Sara Bosco è morta a 16 anni in un girone dantesco. Ma in realtà non è mai nata. Un’esistenza fantasma quella di questa ragazza, tirata per strada a “farsi” di stordimenti e sudiciumi vari e conclusasi per overdose l’8 giugno scorso in un padiglione dismesso dell’ospedale Forlanini di Roma.

Sara faceva parte di un brutto sottomondo, lasciato al caso, mai benevolo, sempre prodigo di una dignità sognata, di piccoli traffici di sopravvivenza, di violenza, di rapporti disanimati. Ma è solo una piccola porzione di una più vasta geografia del disumano. Capita che un benvenuto volontarismo civile ogni tanto la sfiori. Capita che la politica se ne lavi le mani, lasciando a strutture di carità confessionale la difficile gestione di questo ingombro.

Ma mi chiedo: combattere la solitudine di chi si è perso, l’incapacità di mettersi sulla strada di una vita al pari degli altri, delle loro possibilità, non è tra i primi doveri di un amministratore pubblico? La conoscenza, non voltarsi furbescamente dall’altra parte non è un imperativo? E non ci si venga a dire che non si sapeva di quelle decine e decine di disperati che “alloggiavano” nel girone Forlanini. Non è vero che la fine di Sara ha fatto scoprire questa realtà. Non è vero! E adesso? Ci aspettiamo dal futuro/a sindaco di Roma non solo parole di assunzione di responsabilità, ma viaggi operativi tra questa gente. Una coscienza che trovi soluzioni, un muoversi letteralmente sociale. Un sindaco/a così, pubblicamente in campo, appassionato, potrebbe addirittura attivare lo sguardo dei distanti, quasi un bel colpo di diffusa pedagogia altruistica. E allora, risorse e cuore. Subito. Siamo ancora in tempo.