Un primo piano di Luca Ventre

«È stata messa in atto una macabra messinscena per nascondere la verità sulla morte di mio figlio. Ma io non mi arrendo, voglio verità e giustizia». Palma Roseti è la mamma di Luca Ventre, il giovane imprenditore italiano morto il 1° gennaio di quest’anno a Montevideo. Quel giorno, sono le prime ore della mattina, Luca si presenta davanti all’ambasciata. Suona ma non ottiene risposta. Decide allora di scavalcare il cancello. Da giorni è fortemente preoccupato, si sente minacciato e teme per la sua incolumità.

Un fotogramma dal video ripreso dalle telecamere dell’ambasciata italiana a Montevideo, capitale dell’Uruguay. Luca sta cercando di entrare

Forse per questo supera la recinzione: spera che lì qualcuno lo aiuti. All’interno dell’ambasciata a garantire la sorveglianza non vi sono forze di sicurezza italiane, come dovrebbe essere per legge, ma due addetti alla vigilanza uruguaiani, una guardia privata e un poliziotto.

Luca è a terra

Luca non ha intenzioni aggressive, è disarmato. Non costituisce un pericolo e per dimostrarlo si inginocchia, le mani dietro la schiena, pronto a farsi ammanettare. Il poliziotto per tutta risposta lo butta a terra e gli mette un braccio attorno al collo. Lo tiene fermo per oltre venti minuti.

Dal filmato che ha ripreso la morte di George Floyd a Minneapolis, Usa

A rivedere il filmato delle telecamere di sicurezza che riprendono la scena viene da pensare alla morte di George Floyd, avvenuta il 25 maggio 2020 a Minneapolis.

Mancano pochi minuti alla 7,30 di quella mattina tragica quando il poliziotto molla la presa. Luca è immobile già da diversi minuti. Intanto l’altro addetto alla vigilanza è al telefono. Sono circa le 7,40 quando il cancello della rappresentanza diplomatica si apre ed entra una vettura della polizia uruguaiana con tre persone a bordo. Luca viene sollevato di peso e caricato sull’auto, per essere portato al più vicino ospedale, a pochi minuti di distanza. Ma non viene condotto subito al pronto soccorso: prima che un medico lo possa vedere passano almeno una decina di minuti. Non c’è nessuna fretta di salvargli la vita. Semplicemente perché Luca è probabilmente già morto?

L’ambasciata italiana a Montevideo (da ambmontevideo.esteri.it/ambasciata_montevideo/it/)

Ecco quella che la madre di Luca chiama «macabra messinscena». O quella che si potrebbe definire «morte per soffocamento ritardato». Per la donna, intervistata da Patria Indipendente, il depistaggio ha il suo suggello il giorno dopo, nel comunicato del 2 gennaio della nostra ambasciata.

Merita di essere letto: «L’Ambasciata d’Italia con rammarico conferma che ieri il Sig. Luca Ventre, connazionale residente nella nostra comunità, è deceduto dopo che nelle primissime ore della mattinata si è arrampicato per scavalcare il recinto dell’Ambasciata e si è poi diretto verso gli Uffici. Dopo l’arresto il connazionale è stato trasportato al Hospital de Clinicas dove purtroppo risulta sia successivamente deceduto. L’Ambasciata, in questo doloroso momento, si stringe alla famiglia del connazionale; in particolare al padre, Sig. Carmine Mario Ventre che vive in Uruguay e con cui è in contatto, oltre alla madre, Sig.ra Palma Roseti, cui assicura la massima vicinanza e il massimo impegno affinché le Autorità uruguaiane facciano piena luce sulle cause del tragico decesso del figlio».

Ora la frase chiave per la signora Roseti è quel «successivamente». Termine che, ci dice, «allontana – o almeno vorrebbe allontanare – responsabilità penali e giuridiche non solo di chi materialmente ha strangolato Luca, ma anche di chi aveva il dovere di garantire massima trasparenza e rispetto dello Stato di diritto in quello che è, a tutti gli effetti, territorio italiano».

La salma di Luca è tornata in Italia ai primi di marzo e una nuova autopsia è stata fatta sul cadavere dell’uomo. Se confermasse che il 35enne è morto a causa di uno strangolamento, bisognerebbe, come logica conseguenza, far risalire il decesso al momento in cui il poliziotto uruguaiano molla la presa sul corpo ormai esanime del nostro connazionale.

