Il presidente Usa Donald Trump e il primo ministro israeliano Netanyahu (Imagoeconomica)

Questo articolo affronta il tema della crisi del Diritto internazionale in un momento in cui la fragile tregua tra Israele e Hamas, voluta e imposta da Trump al premier Benjamin Netanyahu, potrebbe ancora interrompersi con la ripresa massiccia dei bombardamenti e dell’occupazione militare dell’intera Striscia di Gaza, dopo il ritiro parziale delle forze israeliane, legato al “piano di pace” di Trump, a un perimetro di occupazione corrispondente al 53% del territorio delimitato dalla cosiddetta striscia gialla. A un mese dal cessate il fuoco seguito dall’accordo di pace sottoscritto in Egitto a Sharm el Sheik da Trump, dal presidente egiziano, dall’emiro del Qatar si contano ancora numerose vittime palestinesi a seguito di raid israeliani e si registrano continue incursioni e violenze da parte dei coloni nei territori in Cisgiordania e ostacoli ai flussi degli aiuti umanitari alla popolazione di Gaza stremata dalle condizioni di vita drammatiche e dall’affamamento deliberato e praticato dalle autorità politiche di Israele come strumento di guerra. A tutto ciò si sono aggiunti cruenti regolamenti di conto tra miliziani di Hamas e alcuni clan rivali accusati di collaborazionismo con Israele.

La tregua attuale è stata preceduta da due anni di sistematica uccisione di massa e sfollamento forzato del popolo palestinese nella Striscia di Gaza da parte delle forze politiche e di sicurezza di Israele successivamente all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 in cui erano state barbaramente uccise circa 1.200 persone per la maggior parte civili e ne erano state rapite altre 251 come ostaggi. Non sembra vicina una tregua della guerra in Ucraina cui assistiamo in diretta streaming da quasi quattro anni a seguito dell’invasione russa con il suo corollario di morte e distruzione. A un nulla di fatto sembrano portare i rapporti personali che Trump ha voluto intrecciare con Putin, nonostante il presidente statunitense avesse affermato in modo roboante un anno fa che avrebbe fermato la guerra in Ucraina in 24 ore. Né possiamo dimenticare i numerosi conflitti armati diffusi nelle varie aree del pianeta di cui i media si disinteressano, come la cruenta guerra civile in Sudan.

Ucraina, il primo giorno dell’invasione russa

Di fronte a tutto ciò, di fronte alla violazione sistematica del divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali, come prescritto dalla Carta delle Nazioni Unite (art. 2- 4 c.), in danno dell’integrità territoriale o dell’indipendenza politica di qualsiasi Stato, con la sola eccezione prevista dall’art.51, del diritto di autotutela individuale o collettiva di fronte a un attacco armato, forse sarebbe più adeguato parlare di stato di agonia del diritto internazionale piuttosto che di una sua crisi. Certamente il diritto internazionale, i suoi principi inderogabili, le sue norme consuetudinarie e pattizie per regolare i vari ambiti delle relazione tra gli Stati e in particolare il diritto internazionale che prende le mosse dalla Carta delle Nazioni Unite (1945) che pone come sua finalità fondamentale la messa al bando del “flagello” della guerra, il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, la cooperazione e lo sviluppo di relazioni amichevoli tra le nazioni sulla base del principio dell’uguaglianza dei diritti e dell’autodeterminazione dei popoli e del rispetto dei Diritti umani, ebbene quel diritto è stato più volte oggetto di violazione nei decenni passati da parte di potenze globali e regionali del pianeta.

La legge della forza ha di fatto sempre dominato nelle relazioni geopolitiche internazionali negli anni della Guerra Fredda, della competizione sul piano ideologico, militare, economico, tecnologico tra i due blocchi, nelle rispettive zone d’influenza, competizione in particolare sul piano degli armamenti nucleari che aveva dato origine a quello che era stato definito “l’equilibrio del terrore”, basti pensare alla guerra di Corea, alla crisi di Cuba, alla guerra del Vietnam. Nel tempo si era tuttavia sviluppata la consapevolezza della ineludibile necessità della distensione tra blocco occidentale e orientale, della sicurezza internazionale, della Coesistenza pacifica di cui gli accordi di Helsinki del 1975 sono stati la massima espressione.

Gli accordi di Helsinky, 1975

Infatti l’Atto finale della Conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (Csce), firmato da 35 Paesi tra cui, oltre a tutti gli Stati europei, anche Stati Uniti, Unione Sovietica e Canada aveva promosso il principio della risoluzione pacifica, negoziale delle controversie, la cooperazione e la tutela dei Diritti umani. Il processo messo in moto dalla dichiarazione di Helsinki ha permesso un epilogo pacifico del confronto tra i blocchi e la dissoluzione endogena del regime dell’Urss, unita a una politica di disarmo, aveva aperto alla speranza di una nuova era di pace e di sicurezza globale.

New York, 11 settembre 2001, l’attacco alle Torri gemelle

Gli oltre trenta anni che ci separano da allora, contrassegnati anch’essi da conflitti armati nell’ex Jugoslavia, dal bombardamento “ per ragioni umanitarie” sulla Serbia, dalla cosiddetta” guerra al terrore” dopo gli attacchi alle Torri gemelle con l’intervento in Afghanistan e in Iraq ci consegnano la drammatica situazione di guerra alle soglie dell’Europa con la convinzione da parte di Kiev, sostenuta dalla Nato e dalla UE con la fornitura continua di armamenti, di sconfiggere uno Stato dotato di armamenti nucleari che persegue una politica nazionalista di riaffermazione della Russia come potenza imperiale e globale. Con la decisione dell’Unione Europea di abdicare a un ruolo di mediazione, di diplomazia si assiste a una conferma dell’abbandono della visione di un sistema di sicurezza condiviso che avrebbe potuto/dovuto mirare a inglobare a suo tempo, dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia, anche la Russia. Registriamo al contrario una corsa diffusa al riarmo, a un’Europa “a mano armata” intenta a perseguire la “readiness” rispetto ad asseriti eventuali attacchi provenienti da Est. Indubbiamente le provocazioni russe con sforamenti degli spazi aerei di alcuni Stati benché apparentemente innocui finiscono con il favorire la politica di aumento delle spese in armamenti e alimentare i timori nell’opinione pubblica .

