Da Firenze parte un treno lungo quasi mezzo chilometro, nessuna delle stazioni che incontrerà riuscirà a contenerlo per intero. Direzione Auschwitz.

È un “treno della memoria”, quello organizzato dalla Regione Toscana assieme alla Fondazione Museo della Deportazione e della Resistenza di Prato, con una miriade di istituti e associazioni. 550 ragazzi sono in viaggio, preparati per la visita ad uno dei grandi monumenti storici del Novecento; al ritorno saranno invece coscienti di aver messo piede in uno di quei posti che sono cruciali per comprendere il presente.

Il treno lascia la stazione di Santa Maria Novella alle 12.30 di domenica 20 gennaio, per un viaggio che prenderà poco meno di ventiquattro ore. Se l’arrivo è previsto per il mattino successivo tutta la giornata che lo precede è un susseguirsi di laboratori ed incontri: a gruppi di 70 i ragazzi assiepano il vagone ristorante.

Il primo incontro è quello con le testimonianze di Tatiana Bucci, deportata con la sorella Andra quando erano solo delle bambine, e di Silva Rusich, che racconta dell’esperienza del padre Sergio, antifascista istriano deportato a Flossenbürg. Nell’oretta scarsa imposta dalla turnazione non si riesce che a rispondere a una piccola parte delle domande dei ragazzi, ma la presenza dei testimoni viventi è il centro di questa esperienza e saranno molteplici le occasioni di dialogo durante tutti e i cinque giorni.

Si passa poi al laboratorio sul neofascismo, guidato da Giorgia Bulli dell’Università di Firenze e da me, redattore di Patria Indipendente. Di fatto un dialogo, non una lezione frontale, uno scambio su come viene percepito oggi il fascismo dagli adolescenti e sulle forme di razzismo che riemergono cambiate nella forma, ma immutate nella sostanza.

L’altoparlante del treno chiama i partecipanti al terzo incontro. Con l’introduzione di Luca Bravi si parla di Porrajmos, “l’altro sterminio razziale”. Assieme a rappresentanti delle comunità sinti e rom si traccia non solo la storia ma soprattutto si racconta l’attualità, la quotidianità del vivere stigmi e pregiudizi.

Con Veronica Vasarri, presidentessa di Arcigay Arezzo, si continua a percorrere la linea del vivere quotidiano nel quarto dei workshop. Anche qui è il vissuto delle ragazze e dei ragazzi a prendere il sopravvento, a diventare dialogo e discussione aperta.

Cala la sera, già da tempo il paesaggio è alpino, per l’ultimo incontro il tema è sia storico che valoriale. Con l’introduzione di Matteo Mazzoni, direttore dell’Istituto Storico della Resistenza Toscana, si incontrano le memorie ed i valori degli oppositori del fascismo. Parlano i rappresentanti dell’Aned per la deportazione politica, dell’Anpi per i partigiani, con la vicepresidente nazionale Vania Bagni, e l’Anei per i militari internati che rifiutarono di combattere a fianco dei nazifascisti.

La mattina del lunedì il lager Auschwitz-Birkenau ci accoglie immobile, velato nel gelo. Divisi in molti gruppi in modo che la dimensione di ognuno sia ragionevole e che permetta a tutti di essere pienamente coinvolti dalle guide, comincia la visita. Complice la foschia i confini del campo sono invisibili, il reticolato bianco di ghiaccio sembra non avere fine, la vastità di Birkenau è ampliata. Il vagone piombato affiora dalla nebbia, percorriamo gli stessi identici passi di chi non veniva neppure registrato. Circa l’80% di chi arrivava ad Auschwitz veniva giudicato inabile al lavoro. L’aspettativa di vita media per costoro, una volta scesi dal treno, difficilmente arrivava ad un’ora. Entro quel tempo l’efficienza instancabile delle camere a gas li tramutava in corpi da smaltire nei quattro forni crematori.