La sede del ministero degli Esteri in piazzale della Farnesina (Imagoeconomica)

E se così fosse bisognerebbe arrivare alla conclusione che Luca è morto all’interno dell’ambasciata e che il nostro massimo rappresentante nel Paese sudamericano ha parecchie cose da chiarire. E che gravi sono pure le mancanze della Farnesina. Che idea si è fatta?

Quello che io ho notato in tutto questo tempo è la difficoltà e la resistenza da parte delle nostre istituzioni, prima di tutto a prendere le distanze e condannare questo atto inaudito di violenza. Mi è capitato di parlare ultimamente con Cristina Bellotti responsabile della segreteria del ministro Di Maio e sempre si coprono dietro ai processi burocratici, agli uffici, alle competenze. Come se fosse un problema di un ufficio piuttosto che di un altro, quando invece il problema vero è che la politica deve prima di tutto scegliere da che parte stare in questa vicenda, se dalla parte della verità e della giustizia o dalla parte dell’opacità.

La viceministra afli Affari esteri e alla Cooperazione internazionale, Emanuela Claudia Del Re (imagoeconomica)

Ha avuto occasione di parlare con il ministro Di Maio?

No. I contatti che si sono succeduti nel tempo sono tutti avvenuti perché l’iniziativa è partita da noi. Il 1° gennaio mio figlio è stato ammazzato, il 2 gennaio dopo aver capito che in questa morte c’erano molti punti oscuri ho scritto una mail di protesta al ministero degli Esteri. L’unica persona che mi ha risposto il 4 gennaio è stata la viceministra Emanuela Claudia Del Re e le stesse nostre istituzioni in Uruguay hanno contattato il padre di Luca, che vive lì, molto tempo dopo che il fatto era accaduto. Non è vero che siamo stati subito avvertiti. Anzi, fino al 20 gennaio si è cercato di stendere un velo sulla morte di Luca. Siamo stati noi come famiglia a organizzare i contatti con la stampa per portare a conoscenza dell’opinione pubblica quel che era accaduto. Anche perché sin da subito si è tentata una strategia di denigrazione nei confronti di mio figlio: si è prima cominciato col dire che era un terrorista che voleva assaltare l’ambasciata, poi uno sbandato e un drogato, quando invece la realtà era tutt’altra. Le telecamere di sorveglianza riprendono una persona non armata e non violenta. Ma è bene sottolineare che anche avesse avuto intenzioni aggressive le forze di sicurezza di uno Stato democratico non si sarebbero assolutamente dovute rapportare a mio figlio con quell’atteggiamento brutale.

Ci sono diversi buchi neri in questa storia che reclamano un chiarimento. Primo, la presenza all’interno della nostra ambasciata di addetti alla vigilanza che non rispondono all’autorità italiana bensì a quella dell’Uruguay; secondo, quali erano le regole di ingaggio di queste persone, quali protocolli seguivano. Avete avuto risposte in merito?

(da ambmontevideo.esteri.it/)

Il nostro ambasciatore a Montevideo, il dottor Giovanni Battista Iannuzzi, alla domanda sulla presenza di questo poliziotto uruguayano che la legge non prevede perché la Convenzione di Vienna vieta la presenza di personale armato del Paese ospitante all’interno delle sedi diplomatiche ha risposto dicendo che si tratta di un’«abitudine». Ora mi chiedo se le abitudini possono essere superiori alle leggi. Quanto alle regole d’ingaggio aspettiamo di capire se vi siano e cosa prevedono. Quello che le posso dire è che l’attuale ambasciatore in Uruguay proviene da un dipartimento del nostro ministero degli Esteri che si occupa di multilateralismo e diritti umani. Sembra una beffa! Si occupava di diritti umani e non è stato in grado di gestire come capo missione la nostra ambasciata a Montevideo partendo prima di tutto dal rispetto dei diritti umani. Mi viene da pensare che i titoli di cui si fregiano le nostre feluche sono spesso e volentieri solo percorsi burocratici. Certo è che l’ambasciatore ha, secondo quel che sostiene il nostro avvocato, una responsabilità contrattuale per quel che è accaduto quella mattina. È responsabile, insomma, delle azioni del poliziotto uruguaiano. Poliziotto che, siamo venuti a sapere, è anche diplomato in scienze infermieristiche. Insomma, una persona che sapeva molto bene quello che stava facendo.

