Il caso più recente è quello che ha visto coinvolta la maison Gucci e il suo direttore creativo Alessandro Michele, colpevoli – a detta degli accusatori – di aver immesso sul mercato il maglione modello balaclava, munito di un passamontagna che ricordava troppo le fattezze del blackface, il trucco caricaturale utilizzato dai primi attori bianchi per riprodurre i tratti somatici esasperati dell’uomo di colore. La risposta del brand non si è fatta attendere: scuse immediate e prodotto ritirato per non ledere la sensibilità di nessuno. Altro episodio abbastanza recente e dall’eco notevole è stato quello che ha coinvolto Prada lo scorso dicembre: la maison ha dovuto ritirare dal mercato i pupazzetti a forma di scimmietta della collezione Pradamalia, rei di essere un esplicito riferimento al sambo, la figura stereotipata dell’uomo di colore in voga a inizio Novecento.

Talmente assurdo da non sembrare vero, quasi come due grottesche associazioni di idee che vedono rispettivamente protagonista il colosso svedese di moda low cost H&M e il giovane brand italiano Big Uncle. Nel primo caso, il comparto moda bimbo ha proposto una felpa con la scritta “coolest monkey in the jungle” (“la scimmia più carina della giungla”), il reparto marketing l’ha fatta indossare a un bambino di colore, generando una stridente associazione tra testo e immagine, mentre nel secondo caso, il marchio ha scelto un modello biondo, con gli occhi azzurri e una pettinatura rétro (praticamente il perfetto ariano, si direbbe!) per rappresentare la collezione dal titolo inequivocabile “Colonial Deal” (“Affare coloniale”), al cui interno compare una felpa con l’ancor meno fraintendibile scritta “colonialism”.
Sicuramente gli aneddoti non mancano e, tra interpretazioni attendibili e altre un po’ più inverosimili, queste accuse di razzismo hanno trovato un riscontro immediato da parte delle aziende che, nella quasi totalità dei casi, si sono premurate di scusarsi con i clienti, chiarire l’equivoco e ritirare il prodotto incriminato dal mercato. Tutta questa vicenda sottolinea – se ce ne fosse ancora bisogno – che la moda non rappresenta l’effimero ma, anzi, è la fotografia del momento storico che si sta attraversando. Queste accuse sono sintomo di un abuso di politicamente corretto? Di una volontà di intraprendere una caccia alle streghe anche quando le streghe non ci sono? O, magari, è proprio il bisogno della nostra società di reclamare a gran voce un confronto dialettico quasi quotidiano sulla piaga (mai rimarginata) della discriminazione razziale, riverberandosi anche in quei contenuti apparentemente frivoli ma alla portata di tutti. Quindi, se da una parte si innalzano muri e barriere di qualsiasi genere, si nega l’attracco alle imbarcazioni che trasportano migranti e si mira a una persuasione subdola e subliminale, additando l’altro come il diverso e il cattivo, le spinte antirazziste, con un meccanismo di uguale valore ma di segno diverso, mirano a ciò che è ben visibile – un macrosettore così in vista come la moda – invitando i singoli responsabili ad assumersi le proprie responsabilità anche in virtù della loro sovraesposizione mediatica e veicolare un messaggio corretto. Non politicamente corretto, ma umanamente corretto.
Letizia Annamaria Dabramo
Pubblicato martedì 23 Aprile 2019
Stampato il 29/11/2023 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/costume/ma-che-razza-di-moda/