Ci sono luoghi che ti improvvisano un sentire straordinario. Un vedere che apre una vita, la sua memoria, una faticosa, ma raggiante direzione. Sono luoghi del dolore, degli ultimi respiri. Si chiamano hospice, un’espressione tenue per dire alloggi per malati terminali. Ebbene, arrivi lì e già avverti all’ingresso, anzi appena prima, al salire i gradini, la sensazione di doverti spogliare. Di cosa? vi chiederete. Dell’ordinario camminare per i giorni, certo dei suoi tratti salienti, di tutte le civili e appassionate vesti dell’esistere: svegliarsi, accarezzare per affetto o per amore, alimentarsi, lavorare, tingersi d’ira o idiozia, tentare desideri. C’è un odore difficilmente spiegabile nell’hospice. Entri. Un corridoio non lungo, poche porte, la statua di una madonna, ben frequentata sembra, visti i fiori e i vari fogli, lettere, ben disposti ai piedi, ben ordinati di fede. Sai abbastanza esattamente dove andare, hai avuto indicazioni, ma ti fermi. Questo luogo, non ne sapevi nulla. Quest’odore. Ti muovi verso la porta che ti riguarda. Ecco, qui sta per accadere tutto. È come se quella porta si sia chiusa da sola e ti ritrovi solo davanti alla fine del mondo e, insieme, allo scoppio di un suo inizio. Non ti riconosce più. Stringi le sue mani ma capisci che sono lì solo a consumare doveri sanitari. Le sue mani… che furono gioco, il tirarti via da ogni paura, lo scriverti addosso un esserci sempre, il primo fiato del toccarti d’amore. E allora senti, per forza, per la forza di quegli occhi che t’hanno dato gli occhi, che ti disegnavano ancor prima di farsi madre, i suoi sospiri gonfi d’ansia, di domande decise e precise dall’angolo di una coscienza ancora in piedi, seppure in una brutta dirittura d’arrivo. Senti il senso di un’ultima resistenza, l’inafferrabile mistero del dover finire, la concentrazione di un vigore che implora di tenere, da domani, lo sguardo un po’ all’insù o dove potrò raccogliere il suo accorato esserci ancora e… le sue mani. Un colpo di luce. Il racconto della mia nuova vita con lei.