(foto Emergengy)

Tornando alla complessa situazione del Medio Oriente, abbiamo dovuto assistere alla politica di sterminio di Israele contro il popolo palestinese, sottoposto per due anni a bombardamenti a tappeto e fuoco di artiglieria: si contano infatti almeno 67.000 vittime di cui 18.400 bambini, 167.000 persone ferite e tra queste, secondo stime Unicef, più di tremila bambini hanno perso un arto. Al massacro dei civili si sommano le evacuazioni dalle abitazioni ridotte in macerie e i ripetuti sfollamenti forzati, con conseguenti condizioni di vita da catastrofe umanitaria: bambini, donne, uomini, privati di tutto, di cibo, acqua, vestiario, di elettricità, di un riparo, di un lavoro, della possibilità di comunicare. Politica di sterminio sostenuta senza riserve dai progetti “imperiali” di Trump, che non si è fatto scrupolo di bombardare dopo Israele i siti nucleari in Iran senza il voto favorevole del Congresso e che ora minaccia di attaccare il Venezuela e la Nigeria.

Dov’è il Diritto internazionale?

Dov’è il diritto internazionale in questo contesto? A cosa valgono i suoi principi di pace, giustizia e sicurezza fra le nazioni grandi e piccole, del rispetto del diritto dei popoli all’autodeterminazione, dei diritti umani fondamentali alla vita e all’integrità fisica, quale è la risposta concreta ed efficace dell’Onu che dovrebbe reprimere le aggressioni all’integrità territoriale degli Stati e dei suoi organismi giurisdizionali? Il diritto internazionale in realtà è un gigante dai piedi di argilla la cui capacità coercitiva si regge sulla volontà politica degli Stati. L’Onu è ridotta all’impasse a causa di un vizio originario, il potere di veto, previsto dall’art. 27 della Carta delle N.U., di cui godono i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza, Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Regno Unito, diritto di veto che rende impraticabili le determinazioni necessarie per il mantenimento della pace, per il ripristino di modalità negoziali pacifiche in caso di conflitti armati se le decisioni da assumere sono in contrasto con gli interessi geopolitici e le alleanze di uno dei membri permanenti.

La bandiera dell’Onu

È significativo a tal proposito ricordare che gli Stati Uniti hanno bloccato per la sesta volta il 18 settembre 2025 una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che chiedeva il cessate il fuoco immediato e incondizionato a Gaza, il rilascio degli ostaggi e la fine della restrizioni agli aiuti umanitari, un veto posto nonostante il consenso unanime degli altri 14 membri del Consiglio. Gli Usa inoltre avevano ribadito il loro pieno sostegno a Israele anche qualche giorno prima votando contro la risoluzione sui “due Stati” dell’Assemblea Generale delle N.U. presentata da Francia e Arabia Saudita. Va precisato poi che le risoluzioni della Assemblea Generale delle N.U. non sono di norma vincolanti. In ragione della sostanziale impotenza degli organi delle Nazioni Unite, è aperto da tempo il dibattito sulla necessità di una riforma della governance dell’Onu, della sua democratizzazione, tanto più necessaria oggi di fronte alla politica estera di Trump che è intenzionato a mettere definitivamente nell’angolo il suo ruolo di garante dell’ordinamento internazionale, ostentando il suo plateale disprezzo nei confronti dell’organizzazione che viene volgarmente schernita e dichiarata inutile come peraltro le sue agenzie (Oms, Unesco, ecc.) unitamente alle altre istituzioni multilaterali come il Wto, pilastro dell’ordine economico mondiale, messo in discussione dalla arbitraria e ondivaga politica protezionistica sui dazi.

Cerimonia della firma del piano di pace per il Medio Oriente (imagoeconomica, Alexandros Michailidis)

E infatti a distanza di soli venti giorni del veto al cessate il fuoco a Gaza viene annunciato il suo “piano di pace” in venti punti tra Israele e Hamas. Un accordo imposto da Trump a Netanyahu molto probabilmente a causa anche delle imponenti manifestazioni popolari contro la politica di annientamento dei palestinesi che hanno riempito le piazze di tanti Paesi e che stavano provocando l’isolamento internazionale di Israele e per l’irritazione del presidente per il bombardamento di Israele anche sul Qatar, Stato alleato degli Usa. Il piano, a sua volta imposto ad Hamas da Qatar, Egitto e Turchia, è stato deciso sopra la testa dei palestinesi e in esso la ”pace” è solo una precondizione per fare affari, per proficui investimenti nella Striscia, un piano di chiara impronta coloniale basato unicamente su rapporti e interessi personali/familistici e sulla forza militare e finanziaria. Nessun richiamo ai principi e alle norme del diritto internazionale, nessun accenno ai Territori occupati illegalmente in Cisgiordania che Israele mira ad annettere. Solo un riferimento molto vago relativo a un futuro “percorso credibile verso l’autodeterminazione e la statualità palestinese”.

La Corte Internazionale di Giustizia sui Territori occupati

Una seduta della Corte Internazionale di Giustizia, che ha sede all’Aia

È qui opportuno precisare che la Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) con sede all’Aja, organo giurisdizionale delle Nazioni Unite, nel suo Parere consultivo del 19 luglio 2024, aveva affermato che la presenza prolungata di Israele nei Territori palestinesi occupati dal 1967 è illegale, in quanto contraria al divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali e al suo principio correlato di non acquisizione del territorio con la forza che priva il popolo palestinese del suo diritto all’autodeterminazione.

La Corte affermava inoltre che le restrizioni imposte nei territori costituiscono una discriminazione sistemica (basata, tra l’altro, sulla razza, la religione o l’origine etnica) che si sostanzia in una politica di segregazione e di apartheid. Pertanto, secondo la Corte tutti gli Stati e le organizzazioni internazionali (comprese le Nazioni Unite) hanno l’obbligo di non riconoscere come legale la situazione creata dalla presenza dello Stato israeliano nei Territori occupati palestinesi e di astenersi dall’inviare “aiuti o assistenza” che possano consolidare tale presenza. Sulla base delle affermazioni della Corte, con risoluzione del 13 settembre 2024, l’Assemblea Generale delle N.U. aveva richiesto a Israele di porre fine alla sua presenza illegale nei territori palestinesi entro il 17 settembre 2025 (data scaduta) cui Israele non ha ovviamente adempiuto intensificando anzi da una parte i bombardamenti su Gaza e dall’altra procedendo all’attuazione del progetto E1 volto a collegare l’insediamento illegale di Ma’ale Adumin a Gerusalemme Est per tagliare in due la Cisgiordania per impedire concretamente la creazione di uno Stato palestinese. Non è quindi un caso che i diritti all’autodeterminazione e a una statualità palestinese, solo vagamente accennati nel piano di pace in venti punti, non siano neppure menzionati nella dichiarazione firmata a Sharm el Sheik.

