C’è un filo sottile che lega Genova, Parigi, Berlino e l’Aia. Genova, città Medaglia d’Oro della Resistenza, che ospita – suo malgrado – un incontro delle destre europee, mentre in alcune capitali si preparano le imminenti elezioni. I primi a dirigersi verso le urne saranno gli olandesi, in una serie di votazioni successive che potrebbero ridisegnare il profilo politico dell’Europa.
Dopo la Brexit e la vittoria di Trump, il Vecchio Continente scruta i Paesi Bassi, dove il 15 marzo Geert Wilders e il Partito per la Libertà (PVV) potrebbero coronare un nefasto sogno nato nel 2006. Una vittoria all’Aia avrebbe certo un impatto notevole sulle possibilità degli “alleati ideologici” di Francia e Germania, anch’essi pronti alle elezioni. Benché i sondaggi si siano recentemente rivelati più che inaffidabili, si sussurra che il PVV eserciti un discreto fascino sui 12,6 milioni di olandesi chiamati alle urne.
Capelli e passione per i cinguettii digitali a parte, Wilders ha più volte dichiarato di non sentirsi e non voler essere il “Donald Olandese”, ma non ha nascosto la sua ammirazione per il neo-presidente USA, soprattutto dopo il decreto che ha tentato di bloccare l’ingresso ai cittadini di sette Paesi musulmani. Anche se proprio quest’ultima posizione oltranzista pare abbia fatto risalire nei sondaggi il partito liberale del primo ministro Mark Rutte, con il 25% degli elettori che ha reagito negativamente alle misure statunitensi. Situazione confusa, dove la tradizionale accoglienza batava si scontra con la dura realtà di un Paese che – pur senza ostentarlo – ha subito duramente la crisi e cerca quindi il consueto “nemico esterno”; e dove nonostante Wilders sia in politica ormai da 20 anni continua ad essere visto come qualcosa di diverso, di nuovo. “Qualcuno che farà opposizione dura” – si sente dire in giro – con il pragmatico olandese medio che è ben consapevole della quasi impossibilità per il PVV di raggiungere i 76 seggi necessari per governare da solo. E del “cordone sanitario” che si stringe attorno a Wilders, con tutti gli altri partiti che si dicono contrari ad un governo di coalizione con l’estrema destra. Perfino Rutte, che si era ben valso del supporto del PVV nel 2010, ha promesso che non lavorerà mai con chi vuole chiudere le moschee ed è stato condannato per discriminazione razziale. Detto questo, per rincorrere i voti della destra, il governo ha recentemente pubblicato una lettera aperta che invita gli immigrati che non rispettano i valori olandesi a lasciare il Paese. Ma in un panorama composto da 28 partiti, Rutte sa che dovrà guardarsi le spalle non solo a destra, ma anche fare estrema attenzione al tentativo di coalizione a sinistra, potenzialmente guidata dal giovane ambientalista Jesse Klaver, che non ha fatto mistero di voler evitare ad ogni costo il ritorno dei liberali al potere e porre fine al “vento d’estrema destra che soffia in Europa”. Da qui la presenza – non confermata – anche di un rappresentante olandese a Genova, nel convegno ospitato da Forza Nuova e pomposamente intitolato “For a Europe for fatherlands” (per un’Europa di patrie), che ha visto attorno al tavolo di un piccolo appartamento nel quartiere di Sturla anche Udo Voigt, parlamentare europeo del Partito Nazionaldemocratico tedesco, Yvan Benedetti, leader del Parti Nationaliste Francais e Nick Griffin, ex presidente del British National Party.
Importante la presenza di Benedetti, perché i francesi voteranno il 23 aprile ed il 7 maggio e la domanda che in pochi osano apertamente porre riguarda proprio i potenziali alleati di una Marine Le Pen che sembra destinata a giungere al ballottaggio senza troppi sforzi, soprattutto dopo le recenti disavventure della parentopoli alla Fillon, vincitore delle primarie dei Repubblicani d’oltralpe.
Nonostante gli sforzi, il Front National pena a mettere in campo un numero sufficiente di candidati credibili ed il processo di “normalizzazione” voluto dalla Le Pen non pare convincere altre formazioni politiche, rendendo difficile il percorso verso un’ipotetica maggioranza parlamentare. La stessa candidata, in una recente intervista radiofonica, ha ammesso che il governo dovrà necessariamente cercare anche “al di là del Fronte Nazionale”, includendo tutti coloro che si uniranno a loro prima del primo turno, tra i due turni e dopo il ballottaggio. Marine Le Pen sembra già avere una lista di “politici compatibili” con il FN, da lei definiti “i patrioti, tutti coloro che hanno a cuore la nazione”. Ed il primo ad essere esplicitamente evocato è un altro candidato alla presidenza, Henri Guaino, che ha tenuto la penna di Sarkozy in molti discorsi alla nazione. “Patrioti, ce ne sono in tutti i partiti”, ha immediatamente declinato il deputato repubblicano, “perfino Jean-Luc Mélenchon” (che è il candidato del “Fronte di Sinistra” dopo aver abbandonato il Partito Socialista). Altro presumibile partner citato da Marine Le Pen è il vicesindaco di Yerres, Nicolas Dupont-Aignan, presidente di “Debout la France” (Francia, in piedi!) costola dei Repubblicani (allora ancora UMP) staccatasi nel 2008 e divenuta un partito neogollista, iscritto però al gruppo dei Liberali e Democratici in Europa. Peccato che Dupont-Aignan sia anch’esso candidato alla presidenza – benché i sondaggi lo diano al 2% – e che quindi non abbia al momento nessun interesse a dichiararsi lepeniano o lepenista che dir si voglia.
