latte di capra e prodotti cosmetici a base della stessa materia prima. Di lei, donna sola per scelta, come dovrebbe essere per ognuna di noi, si erano occupati giornali e trasmissioni televisive. Una donna salda nelle sue convinzioni, una donna che combatteva gli stereotipi di genere e che credeva di poter vivere da donna libera.

Con il dolore nel cuore, continueremo a combattere per te, perché questo significa combattere per noi tutte, Agitu. Libere sempre.