L’aula del Consiglio di Sicurezza dell’Onu a New York

E da notizie di stampa, a breve dovrebbe essere presentata al Consiglio di Sicurezza dell’Onu la bozza Usa relativa al Consiglio di Pace, il Board of Peace, presieduto da Donald Trump, con un mandato fino al 31 dicembre 2027 con il compito di coordinare i finanziamenti per la ricostruzione di Gaza fino a quando la Anp non avrà completato con successo, a giudizio del Consiglio di Pace, il suo programma di riforme. Il Board of Peace dovrebbe anche istituire una forza di stabilizzazione internazionale temporanea, sotto un comando unificato con i contingenti forniti dagli Stati partecipanti in cooperazione con l’Egitto e lo stesso Israele, una forza di stabilizzazione che dovrebbe occuparsi di garantire la sicurezza a Gaza, con una sorta di mandato di peacekeeping con il compito di monitorare il cessate il fuoco, smilitarizzare la striscia, addestrare le forze di polizia palestinese non però sotto l’egida dell’Onu. In buona sostanza continuerà l’occupazione coloniale con i palestinesi che rimarranno privi del diritto di autodeterminazione con la loro presenza limitata a un comitato tecnocratico e apolitico palestinese responsabile delle operazioni quotidiane dell’amministrazione di Gaza. Israele resterà sul terreno fino a quando Gaza sarà “priva di minacce terroristiche”, con una prospettiva di ritiro alquanto vaga e in cui non è chiamata a pagare né per i crimini commessi né per la ricostruzione causata dalla sua volontà devastatrice. Ancora una volta è la legge della forza che si impone e non la forza della legge e rispetto al passato con un di più di arroganza.

In verità per rafforzare l’effettività del mantenimento della pace, della sicurezza internazionale e del rispetto dei diritti umani lo Statuto delle Nazioni Unite aveva previsto tra i suoi organi la Corte Internazionale di Giustizia cui si è fatto sopra riferimento. A essa si era aggiunta nel 1998, con l’approvazione dello Statuto di Roma, la Corte Penale Internazionale (International Criminal Court, ICC), un organo di giustizia penale internazionale permanente di cui si era sentita fortemente l’esigenza nella comunità internazionale a seguito dell’efferatezza dei crimini di guerra perpetrati in particolare durante la Seconda guerra mondiale. La Corte Internazionale di Giustizia ha invece il compito di risolvere le controversie tra Stati membri ed emanare pareri consultivi su qualsiasi questione di diritto internazionale le sia sottoposta.

Il Palazzo della Pace all’Aia, nei Paesi Bassi, sede della Corte internazionale di giustizia

Israele ha revocato il suo consenso alla giurisdizione della Corte ma è firmataria della Convenzione sul genocidio del 1948 che stabilisce all’art. 9 che le controversie tra gli Stati parti della Convenzione, relative all’applicazione, all’interpretazione e violazione di quest’ultima, devono essere sottoposte alla Corte Internazionale di Giustizia. Il Sudafrica nella causa intentata davanti alla Corte il 29 dicembre 2023 contro Israele con l’accusa del crimine di genocidio ai sensi della Convenzione del 1948, della quale entrambi gli Stati sono firmatari, aveva chiesto alla Corte , nelle more della sentenza definitiva, misure provvisorie per prevenire il genocidio. Israele aveva invocato il suo diritto all’autodifesa e negato l’intento genocidario. La ICJ ha accolto la richiesta di misure provvisorie ingiungendo a Israele con la prima ordinanza del 26 gennaio 2024, seguita da un’altra nel mese di marzo, di adottare tutte le misure in suo potere per impedire la commissione di tutti gli atti rientranti nella definizione di atto genocidario nella Convenzione contro il popolo palestinese. Nell’ordinanza del 24 maggio 2024, di fronte al peggioramento delle condizioni di vita dei civili nel governatorato di Rafah, la Corte intimava allo Stato d’Israele di cessare immediatamente la sua offensiva militare e ogni altra azione che potesse infliggere al gruppo palestinese a Gaza condizioni di vita che potessero portare alla sua distruzione fisica in tutto o in parte e di mantenere aperto il valico di Rafah ai fini degli aiuti umanitari che si erano resi urgentemente necessari.

Sul termine genocidio

È stato nominato più volte il termine genocidio in relazione alla condotta delle forze militari e delle autorità politiche di Israele nella Striscia di Gaza, con riferimento alle stragi di civili, di donne, uomini , bambini, alla distruzione di ogni infrastruttura, alla riduzione in cenere di case, scuole, ospedali, siti culturali e religiosi, agli sfollamenti forzati, all’affamamento come strumento di guerra.

(Imagoeconomica, Sara Minelli)

La parola genocidio è stata a lungo contestata come inappropriata dai nostri esponenti politici al governo ma non solo da essi, dai media mainstream e dalla stragrande maggioranza dei componenti delle comunità ebraiche della diaspora, nonostante fonti diverse ne affermassero la sussistenza come il rapporto della Relatrice speciale dell’Onu, Francesca Albanese, “Anatomia di un genocidio”, presentato al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite il 28 marzo 2024; il rapporto di Amnesty International del 5 dicembre del 2024; la Dichiarazione della Associazione Internazionale degli studiosi del genocidio (Iags) del 31 agosto del 2025, singole personalità israeliane come lo scrittore David Grossman o lo storico Ilan Pappè. Più recentemente, il 16 settembre 2025, il rapporto della Commissione internazionale indipendente d’inchiesta dell’Onu sui Territori palestinesi occupati compresa a Gerusalemme est e Israele.

Raphael Lemkin, giurista ebreo polacco, elaborò il crimine di genocidio

È opportuno soffermarsi a riflettere su questo termine legato alla tragedia incommensurabile della Shoah, dello sterminio programmato nazista degli ebrei, a partire dalla sua origine, da chi lo ha coniato per definire un crimine orrendo che si stava perpetrando nel corso della Seconda guerra mondiale. È stato il giurista ebreo-polacco che nel 1944 definì il genocidio come un piano coordinato di differenti azioni miranti alla distruzione dei fondamenti essenziali della vita di gruppi nazionali con l’intento di annientarli. Gli individui non venivano perseguitati in ragione delle loro azioni ma in quanto appartenenti al gruppo nazionale. Tra il 1945 e il 1946 Lemkin fu consulente di Robert H. Jackson, procuratore capo del processo di Norimberga, ma nello Statuto fondativo della Corte militare internazionale che giudicò i principali criminali nazisti, istituita l’8 agosto del 1945, dall’Accordo di Londra non compariva la fattispecie del crimine di genocidio.