La visita tocca le baracche, progettate per essere stalle da 42 cavalli ciascuna e finite ad ospitare fino a 700 persone, poi i luoghi dove venivano disperse le ceneri dei senza nome passati per il camino. Si cammina, letteralmente, su quelle ceneri, è impossibile non farlo: a Birkenau i forni erano accesi a ciclo continuo, sputando fumi senza tregua alcuna e diffondendoli nel raggio di chilometri tramutando il campo e le campagne circostanti in un qualcosa che è un cimitero indistinto, senza lapidi, fatto di pulviscolo.

Alla fine della visita si forma un corteo. Dietro il gonfalone toscano sfiliamo verso il monumento al termine del viale centrale di Birkenau. Lì apre la breve cerimonia Ugo Caffaz, l’ideatore del treno della memoria. Fu lui a riportare Primo Levi ad Auschwitz nel 1982 e da allora organizza la più grande forma di partecipazione di giovani studenti ai viaggi della memoria verso i campi dello sterminio.

Suonano nell’aria i nomi di chi è stato qui, gli studenti li chiamano uno ad uno. Dovevano essere annientati, ora sono un simbolo.

Auschwitz non è un campo, ma un complesso di campi: tre i principali, quarantacinque i vari sottocampi. Auschwitz I è il primo ad essere inaugurato, con l’arrivo di alcune centinaia di polacchi. Professori, intellettuali, ecclesiastici: se vuoi dominare un popolo la prima cosa da fare è zittirne le voci più autorevoli. Furono l’avanguardia di quasi un milione e cinquecentomila persone, soprattutto ebrei ma non solo.

Auschwitz I è il campo in cui si entra passando sotto l’insegna “Arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi), una beffarda e cinica menzogna che diventa semplicemente insopportabile quando si è di fronte a quintali e quintali di capelli umani, rasati ai prigionieri per farne materia tessile e imbottiture, che diventa rabbia di fronte ai disegni dei bambini richiusi qui oltre settanta anni fa. E sono quei disegni, come ci fa notare la guida, il più forte richiamo all’attualità.

Sono visivamente identici ai disegni dei bambini che sbarcano oggi sulle coste italiane, rappresentano le stesse immagini alternate di distruzione e di gioco, c’è un’impressionante identità figurativa fra ciò che vedevano gli occhi dei bambini costretti nei campi dei nazisti a ciò che vedono gli occhi dei bambini che fuggono dalla povertà e dalla rovina.

Il pomeriggio lo passiamo all’interno di un grande cinema a Cracovia, per una serie di incontri con i testimoni, fra i quali spiccano i racconti di Tatiana e Andra Bucci e di Vera Vigevani Jarach. Le sorelle Bucci raccontano della vita della loro famiglia, una vita che riesce anche ad affrontare le leggi razziali e la guerra senza risentirne troppo, almeno ai loro occhi di bambine. Almeno fino ad una notte del ‘44, la notte in cui SS tedesche e fascisti italiani si presentano alla loro porta. Tutta la famiglia viene arrestata e deportata alla Risiera di San Sabba e da lì verso Auschwitz. Andra e Tatiana si alternano al microfono, ricordano il tatuaggio, la divisione dalla mamma, la morte della zia e della nonna, infine il kinder block. La grande capacità di adattamento dei bambini le protegge dai ricordi più duri, ma la morte è cosa quotidiana, per malattia, denutrizione e violenze. Il giorno in cui vengono dei soldati e chiedono ai bimbi “volete rivedere la mamma?” erano state avvertire di non dire nulla. Sergio, loro cugino invece fa un passo avanti, cade nel tranello. Trasferito a Neuengamme, muore come cavia di esperimenti medici.

Il pomeriggio prosegue con testimonianze filmate. Quella di Slomo Venezia, quella di Hugo Hoellnreiner, o quella di Hans F., deportato perché accusato di essere omosessuale e che nel 2000 ancora aveva vergogna di dire il proprio cognome.