Ecco come il PNF di Benedetti, il Partito Nazionalista Francese, per quanto piccolo di dimensioni, possa rivelarsi attraente per la Le Pen. In realtà è un vecchio gruppo fondato nel 1983 e riattivato nel 2015 da un ex del Fronte Nazionale, André Gandillon, con la benedizione di Jean-Marie Le Pen che ne conosce bene i principali leader, tutti ex FN esclusi o autoesclusosi, come Benedetti o Alexandre Gabriac.
Inneggiano alla Francia del maresciallo Pétain e forniscono militanti di base, utili per i lavori “sporchi”, il reclutamento via web e i contatti con i cugini d’oltralpe. Come nel febbraio del 2016, quando Yvan Benedetti partecipa a una manifestazione alla frontiera franco-italiana con Roberto Fiore (FN), per denunciare “i problemi di Schengen”.
Con il leader di Forza Nuova, Benedetti e Gambriac condividono non solo l’ideologia, ma anche un passato di condanne per attività neofasciste, elemento che li accomuna a un altro dei partecipanti all’incontro genovese, il berlinese Udo Voigt. Eurodeputato dell’NDP, partito fondato nel 1964 da nostalgici del NSDAP (Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori), è figlio di un SA (Sturmabteilung, le famigerate camice brune che furono poi integrate nelle forze armate naziste) e ha aderito al NDP (Partito Nazionaldemocratico di Germania) alla fine degli anni Sessanta. Seguendo l’esempio paterno resta dodici anni nell’esercito tedesco, prima di venirne espulso proprio a causa delle sue relazioni con l’estrema destra e continuare la sua carriera nel partito, che guida tra il 1996 ed il 2011. Voigt è ben conosciuto in Germania per i suoi eccessi verbali e le relative condanne per incitamento all’odio razziale, come quando, intervistato dal canale televisivo ARD, ha sostenuto che “al massimo, 340.000 persone sono morte ad Auschwitz” o quando ha chiesto la restituzione dei territori tedeschi persi nel 1945. Noto per le sue simpatie verso le Waffen SS – e per aver definito Hitler “un grande statista” – è stato anche condannato per aver autorizzato la diffusione di un manifesto che riproduceva la maglia della nazionale del calciatore Patrick Owomoyela, accompagnata dallo slogan “Il bianco non è solo il colore di un tessuto: per una vera squadra nazionale!”.
Malgrado il Senato tedesco ne abbia chiesto lo scioglimento, l’NPD resta una forza politica d’attualità in Germania, che esce anzi rafforzata dalla recente sentenza della Corte Costituzionale che ha negato la dissoluzione, sostenendo che, benché il partito si sia espresso contro la Costituzione tedesca, non costituisce un potenziale pericolo per la democrazia. Come pare non rappresentino un pericolo gli altri movimenti che condividono le medesime posizioni, come i Repubblicani, partito nazionalista e populista che ha tra i primi punti del suo programma la lotta all’immigrazione o Pegida (Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente), apertamente antislamista.
Alternativa per la Germania (AfD), che alle ultime elezioni ha ottenuto due seggi al Parlamento europeo e può contare su 145 scranni dei 1.857 complessivamente disponibili nei vari Parlamenti dei Länder, dichiara oltre ventimila iscritti e sembra essere quello con maggiori possibilità di successo alle elezioni tedesche del prossimo settembre. Secondo i sondaggi, l’AfD potrebbe superare la soglia di sbarramento e ottenere qualche seggio nel Parlamento federale, che rischia di presentare un’inedita Germania potenzialmente vicina ad una Francia con Marine Le Pen quasi certamente al ballottaggio e un Olanda fortemente a destra.
Resta l’incognita SPD, che approfittando delle divisioni all’interno del partito conservatore della Merkel e della nuova energia infusa dalla candidatura di Martin Schulz, è inaspettatamente risalito nei sondaggi.