Sebrenica, ex Jugoslavia, La ICJ nel 2007 ha confermato che il massacro nel luglio 1995 di oltre 8.000 uomini e ragazzi bosniaci costituiva genocidio, secondo la definizione della Convenzione del 1948

Dobbiamo attendere la Risoluzione dell’Assemblea Generale delle N.U. n. 96 dell’ 11 dicembre del 1946 perché il genocidio venisse qualificato come una fattispecie a sé stante di crimine di Diritto internazionale (Crime under International Law) e che, sulla base di successivi lavori preparatori cui partecipò lo stesso Lemkin, si arrivasse alla Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, approvata dall’Assemblea Generale delle N.U. il 9 dicembre del 1948 ed entrata in vigore il 12 gennaio del 1951. Nel preambolo della Convenzione sul genocidio si afferma che la cooperazione internazionale è necessaria per liberare l’umanità da un flagello così odioso. È importante sottolineare l’accento posto dalla Convenzione sulla necessità della cooperazione internazionale per liberare l’umanità da questo crimine atroce. Nell’art.1 si sancisce infatti che gli Stati parte della Convenzione si impegnano a prevenire e a punire il genocidio sia venga commesso in tempo di pace sia di guerra. Secondo la Convenzione, il crimine internazionale di genocidio comprende tutti gli atti commessi con l’intenzione di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale e la tipologia di tali atti ricomprende: a) l’uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica e mentale del gruppo; c) Sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocarne la distruzione fisica totale o parziale; d) le misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; e) il trasferimento forzato di bambini da un gruppo a un altro; La convenzione non punisce solamente la commissione dell’atto genocidario ma anche lincitamento diretto e pubblico a commettere genocidio, la complicità e il tentativo di genocidio.

Anche il popolo armeno è stato riconosciuto vittima di genocidio

Si sancisce che le persone che commettono genocidio o uno degli atti sopra menzionati saranno punite sia che rivestano la qualità di governanti o che siano funzionari pubblici o individui privati. Non è prevista quindi alcuna forma di immunità. Le parti contraenti si impegnano a prevedere sanzioni penali efficaci per le persone colpevoli di genocidio o degli altri atti elencati sopra. Le persone accusate di genocidio devono essere processate dai tribunali dello Stato nel cui territorio il crimine sia stato commesso o in via complementare dal tribunale penale internazionale di cui gli Stati parte riconoscano la giurisdizione.

La Corte Penale Internazionale

La sede del Tribunale della Corte internazionale penale all’Aja (Imagoeconomica, Clemente Marmorino)

La Corte Penale Internazionale, con sede all’Aja come la ICJ, è la prima giurisdizione internazionale permanente competente a giudicare individui (non gli Stati) responsabili dei più gravi crimini internazionali. L’art.6 dello Statuto della Corte, prevede tra questi ultimi il crimine di genocidio come tipizzato dalla Convenzione e i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra e il crimine di aggressione. Quest’ultimo definito, a causa delle diverse posizioni politiche degli Stati, solo nel 2010 e perseguibile a partire dal 2018 e con precondizioni più limitate rispetto agli altri tre crimini [1].

In verde i Paesi che aderiscono allo Statuto; in giallo i Paesi che hanno firmato ma non ratificato il Trattato; in arancione i Paesi che hanno firmato ma hanno poi ritirato la firma dallo Statuto; in viola i Paesi che avevano ratificato il Trattato ma si sono ritirati; in rosso i Paesi che non hanno né firmato né aderito allo Statuto

Lo Statuto della Corte Penale Internazionale, che non è un organo delle N.U., è stato adottato al termine della Conferenza Diplomatica di Roma il 17 luglio 1998 ed è entrato in vigore il 1 luglio 2002, dopo un lungo processo e alterne vicende dovute a varie preoccupazioni dei singoli Stati, tra cui il rifiuto di accettare che i propri cittadini impegnati in azioni militari all’estero potessero essere sottratti alla giurisdizione nazionale e giudicati da un tribunale internazionale permanente. A questa motivazione si deve l’autoesclusione da parte degli Stati Uniti. Infatti gli Usa rientrano tra i Paesi che non riconoscono la giurisdizione della Corte Penale Internazionale unitamente a Israele, Russia, Cina, India, Iran, Egitto, Arabia Saudita, Turchia e altri.

In proposito è interessante evidenziare che durante la presidenza Bush (2001-2009), gli Usa promossero una campagna per la sottoscrizione di accordi bilaterali fra Stati in tema di immunità che miravano a evitare che funzionari, personale militare o cittadini statunitensi potessero essere consegnati alla Corte Penale Internazionale. Gli Stati che riconoscono invece la giurisdizione della Corte Penale Internazionale e che hanno ratificato il suo Statuto sono 124 e tra questi tutti gli Stati membri dell’Unione Europea. L’Italia lo ha ratificato il 26 luglio 1999. Come già nella Convenzione sul genocidio anche lo Statuto della Corte Penale Internazionale afferma che i delitti più gravi che riguardano la comunità internazionale non possono rimanere impuniti e che la loro repressione deve essere garantita da provvedimenti adottati in ambito nazionale e attraverso il rafforzamento della cooperazione internazionale; che è dovere di ogni Stato esercitare la giurisdizione penale sui responsabili dei crimini internazionali e che la Corte Penale Internazionale è complementare alle giurisdizioni penali nazionali nella misura in cui all’interno dello Stato difettino la volontà o la capacità di perseguire i colpevoli. Le precondizioni perché la Corte possa esercitare la sua giurisdizione sono due o che il crimine sia commesso nel territorio di uno Stato parte oppure sia stato commesso da un cittadino di uno Stato parte. Non sono previste immunità rispetto ai crimini commessi, per l’assoluta irrilevanza della qualifica ufficiale che sia di capo di Stato o di governo, di membro di un governo o di un Parlamento.

I mandati di arresto a carico di Netanyahu e Gallant 

(Imagoeconomica, Saverio De Giglio)
(Imagoeconomica, Saverio De Giglio)

È noto che su richiesta del Procuratore della Corte Penale Internazionale, Karim Khan, la Camera preliminare nel novembre del 2024 ha emesso mandati di arresto per crimini di guerra e crimini contro l’umanità (non per genocidio) a carico del primo ministro Benjamin Netanyahu e dell’ex ministro della difesa Yoav Gallant e contro tre leader di Hamas poi tutti uccisi da Israele.