Infine sale sul palco Vera Vigevani Jarach, 90 anni, che racconta la storia della famiglia che riesce a sottrarsi alle leggi razziali fuggendo in Argentina. Il nonno, che non era voluto partire, invece sarà fra le vittime di Auschwitz. Generazioni messe a dura prova dal fascismo, per finire con Franca, figlia di Vera, scomparsa nel nulla durante la dittatura argentina.

Mercoledì è ancora giornata di incontri. Questa volta presso l’Università Jagellonica, la più antica della Polonia, con un dialogo a cui assistiamo noi assieme ad altri 400 studenti polacchi.

Sul palco tornano le sorelle Bucci, stavolta assieme a Lidia Maksymowicz, anch’essa deportata bambina ad Auschwitz. Quest’oggi le testimoni si soffermano sulla vita dopo la prigionia. Il lungo percorso che le riporta in Italia dopo tre anni. Un tempo lunghissimo per delle bambine di 4 e 6 anni, ma niente rispetto al racconto di Lidia, che dopo l’internamento si perde, viene accolta da una famiglia polacca e riabbraccia la madre quando oramai ha già 18 anni.

La seconda metà dell’incontro è un Citizen Dialogue, ovvero un dialogo fra istituzioni europee e cittadini. Rispondono alle domande degli studenti italiani e polacchi Enrico Rossi, presidente della Regione Toscana, e Frans Timmermanns, primo vicepresidente della Commissione Europea. E lo scambio è vivace, le domande dirette e per nulla timide, né nei toni, né nei contenuti.

L’appello comune dei testimoni e degli altri intervenuti è chiarissimo: no all’indifferenza.

La sera si parte, di nuovo sul lunghissimo treno, verso casa.

Il giovedì, mentre scorrono al contrario i paesaggi dell’andata, si riprendono i laboratori. Ognuno degli workshop viene ripetuto, per altri gruppi di studenti, ma il vero successo sono gli innumerevoli laboratori “clandestini” che si svolgono nei compartimenti, in piedi nei corridoi. L’incontro curato anche da Patria Indipendente sulle forme odierne di fascismo e razzismo viene ripetuto ufficialmente tre volte, invece delle due previste, ma fin dalla sera precedente siamo circondati da studenti e insegnanti per quelli che diventano ulteriori dialoghi, informali e improvvisati ma non meno intensi. E lo stesso interesse va a tutti gli altri temi. Per non dire del vero e proprio assedio ininterrotto subito dalle sorelle Bucci, anche per scambiare una sola parola, una stretta di mano, un abbraccio.

Nel pomeriggio di giovedì siamo infine a Firenze. Torna alla mente un dettaglio, una cosa piccola ma che dà l’idea dell’importanza di un’esperienza del genere per gli studenti.

Quando all’uscita da Auschwitz I siamo passati di nuovo sotto la scritta “Arbeit macht frei”, immersi come in un fiume di centinaia di ragazze e ragazzi, era possibile orecchiare le loro parole, i loro commenti dopo la visita.

Questi ragazzi parlavano di temi di attualità. La reazione immediata ad Auschwitz era soprattutto una riflessione sulle cose che accadono oggi.

La lezione di Auschwitz, forse impossibile da apprendere così profondamente senza una visita in quei luoghi, è una lezione sul presente. La lezione è che il razzismo è un percorso fatto di piccoli passi, al cui termine c’è Auschwitz. Ma non solo Auschwitz è l’orrore, è orrore anche ognuno dei singoli passi che vi conducono. Quante volte i sopravvissuti in questi giorni ci hanno detto “attenzione, alcune delle cose che si ascoltano oggi io le ho già sentite, le dicevano di me, della mia famiglia, della mia comunità”?

Da oggi quegli studenti sanno che Auschwitz non è un capitolo della nostra storia. Le ragazze ed i ragazzi dei treni della memoria sanno che Auschwitz è un luogo dell’oggi.