La riforma del Titolo V della Carta costituzionale, nel 2001 votata a maggioranza dal centro-sinistra e legittimata dal referendum costituzionale svoltosi nell’ottobre dello stesso anno, ha introdotto nel nostro ordinamento la possibilità di conferire alle Regioni ordinarie ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia ai sensi dell’art. 116 terzo comma e 117 della Costituzione (si pensi per esempio alle norme generali sull’istruzione che la stessa Carta attribuisce alla competenza esclusiva dello Stato o in tema di distribuzione nazionale dell’energia o, diversamente, nelle altre materie di competenza regionale concorrente), nonché la cancellazione dell’interesse nazionale come limite generale nel riparto delle competenze.
Tale modifica, sostenuta allora anche dalle forze progressiste per cercare di contenere l’espansione federalista del leghismo, nella sua concreta attuazione rischia non solo di aumentare ulteriormente le disuguaglianze fra le Regioni ricche e quelle povere del nostro Paese ma di violare anche il principio costituzionale di solidarietà previsto dall’art. 2 della Costituzione. Quella scelta politica, che a sinistra pochi contrastarono (fra gli altri Rifondazione per onestà intellettuale), si è rivelata un gravissimo errore politico.
Attualmente, il ministro Calderoli è stato incaricato dal governo Meloni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario.
Il disegno di legge delega individua il percorso di trasferimento dallo Stato alle Regioni delle funzioni amministrative e delle risorse economiche necessarie e demanda a una fase procedimentale successiva la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Il Parlamento interverrebbe, successivamente, all’intesa raggiunta fra Stato e singola Regione per eventuali modifiche.
Alcune osservazioni in ordine sparso, sul disegno di legge e in generale per quanto concerne il dibattito politico:
1) il ricorso alla legge delega governativa testimonia il rischio di delegittimare ulteriormente il potere decisionale del Parlamento;
2) è evidente l’assenza di certezze sulla sostenibilità economica del progetto che, secondo la stessa Corte dei Conti (oggi sotto attacco dell’esecutivo per aver osato segnalare il rallentamento della tabella di marcia relativa al Pnrr) dovrebbe gravare sulla finanza pubblica;
3) l’attuazione dell’autonomia differenziata svuoterà, definitivamente, il principio costituzionale di eguaglianza sostanziale previsto dall’art. 3 della Costituzione;
4) il sistema regionale differenziato in tema di organizzazione sanitaria ha dimostrato, nel periodo di emergenza Covid, il suo fallimento: la vergogna della migrazione sanitaria da Regione a Regione per ottenere cure adeguate ne è una testimonianza evidente. Durante il Covid e di fronte a una pandemia che ha riguardato tutto il pianeta, abbiamo assistito al tentativo che una singola Regione cercasse di acquistare, per se stessa, vaccini non autorizzati, come accaduto con il russo Sputnik. Insomma, venti sistemi sanitari differenti e diversificati.
Pensiamo alla materia della scuola, destinataria potenziale delle richieste regionali di autonomia differenziata: la missione della scuola è consentire a tutti i bambini e poi ai ragazzi di scoprire quale è la magia che hanno dentro se stessi e quindi fare le proprie scelte di vita, lamentando se non annullando i divari sociali di partenza. Una scuola così è per definizione nazionale anzi, potenzialmente europea.
Oggi la scuola misurata in euro per studente è molto più cara nel Mezzogiorno perché il percorso professionale degli insegnanti vede in genere candidati meridionali che vincono un concorso e vanno a insegnare a Nord, con retribuzioni basse, e che poi acquisiscono punteggio e ottengono negli anni il rientro al Sud, a stipendi lordi sensibilmente più elevati. Regionalizzare e portare tutte le regioni al medesimo “costo standard “significa letteralmente trasferire miliardi da Sud a Nord.
Che fare? Occorrerebbe abrogare l’intero Titolo V, e tornare al testo originario della Costituzione del 1948. Ma non si può pensare concretamente di cancellare venti anni di applicazione del Titolo V, che hanno cambiato in profondità gli assetti istituzionali, determinando l’aumento dei conflitti di attribuzione fra Stato e Regioni avanti la Corte Costituzionale. Una tale proposta, inoltre, non avrebbe concrete possibilità di essere assunta nei processi politici istituzionali di decisione.
Piuttosto, va sostenuta, con forza e sostegno politico delle forze politiche progressiste, la petizione popolare presentata dal Coordinamento per la Democrazia Costituzionale che si propone di modificare gli art. 116 e 117 della Costituzione e, conseguentemente, di individuare i punti di maggiore sofferenza e pericoli per l’unità della Repubblica evidenziati già nel dibattito dottrinale sviluppatosi tra costituzionalisti autorevoli (Villone, Azzariti e molti altri e altre che sostengono questa petizione) sul regionalismo differenziato, e poi successivamente nell’esperienza della lotta alla pandemia.
Occorre esplicitare che la diretta connessione con una specificità territoriale è requisito essenziale per la concessione di “forme e condizioni particolari di autonomia”, superare il sistema pattizio dell’intesa fra Stato e Regioni e prevedere un referendum sul modello costituzionale previsto dall’art. 138 riguardante la legge parlamentare di conferimento delle nuove funzioni attribuite.
Occorre, ancora, riportare alcune materie che si ritengono strategiche per l’unità del Paese alla potestà esclusiva statale ai sensi dell’art. 117 secondo comma.
In primo luogo la tutela della salute, per ripristinare un servizio sanitario effettivamente nazionale, che la pandemia ha ampiamente dimostrato non più sussistente.
Si aggiunge la scuola, unitamente all’università e alla ricerca, la cui disciplina uniforme è in vario modo strategica per l’unità della Repubblica. Oppure, in situazione di crisi energetica determinata da questa schifosa guerra nel cuore dell’Europa, si pensi alla distribuzione nazionale e interregionale dell’energia che dovrebbe essere riportata, comunque e diversamente da quanto oggi previsto, alla competenza esclusiva dello Stato.
In conclusione, il contrasto dell’autonomia differenziata è un tema che attiene alla democrazia sostanziale e che non può essere ignorato dalle forze politiche progressiste che si richiamano ai valori di eguaglianza e solidarietà previsti e sanciti dalla nostra Costituzione.
Marco Sereno Dal Toso, avvocato del Foro di Milano
Pubblicato giovedì 1 Giugno 2023
Stampato il 06/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/quellautonomia-differenziata-che-calpesta-eguaglianza-e-solidarieta/