La Corte contesta alle due autorità politiche israeliane l’omicidio, la persecuzione e altri atti disumani, il blocco degli aiuti umanitari a Gaza, l’affamamento come metodo di guerra, nonché in quanto “superiori civili”, il crimine di guerra di dirigere intenzionalmente attacchi contro la popolazione civile. Nell’emettere i mandati di arresto ha applicato i principi menzionati della giurisdizione della Corte sui territori palestinesi dove sarebbero stati commessi i crimini contestati e quello della complementarità della sua giurisdizione di fronte al difetto di volontà o di capacità della giurisdizione nazionale israeliana. La Palestina, infatti, avendo aderito allo statuto della Corte nel 2015 è Stato parte. Poiché la ICC non dispone di una propria forza di polizia l’esecuzione dei mandati dipende interamente dagli Stati membri che sono obbligati a rispettarne le decisioni e quindi ad arrestare Netanyahu e Gallant nel momento in cui si trovassero nel loro territorio. Purtroppo le dichiarazioni del governo italiano (insieme a quello di altri Stati) di non voler procedere all’arresto si pongono in contrasto con norme inderogabili di Diritto internazionale e contribuiscono alla messa in discussione della loro legittimità e validità oltre che a sminuire la nostra immagine di attori affidabili e rispettosi dell’ordine internazionale cui il nostro Paese dovrebbe invece fare riferimento.

Le norme internazionali dei Diritti umani

Bandiera dei Diritti Umani

Nel Rapporto della Commissione internazionale indipendente d’inchiesta delle Nazioni Unite sui Territori palestinesi occupati istituita nel 2021 si indaga sulle presunte violazioni del diritto internazionale umanitario e sugli abusi del Diritto internazionale dei diritti umani verificatesi prima e dopo il 13 aprile 2021 a Gaza. Prima di affrontare il contenuto del Rapporto è opportuno distinguere tra i due diversi sistemi normativi di diritto internazionale, entrambi a protezione della persona umana.

Eleanor Roosevelt mostra la dichiarazione univrsale dei diritti umani

Le norme internazionali dei diritti umani riguardano i diritti inerenti alla persona umana che prescindono quindi da qualunque relazione di tempo e di luogo. Si tratta di un sistema normativo di diritto internazionale imperniato sulla nozione di validità universale dei diritti umani il cui riconoscimento giuridico internazionale trova origine e implementazione nelle Nazioni Unite, negli ideali di pace, uguaglianza, di promozione della dignità e valore della persona umana già presenti nella Carta delle N.U. e già ispirata al rispetto dei diritti umani. Diritti umani alla vita, alla libertà, alla sicurezza che troveranno la loro specificazione prima nella Dichiarazione universale del 1948 e la loro successiva implementazione nei due Patti internazionali sui diritti civili e politici e sui diritti economico sociali e culturali nel 1966 e in ulteriori strumenti giuridici, a favore di specifiche categorie di soggetti (minori) o relativi a specifici diritti cui si aggiungeranno altre normative sui diritti umani a livello regionale come la Convezione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (Cedu) adottata dal Consiglio d’Europa nel 1950.

Il Diritto internazionale umanitario

Mentre il sistema di protezione dei diritti umani si applica in tempo di pace, il Diritto internazionale umanitario interviene in situazioni di guerra, si inserisce nel diritto bellico (ius in bello). Faremo riferimento al diritto di Ginevra cioè alle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949. A differenza del Diritto internazionale dei diritti umani che fa capo al sistema delle Nazioni Unite e per il quale è vietato l’uso della forza nelle relazioni internazionali, salva la legittima difesa, il Diritto internazionale umanitario non legittima né vieta il ricorso all’uso della forza e interviene in tutti i casi di conflitto armato verso tutte le parti, aggressori e aggrediti. È un sistema molto articolato ma prevede regole comuni a tutte e quattro le Convezioni, in primo luogo sul diritto alla vita e all’integrità fisica e mentale di tutti coloro che non partecipano alle ostilità come i feriti, i malati, i prigionieri e la popolazione civile, quest’ultima protetta dalla IV Convenzione che espressamente vieta, tra altro, attacchi indiscriminati nei confronti di obiettivi diversi da quelli militari e qualunque atto di intimidazione e violenza verso le donne.

Radovan Karadzic, presidente della Repubblica serba di Bosnia Erzegovina durante il processo per crimini di guerra nel 2016

È evidente che si tratta di norme di protezione internazionale di grande debolezza applicativa. Sebbene esse prevedano l’obbligo di tutti gli Stati parti di rispettare e di far rispettare il Diritto internazionale umanitario, difficilmente uno Stato perseguirà le proprie forze armate quando le violazioni umanitarie sono l’effetto degli ordini dell’autorità militare dello stesso Paese. Tuttavia, a differenza delle norme sui diritti umani che non prevedono sanzioni penali in caso di violazioni, il Diritto internazionale umanitario si occupa di prevedere i crimini e rispettive sanzioni penali. Sono stati gli Statuti dei tribunali militari di Norimberga e di Tokyo a individuare i crimini di guerra e successivamente anche i crimini contro l’umanità. I Tribunali penali ad hoc per la Bosnia e per il Ruanda e lo Statuto istitutivo della Corte Penale Internazionale confermano la netta svolta del Diritto umanitario internazionale verso il Diritto penale quale esigenza della comunità internazionale di perseguire e non lasciare impuniti gli autori dei crimini internazionali. Infatti, poiché secondo le Convenzioni di Ginevra la punizione dei colpevoli incombe ai tribunali nazionali degli Stati non vi è la garanzia dell’effettiva punizione dei responsabili dei crimini.

Il Rapporto della Commissione internazionale indipendente

Gaza

Il Rapporto della Commissione internazionale indipendente delle Nazioni Unite per l’inchiesta sui Territori palestinesi occupati, pubblicato il 16 settembre 2025, contiene l’analisi giuridica della condotta di Israele a Gaza ai sensi della Convenzione sul Genocidio. Il Rapporto si basa sulle indagini precedenti della Commissione e sulle conclusioni sul piano fattuale e giuridico relative agli attacchi a Gaza compiuti dalle forze israeliane e sulla condotta e le dichiarazioni delle autorità israeliane dal 7 ottobre 2023 al 31 luglio 2025. Nelle sue precedenti relazioni al Consiglio dei diritti umani e all’Assemblea generale delle Nazioni Unite la Commissione aveva già riscontrato la sussistenza di crimini contro l’umanità e crimini di guerra a Gaza, commessi dalle forze di sicurezza israeliane, tra i quali sterminio, tortura, stupro, violenza sessuale e altri atti disumani, trasferimenti forzati, persecuzioni e l’affamamento come metodo di guerra.