Schiacciata tra i socialdemocratici – che credono ora in una possibile vittoria – e Alternative für Deutschland, Frau Merkel cerca di rianimare l’alleanza dell’Unione Cristiano-Democratica (CDU), con l’Unione Cristiano-Sociale bavarese (CSU), giocando sulle parole chiave “affidabilità, stabilità, ordine”. Ma la convivenza ha un prezzo, e Seehofer, leader della CSU, ha già presentato il conto, ricordando che non parteciperebbe a nessun governo che non limiti a 200.000 il numero dei richiedenti asilo accettati sul territorio federale. Che è ben poca cosa rispetto agli 890.000 del 2015, ma anche ai 280.000 del 2016. E altro prezzo da pagare è quello nei confronti di Schulz, che sembra passare all’incasso oggi, dopo aver subito la decisione della Cancelliera di sostenere il concetto di spitzen candidat (ovvero il “candidato di punta”) per designare il Presidente della Commissione europea nel 2014. Forte dei risultati del Gruppo dei Popolari in Europa, la Merkel poté allora imporre il lussemburghese Junker, sconfiggendo Schulz. Che, dopo due anni da Presidente del Parlamento Europeo, torna in Germania con una campagna in difesa delle “classi popolari e delle loro preoccupazioni quotidiane”, “per una società più giusta” e la lotta all’estrema destra, sintetizzata nella frase lapidaria: “Sappiamo bene in Germania dove può portare il nazionalismo cieco”.
Ecco dunque che il filo si riannoda e si stringe quasi a strangolare l’Europa. Se Francia, Germania e i Paesi Bassi confermassero la tendenza a destra, si troverebbero in buona compagnia alle prossime riunioni del Consiglio Europeo, assieme a Orban – l’ungherese noto per le sue posizioni nazionaliste e contro gli immigrati – e Beata Szydlo, primo ministro polacco che ha dovuto ritirare la proposta di legge sul bavaglio ai media ma prosegue la politica contro la cosiddetta “ideologia gender”, dichiarandosi pronta a ritirare la sottoscrizione dalla Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, abolendo il rimborso mutualistico per la fecondazione in vitro e ritirando i sussidi alle scuole che offrono percorsi di educazione sessuale. E poi Robert Fico, che, non potendo più contare sulla maggioranza assoluta nel parlamento slovacco, si è alleato con il SNS, il partito nazionalista, Most-Hid ed i cristiano-dissidenti di Siet, dando vita ad un’inedita coalizione che raccoglie gli pseudosocialisti dello Smer (il partito di Fico di cui perfino Gianni Pittella ha chiesto la sospensione dal PSE per le posizioni anti-migranti), i fuoriusciti dal partito popolare e – con una capriola politica degna di nota – i rappresentanti della minoranza ungherese (Most-Hid) ed i neofascisti del SNS, partito nazionalista, antieuropeista, antisemita, omofobo, anti-Rom ma soprattutto antimagiaro.
Se non bastasse questo a farci passare notti agitate, potremmo anche ricordare Māris Kučinskis – neo primo ministro lettone – che, pur essendo teoricamente un ecologista, è più conosciuto per essere un oligarca che ha già sostenuto il precedente governo di destra e non pare opporsi al consueto raduno di marzo delle Waffen SS baltiche, o il governo rumeno, che ha rinunciato in extremis al colpo di spugna sull’anticorruzione (più per le minacce della UE di sospendere i finanziamenti e bloccare l’adesione a Schengen che per le proteste di piazza, si sussurra nei corridoi di Bruxelles) ma non al filo spinato ai confini con la Serbia, per tener fuori i migranti di passaggio.
A questo desolante panorama di oggi – e di domani – gli antifascisti europei rispondono in ordine sparso, con i tradizionali partiti di centrosinistra nella tormenta (basta guardare la crisi delle sinistre in vari Stati membri), governi che riducono sempre più il sostegno alle associazioni che si contrappongono a tali derive e un generale senso di sconforto.
Per questo la contro-manifestazione di Genova è stato un segnale importante, migliaia di persone in strada che hanno risposto all’appello dell’ANPI per esprimere chiaramente il dissenso e la contrarietà a concedere ulteriori spazi alla destra estrema e reazionaria. Per questo l’impegno dell’ANPI nella Federazione Internazionale dei Resistenti assume un rinnovato valore, testimonianza dell’imprescindibile necessità di vigilanza, azione e reazione. Per questo la recente decisione dell’ANED di ritornare a pieno titolo nella FIR rafforza la coesione antifascista europea, affinché le parole del giuramento di Mauthausen non restino solo una parte di memoria:
“Nel ricordo del sangue versato da tutti i popoli, nel ricordo dei milioni di fratelli assassinati dal nazifascismo, giuriamo di non abbandonare mai questa strada. Vogliamo erigere il più bel monumento che si possa dedicare ai soldati caduti per la libertà sulle basi sicure della comunità internazionale: il mondo degli uomini liberi!”.
Filippo Giuffrida, giornalista, Presidente ANPI Belgio, Vicepresidente della FIR in rappresentanza dell’ANPI
Pubblicato venerdì 17 Febbraio 2017
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