Uno scenario inquietante.

Qui c’è stato qualcuno che voleva togliersi questo morto dall’ambasciata. Luca è stato portato in ospedale perché lo volevano “formalmente” far morire fuori da lì, ma sapevano benissimo che avevano portato un morto. Perché altrimenti i poliziotti non avrebbero sostano venti minuti davanti al pronto soccorso prima di entrare. È stato un teatrino. I medici che hanno fatto l’autopsia sul corpo di mio figlio hanno detto nel loro primo referto che c’erano elementi che portavano a pensare ad una morte per soffocamento, però non lo potevano ammettere con sicurezza perché i polizotti gli avevano riferito che Luca quando è uscito dall’ambasciata era ancora vivo.

(Imagoeconomica)

Lei sa perché suo figlio scavalcò il cancello dell’ambasciata? Cosa lo turbava?

Mio figlio era andato lì solo perché voleva essere ascoltato, era alla disperata ricerca di qualcuno che lo aiutasse, voleva parlare col cancelliere perché intendeva rientrare velocemente in Italia. Stava attraversando un momento di disagio fortissimo. Ecco perché quel modo disperato di agire: quando ha suonato e nessuno gli ha risposto ha deciso di scavalcare. Nella borsa che si era portato appresso aveva un cellullare, un caricatore, un libro e il passaporto. La Procura di Roma ha aperto a inchiesta. Il fascicolo è stato affidato al magistrato Sergio Colaiocco, lo stesso che si sta occupando del caso Regeni. Ed è una notizia che mi lascia ben sperare. È stata effettuata una nuova autopsia e siamo in attesa del referto.

Un altro filmato del video ripreso dalle telecamere dell’ambasciata italiana a Montevideo

Quello che è successo a Luca potrebbe capitare anche in altre ambasciate, se è vero che quella della vigilanza armata affidata alla polizia locale è una “abitudine”?

Tutti siamo Luca e tutti siamo a rischio se si perde di vista lo Stato di diritto.

Che conoscenza ha della realtà uruguaiana?

(da unesco.cc/)

Sono stata in Uruguay dal 2012 al 2018; nel 2014 ho riorganizzato, aiutata da mio figlio, la locale Camera di Commercio. Pensavo che l’Italia meritasse una migliore presenza in questa area del mondo perché il Paese sta perdendo molte posizioni sia culturalmente sia da un punto di vista economico. Dovunque andassi trovavo rappresentanze della Camera di commercio tedesca; la Germania si muove come Paese, arrivano dappertutto. Noi no, da noi funzionano altri criteri, le piccole consorterie, i piccoli centri di potere e ognuno difende il proprio orticello. E infatti di me dicevano che ero una cellula impazzita perché avevo dato il calcio al tablero. Il tablero è la tavola dove si trovano i piccoli poteri che si dividono gli affari. Da parte della nostra Ambasciata controlli zero su questo sistema malato. Pensi che la sede della Dante Alighieri è stata svenduta senza che nessuno dalla nostra rappresentanza diplomatica avesse qualcosa da dire.

Possono essere nate in questo contesto le preoccupazioni di Luca?

È possibile, ma non ho nessun elemento. Quello che so è che in America Latina c’è un sistema criminale organizzato sui sequestri lampo. Non so se mio figlio avesse avuto sentore di qualcosa, se le sue paure fossero dovute al timore di essere sequestrato.

In Basilicata – la sua famiglia è originaria di Senise – è nato il Comitato “Verità per Luca Ventre” di cui fanno parte anche l’Anpi, l’Arci e Libera. Che ha significato avere accanto, nella sua battaglia per la verità, l’associazione dei partigiani?

Avere dalla nostra parte una realtà importante e prestigiosa come l’Anpi, che è una associazione il cui impegno è sempre di stare dalla parte di chi non ha voce, dell’elemento che sembra soccombente nella società, è una cosa che mi ha confortato. In queste settimane ci sono stati momenti in cui come madre mi sono sentita sconfitta perché ho avuto la sensazione di non essere stata in grado di proteggere mio figlio. Adesso la verità e la giustizia sono il mio unico impegno. Come madre e come cittadina di un Paese che si vuole democratico.