La Commissione aveva anche riscontrato che le autorità israeliane avevano distrutto la capacità riproduttiva dei palestinesi a Gaza come gruppo attraverso misure volte a impedire le nascite e che avevano inflitto condizioni di vita volte a provocare la distruzione fisica dei palestinesi come gruppo. Trattandosi di atti materiali, dell’elemento oggettivo del crimine di genocidio (il cosiddetto actus reus), la Commissione ha valutato se le operazioni militari a Gaza dall’ottobre 2023 presentavano anche l’elemento intenzionale (la c.d. mens rea) del genocidio. La Commissione ha concluso “che lo Stato di Israele è responsabile per non aver impedito il genocidio, per aver commesso genocidio e per non aver punito il genocidio contro i palestinesi nella Striscia di Gaza a partire dall’ottobre 2023”. E ha evidenziato “che gli eventi che si sono verificati a Gaza dal 7 ottobre 2023 non sono stati isolati ma erano stati preceduti da decenni di occupazione illegale e di repressione nel quadro di un’ideologia che richiedeva l’allontanamento della popolazione palestinese dalle proprie terre e la sua sostituzione”.

Per quanto riguarda l’elemento oggettivo del crimine di genocidio la Commissione ha concluso che le autorità e le forze di sicurezza israeliane hanno commesso quattro dei cinque atti di genocidio tipizzati nella Convenzione del 1948 nei confronti dei palestinesi nella Striscia di Gaza ovvero: 1) uccidere membri del gruppo; 2) causare gravi danni fisici o mentali ai membri del gruppo; 3) infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita volte a provocarne la distruzione fisica totale o parziale; 4) imporre misure volte a impedire le nascite all’interno del gruppo. Se le uccisioni in massa di civili, gli sfollamenti forzati, la carestia provocata, il blocco navale, il divieto di ingresso di aiuti umanitari integrano i primi tre atti genocidari, la distruzione deliberata di ospedali e di cliniche ginecologiche, presidio indispensabile per donne incinte o partorienti e per l’assistenza ai neonati, costituisce un evidente impedimento alle nascite in seno al gruppo integrando così il quarto atto di genocidio.

(Imagoeconomica, Alessandro Amoruso)

Per quel che concerne l’elemento soggettivo del crimine, la Commissione ha ritenuto che le dichiarazioni delle autorità israeliane costituiscano una prova diretta dell’intenzione genocidaria e il comportamento delle autorità ne costituisca una prova indiziaria. Su questa base, la Commissione ha ritenuto sussistente l’intenzione genocida come unica conclusione ragionevole che si potesse trarre dall’insieme degli elementi probatori. La Commissione ha ribadito pertanto che le autorità e le forze di sicurezza israeliane hanno avuto l’intenzione genocida di distruggere, in tutto o in parte, i palestinesi nella Striscia di Gaza. A fronte di ciò la Commissione indipendente ha emanato una serie di raccomandazioni al governo israeliano e tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite. In particolare, ha raccomandato al governo di Israele: di porre immediatamente fine al genocidio, di attuare il cessato il fuoco completo e permanente a Gaza e di ripristinare l’accesso al personale internazionale delle N.U. e a tutte le agenzie internazionali che forniscono aiuti umanitari da prestare sotto la guida dell’Onu. La Commissione ha raccomandato, tra altro, a tutti gli Stati membri: di impiegare tutti i mezzi a disposizione per impedire la commissione di genocidio nella Striscia di Gaza, di cessare il trasferimento di armi e attrezzature compreso il carburante per aerei , di facilitare le indagini e adottare misure comprese l’imposizione di sanzioni nei confronti dello Stato di Israele e delle persone fisiche o giuridiche coinvolte o che facilitano la commissione di genocidio.

È importante sottolineare che la Commissione ha posto l’accento sul dovere di prevenire e punire il genocidio che incombe non solo su tutti gli Stati parti della Convenzione sul genocidio, ma su tutti gli Stati terzi in base al diritto consuetudinario internazionale. La Commissione ha ricordato che Corte di giustizia internazionale ha affermato che sussiste un obbligo erga omnes in capo agli Stati di prevenzione e punizione del crimine in oggetto e ha evidenziato che gli Stati parte e tutti gli Stati terzi erano a conoscenza delle ordinanze emesse dalla Corte fin dal gennaio del 2024 ed erano obbligati ad assicurarsi che Israele attuasse le misure provvisorie ordinate dalla Corte internazionale di giustizia e a prevenire la sua condotta genocidaria non trasferendo armi utilizzabili a questo fine, non riconoscendo come legali le operazioni militari a Gaza. Superfluo precisare che l’obbligo internazionale di impedire la continuazione del genocidio incombeva anche sul nostro Paese.

(Imagoeconomica, Saverio De Giglio)

A questo proposito, si segnala la denuncia al Procuratore presso la Corte Penale Internazionale presentata il 14 ottobre 2025 da parte del Coordinamento “Gap giuristi e avvocati per la Palestina” per complicità del governo italiano, nelle persone della Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, del Ministro degli Esteri Antonio Tajani, del Ministro della Difesa, Guido Crosetto, nonché dell’Ad della Leonardo spa, nei crimini di guerra, contro l’umanità e di genocidio commessi da Israele ai danni del popolo palestinese. La complicità sarebbe stata integrata dalla fornitura di armamenti, munizioni e servizi bellici a Israele e con l’interruzione del soccorso umanitario alla popolazione palestinese con la cessazione dei finanziamenti italiani all’Organizzazione delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unrwa) mai ripresa diversamente da altri Stati. Nella denuncia si sottolinea che la legge italiana in materia di trasferimento di armamenti n. 185 del 1990 attribuisce le scelte relative all’autorizzazione del trasferimento di cui sopra agli esponenti del governo, pertanto, la loro responsabilità si presenterebbe come assolutamente fondamentale. Sarebbe stato violato non solo il diritto internazionale ma la stessa legge nazionale che esclude la legittimità del trasferimento d’armi qualora gli Stati destinatari siano implicati in conflitti o si rendano colpevoli di gravi violazioni dei Diritti umani.

