40 anni di “Amici miei”. Di una squadra di vene cinematografiche da brividi. Ugo Tognazzi, Philippe Noiret, Adolfo Celi, Gastone Moschin, Duilio Del Prete, Renzo Montagnani. Comandati da un distinto brigante di sguardo, Mario Monicelli. 40 anni di memoria, di rifarli all’occorrenza di un male o di un malumore.

La scena fissa e splendidamente incasinata di una resistenza all’idiozia che non si dichiara a fuoco, baluardo contro l’incontinenza della presunzione, del grido ideologico, di pretese violentemente civili. Pacifica, capace di confondere e ribaltare con due giochi e una “supercazzola”. Zingari, nella direzione di un antico, disfatto precetto. Ridere di sé, sciogliersi e ripartire senza ingrigirsi troppo e ingrigire necessariamente tutto il mondo. La catastrofe dell’involuzione fuori e loro al palo morbido di un disincanto. Ridere.

Ma anche solidarizzare. Nella cerchia, certo. Indimenticabile l’unione delle forze al crollo patologico del “Mascetti” (Tognazzi), improvvisamente su di una carrozzina, la colletta per ridargli un orizzonte, una casa. Poi una casa di cura. E alla fine tutti lì, a ricelebrare zingarate e dotare di nuovo il mondo di sé, di prospettive di bel genio. Ancora senza tempo. Contro il tempo delle passioni stolte, della leggerezza nel cassetto. Amici miei, la commedia ad un’italiana, strepitosa saggezza.