Ebbene sì. Tra le varie novità di Patria Indipendente, ecco una pagina dedicata alla moda e al costume. La moda, ovviamente, come specchio del tempo in cui viviamo e come lente per coglierne le contraddizioni. La rubrica è curata da Letizia Annamaria Dabramo, esperta di moda, di fumetti. E di molto altro.
La moda, quella più intelligente e attenta, è un’ottima cartina al tornasole del momento storico, politico e culturale in cui si vive e che, da qualche tempo, sembra dominato da una sorta di esperimento che mette al centro di tutto il logo, estremo e paradossale. E non si tratta dei monogrammi delle case di moda che, pure, infestano le collezioni in dimensioni sempre più moleste, ma di un utilizzo dissonante del logo in qualità di elemento estraneo. Se la caratteristica principale di un logo è, infatti, veicolare con un’immagine ridotta il nome di un’azienda (e i valori ad essa ricollegabili), il logo “distorto” nella moda degli ultimi tempi altro non è che emblema di inappartenenza e riassunto grafico di una parodia. Il sociologo Marshall McLuhan diceva (più di cinquant’anni fa) che l’abbigliamento è lo strato più superficiale della nostra pelle: ma prendendo in esame le creazioni degli ultimi anni, forse bisogna riconoscere che il fenomeno della moda possa essere espressione anche di un cambiamento sotto pelle.
Sono due i grandi interpreti dello spirito di questi tempi, capaci di tradurre le contraddizioni della società in creazioni sartoriali: Jeremy Scott e Demna Gvasalia, ad oggi direttori artistici rispettivamente per Moschino e Vetements. Le loro creazioni sono in grado di colpire, far sorridere e, in una certa misura, lasciare interdetto anche un pubblico poco incline a farsi sconvolgere, come quello del gotha dei critici, degli editor e delle personalità che affollano le prime file durante le settimane della moda.
Ad esempio, nel 2017, Gvasalia ha lanciato sulle passerelle di Balenciaga una borsa molto (troppo!) simile all’anonima FRAKTA Ikea. Una provocazione evidentissima, naturalmente, che emergeva nel confronto tra un modello in vendita in esclusivissimi store a quasi 1.400 € e un oggetto di uso comune acquistabile per pochi centesimi. E così, tra polemiche e ironia, la borsa è diventata onnipresente sui social network, generando nell’opinione pubblica un effetto domino incontrollabile, fino ad arrivare alla stessa Ikea, che ha deciso di cavalcare l’onda con ironia, enunciando le proprietà dell’originale e più economica FRAKTA, musa inconsapevole di questa vicenda. Ma Gvasalia aveva già fatto ricorso a un meccanismo simile, appropriandosi del logo del colosso di trasporti DHL per farne un vezzo a prezzi tutt’altro che contenuti: una t-shirt essenziale che recava il logo dell’azienda e che conquistò appassionati di moda, vip, influencer, e persino lo stesso amministratore delegato di DHL.
Il fiume in piena della moda, però, ha trovato in Jeremy Scott un altro grande protagonista e provocatore. Lo stilista, nel riattualizzare il marchio Moschino, ha abituato a immersioni nell’immaginario collettivo, dominato da figure come Barbie, i Looney Tunes, SpongeBob SquarePants e Mickey Mouse. I capi d’abbigliamento e gli accessori che sfilano sulle sue passerelle sono un trionfo di icone, emblemi immediatamente riconoscibili che attingono a un universo di fantasia, patinato e pubblicitario. La collezione Autunno/Inverno 2014/’15 disegnata dallo stesso Scott ha, invece, reso protagonista il logo McDonald’s che, piegato alle necessità stilistiche del designer, è diventato l’iniziale di Moschino. L’accostamento di colori – giallo e rosso – era quello tipico della multinazionale, che però si posava su abiti eleganti, tailleur, pochette.
Le modelle indossavano visiere (molto simili a quelle dei lavoratori dei fast food) e morbide bluse che ricordavano camici da inservienti, mentre esibivano su dei vassoi le borse dal taglio classico e dalle tinte sgargianti. Una collezione che si prestava a molteplici interpretazioni e in cui era possibile scorgere una nota di biasimo a una moda troppo “fast” che, proprio come McDonald’s, annienta il gusto e la qualità dei prodotti e riduce l’acquirente a mero ingranaggio di un’immensa macchina consumistica.
Oppure, semplicemente, i riferimenti alla cultura pop di questi due stilisti potrebbero proprio essere l’espressione di una furbesca consapevolezza che gioca sull’immediata riconoscibilità da parte del pubblico, con buona pace del copyright. Questi loghi, infatti, manipolati e riadattati alle esigenze della moda, se da una parte generano un corto circuito nell’indecisione di essere associati all’uno (l’originale!) o all’altro brand (il “clone” di moda), dall’altra fanno scaturire una viralità social che diventa un surplus, sommandosi al valore dei prodotti stessi e alla solidità del loro marchio sul mercato.
Tra genio e follia, queste operazioni rischiano di lasciare interdetti. Perché pagare una t-shirt con il logo DHL 245 €? Perché sostituire la “M” di Moschino con quella di McDonald’s e far sfilare le modelle come lavoratrici di fast food, ma in versione luxury? Forse si tratta di una spietata critica al capitale, condotta con gli strumenti che esso stesso mette a disposizione, o forse si tratta di un’operazione un po’ naïf, un enorme gioco che passa con leggerezza attraverso i social network e gratta solo la superficie di tematiche ben più profonde e complesse.
E ciò – distorcendo la già travisata citazione di Maria Antonietta, proprio come questi stilisti manipolano i loghi – sarebbe un po’ come dire: «se non hanno più il pane, che mangino Big Mac!».
Letizia Annamaria Dabramo
Pubblicato venerdì 26 Ottobre 2018
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