Una dele imbarcazioni della Freedom Flotilla (Imagoeconomica, via Freedom Flotilla)

La Global Sumud Flotilla e le dichiarazioni del ministro Tajani

Indipendentemente dall’esito di tale denuncia non ci si può esimere dal citare la frase pronunciata dal ministro degli Esteri Antonio Tajani secondo cui” il diritto internazionale è importante ma fino a un certo punto”, espressione assai poco commendevole che ci mostra la scarsa statura istituzionale dei nostri esponenti di governo, l’inadeguatezza a rappresentare dignitosamente il ruolo ricoperto in seno alla comunità internazionale. Purtroppo, come è noto, a questa inadeguatezza istituzionale si è dovuto assistere durante l’attacco illegale da parte di forze di sicurezza israeliane alla Global Sumud Flotilla che agiva nell’ambito di una operazione assolutamente pacifica e legittima in quanto finalizzata a portare aiuti umanitari alla popolazione di Gaza. L’attacco è infatti avvenuto in acque internazionali dove vige la libertà di navigazione e a esso è seguito il sequestro degli attivisti successivamente sottoposti a detenzione anche questa illegale, peraltro in condizioni precarie e umilianti. Per quanto riguarda l’intenzione dichiarata dalla Flotilla di portare aiuti fino a Gaza nonostante il blocco navale istituito da Israele sin dal 2009, la sua azione risultava comunque rispettosa del diritto internazionale ed era quindi legale. Infatti anche senza volerci soffermare sull’illegittimità sin dall’inizio del blocco navale israeliano, esso non poteva essere mantenuto con la forza nei confronti di imbarcazioni che portavano aiuti umanitari alla popolazione di Gaza stremata dalla carestia poiché il Diritto internazionale umanitario, ai sensi degli artt. 23 e 55 della IV Convenzione di Ginevra sulla protezione dei civili nei conflitti armati, impone di garantire cibo e altri beni necessari alla popolazione civile dei Territori occupati.

Vale anche la pena di ricordare che le acque antistanti Gaza non sono in ogni caso acque territoriali israeliane bensì palestinesi indipendentemente dal riconoscimento o meno dello Stato di Palestina. Come riportato precedentemente, in base a quanto affermato dalla ICJ il 19 luglio 2024, l’occupazione e l’annessione dei territori palestinesi da parte di Israele sono illegali e a esse non andavano riconosciuti effetti legali. Pertanto se è da considerarsi illegale l’occupazione della terraferma di Gaza da parte di Israele, non sono da ritenere legittimamente israeliane neppure le acque antistanti le sue coste. Ma il nostro ministro degli Esteri di fronte a una serie di atti manifestatamente illegali per il Diritto internazionale, invece di pronunciare quella frase disdicevole “il diritto internazionale è importante ma fino a un certo punto” avrebbe dovuto mettere in atto tutte le forme di protesta istituzionale e diplomatica possibili ed esigere la garanzia dell’assoluta incolumità e il rispetto della dignità personale degli attivisti. Non solo ciò non è avvenuto ma è mancata l’assistenza minima dello Stato italiano nella fase del rimpatrio.

Al contrario, come ha ben sottolineato Tomaso Montanari su Gaza “siamo a un punto di inversione, quello in cui chi viola la legge e usa la violenza è presentato come il garante dell’ordine e chi rispetta la legge e usa la non violenza è presentato come un eversore dell’ordine; il punto in cui i criminali sequestrano gli onesti… il punto in cui gli opinionisti dicono, mentendo, che quelle erano acque israeliane, il punto in cui inizia a vigere la legge della forza e il diritto di terminare il lavoro sporco… il punto in cui cadono la maschera della civiltà e del diritto…”.

La relatrice speciale Onu Francesca Albanese

Francesca Albanese (Imagoeconomica, Alessandro Amoruso)

E siamo arrivati, aggiungo, al punto in cui la Relatrice speciale Onu per i Diritti umani nei Territori occupati, Francesca Albanese, viene sanzionata dall’amministrazione Trump con l’accusa di aderire a una campagna politica ed economica in sfavore degli Stati Uniti e di Israele per la sua denuncia di complicità delle maggiori aziende americane con Israele nel suo Rapporto Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio. In sintesi, un Rapporto che mira a indagare sul ruolo delle entità aziendali nel sostenere l’occupazione illegale e la campagna genocida a Gaza da parte di Israele. Si tratta di industrie militari, di aziende tecnologiche, di società di costruzione, di fondi pensioni, di ricerca universitaria legata agli armamenti ecc, che invece di disimpegnarsi, traggono profitto dall’economia israeliana di occupazione illegale, apartheid e ora di genocidio, sostenendo il progetto coloniale di espulsione e sostituzione dei palestinesi. Il Rapporto afferma che può sorgere una responsabilità penale internazionale anche in capo alle imprese e ai loro dirigenti per complicità fornendo supporto logistico , finanziario o operativo con la consapevolezza della sua necessità per l’attuazione del crimine. Tornando alle sanzioni che sono state comminate per il suo Rapporto a Francesca Albanese, esse comportano il blocco di tutti i suoi beni negli Stati Uniti ma hanno effetti extra territoriali per cui alla Relatrice viene impedito, per esempio, di aprire un conto corrente presso una banca italiana o europea. Ma ciò che è grave è che l’Unione Europea potrebbe reagire agli effetti extraterritoriali delle sanzioni Usa tramite il cosiddetto Regolamento di blocco già utilizzato dall’Ue, imponendo a persone fisiche o giuridiche stabilite nell’Unione di non dare seguito agli atti normativi extraterritoriali statunitensi ma non intende procedere in questa direzione [2].

Le sanzioni Usa ai magistrati della Cpi

Ancora più grave per la sopravvivenza stessa di organismi giurisdizionali internazionali è la determinazione degli Stati Uniti di impedire, per conto di Israele, alla Corte Penale Internazionale di funzionare. Per paralizzare la Corte lo strumento anche questa volta sono state le sanzioni comminate ai magistrati [3]. 

Yoav Galant, ex ministro della Difesa israeliano

Attraverso un ordine esecutivo del febbraio 2025 è stato sanzionato a scopo intimidatorio direttamente il Procuratore della Corte Penale Internazionale e successivamente altri otto magistrati. Le sanzioni, simili a quelle comminate ad Albanese, congelano beni e negano visti di ingresso negli Usa anche ai familiari. Secondo Trump i tentativi della Corte Penale Internazionale di perseguire persone protette costituirebbero una grave minaccia alla sicurezza nazionale e alla politica estera degli Stati Uniti, una minaccia cui risponde dichiarando uno stato di emergenza nazionale di cui le sanzioni sarebbero la conseguenza. I 79 Stati parte dello Statuto della Corte (ma non l’Italia) hanno reagito contro questo provvedimento statunitense sottolineando come queste misure contro i magistrati della Corte Penale Internazionale per proteggere dai mandati di cattura il premier Netanyahu e l’ex ministro della Difesa israeliano Gallant e altri eventuali esponenti politici e militari di Israele rischiano di creare una situazione di sostanziale impunità per i responsabili dei crimini internazionali più gravi e vanno a erodere lo stato di diritto internazionale. Tra i Paesi che hanno protestato vanno annoverati quasi tutti gli Stati dell’Unione Europea, ma la Commissione UE non ha però inserito l’ordine esecutivo di Trump, che paralizza l’attività della Corte Penale, nei provvedimenti oggetto del Regolamento di blocco.

In conclusione

La presidente del Consiglio, Giorgia Meloi (Imagoeconomica, Sara Minelli)

Di fronte al nostro governo che ha speso più parole per attaccare le imponenti manifestazioni popolari contro lo sterminio dei palestinesi e lo sciopero generale che per condannare i crimini atroci delle autorità politiche e militari di Israele che hanno violato sistematicamente il Diritto internazionale dei diritti umani cosi come le norme del diritto internazionale umanitario; di fronte alla presidente del Consiglio, che ancora una volta ha opposto un sostanziale rifiuto di riconoscere lo Stato di Palestina al presidente dell’Anp, Abu Mazen, che le chiedeva un passo in più per proteggere la soluzione a due Stati minata dalle politiche israeliane mentre Israele di fatto continua a essere un nostro partner economico in settori chiave come la cyber sicurezza; di fronte al piano “coloniale” di pace di Trump che nega il ruolo di garante all’Onu, all’assenza di una leadership politica palestinese e alla vaghezza del ritiro degli scarponi chiodati di Israele da Gaza; di fronte a tutto questo non possiamo non ribadire che il diritto internazionale è sotto scacco, che la giustizia internazionale, definita un gigante dai piedi d’argilla poiché si sorregge sulla forza degli Stati, non sia alla mercé degli Stati che la vogliono controllare, insofferenti alle sue regole, imponendo la legge della forza a detrimento della forza della legge.

Marwan Barghouti

Ciononostante come Anpi dobbiamo valorizzare il ruolo giocato dalla manifestazioni popolari nell’isolare Israele a livello internazionale e dobbiamo continuare a mobilitarci, insieme alle altre associazioni e ai movimenti, per la pace e il disarmo e per promuovere una campagna di pressione per la liberazione di Marwan Barghouti. Dobbiamo cercare di accelerare nella fase della auspicabile ricostruzione di Gaza l’insediamento di una rappresentanza palestinese politica autorevole e riconosciuta nel difficile contesto di una Palestina sotto mandato biennale Usa, attualmente ancora in parte assediata, con violazioni continue del cessate il fuoco, con i blocchi alla frontiere e agli aiuti umanitari fatti entrare a singhiozzo da Israele che gioca ancora sulla vita e sui diritti dei palestinesi. La storia, la grande storia non procede in modo lineare, il mondo “capovolto” potrebbe raddrizzarsi all’improvviso e i responsabili dei crimini efferati potrebbero trovare la giusta punizione. Ci potrebbe essere un giudice all’Aja nonostante tutto.

Maria Cristina Paoletti, Presidente provinciale Anpi Venezia. Associazione Giuristi Democratici Venezia

 

 


NOTE

[1] Circa il crimine internazionale di aggressione che rende penalmente perseguibile la violazione del divieto dell’uso della forza è stato necessario attendere il 2010 affinché gli Stati parte dello Statuto della ICC riuscissero a dare una definizione di aggressione e il 2018 perché la norma andasse in vigore. Ma perché la Corte Penale internazionale possa esercitare la sua giurisdizione occorre la duplice condizione che sia lo Stato aggressore che lo Stato aggredito siano entrambi Stati parte dello Statuto. Ed è questa la ragione che impedisce al Procuratore della Corte Penale Internazionale di esercitare la sua giurisdizione sui responsabili dell’aggressione russa dell’Ucraina.

[2] Peraltro la Relatrice Speciale Francesca Albanese ha recentemente presentato un altro rapporto, Genocidio di Gaza: un crimine collettivo, nel quale si afferma che molti Stati, continuando a fornire a Israele supporto diplomatico e militare (Stati Uniti e Germania per il 90 % delle importazioni di armamenti),mantenendo legami economici e commerciali hanno legittimato l’occupazione illegale e il genocidio del popolo palestinese, supporto che deve essere riconosciuto come parte di un sistema di complicità globale. I rapporti commerciali (di cui un terzo con la Ue) e gli investimenti hanno sostenuto, con conseguenti profitti, l’economia israeliana. Tra il 2022 e il 2024 l’esportazione di prodotti elettronici, farmaceutici, energetici, minerari per un totale di 474 miliardi di dollari hanno permesso a Israele di finanziare le operazioni militari. Il rapporto sottolinea che non si tratta soltanto della Palestina, ma della sopravvivenza delle Nazioni Unite, del suo nucleo di valori e di norme e ha auspicato che dalle rovine dell’oppressione deve emergere un nuovo multilateralismo non di facciata ma un’architettura di diritti e di dignità per tutti. In relazione al contenuto di quest’ultimo rapporto va segnalato che la Relatrice speciale ha dovuto subire accuse e offese violente non solo da parte del rappresentante all’Onu dello Stato di Israele ma anche l’accusa di aver violato il codice deontologico da parte del rappresentante del Governo italiano alle Nazioni Unite.

[3] Va segnalata poiché in linea con la strategia delle sanzioni statunitensi alla Corte Penale Internazionale anche l’incriminazione emessa dal Comitato investigativo della Federazione russa contro il procuratore Karim Khan e altri magistrati come ritorsione contro il mandato di arresto emesso il 17 Marzo del 2023 dalla ICC nei confronti del presidente russo Vladimir Putin e del difensore civico dei diritti dei minori Maria Llova- Belova accusati del crimine di guerra di deportazione illegale di migliaia di bambini ucraini in Russia.