Il professor Luca Serianni (da http://informalingua.com/ media/k2/items/cache/ cf0c9728d8bedab6603748ee4cc837b5_XL.jpg)

Come ogni testo dello stesso rango, la Costituzione italiana è in primo luogo un testo giuridico; anzi, la massima fonte di diritto del nostro sistema, alla quale tutte le altre leggi devono uniformarsi. Ma è anche un testo con un suo spessore letterario: nel 2006, a sessant’anni dall’istituzione del più prestigioso premio letterario italiano, il premio Strega, la Fondazione Bellonci, a cui fa capo quel premio, ha deciso di assegnare un premio speciale proprio alla Costituzione, che nel 1946 cominciò a essere elaborata dai Costituenti, per poi entrare in vigore il 1° gennaio 1948. Questo perché «a sessant’anni di distanza appare sempre più nitido l’alto valore linguistico della Costituzione italiana, un valore in cui si fece e ancora si fa concreto, percepibile, attivo, lo spirito democratico che ispira e sorregge le norme».

Sono parole di Tullio De Mauro, il grande linguista scomparso all’inizio del 2017, che allora era presidente della Fondazione. De Mauro, e con lui altri specialisti (ricordiamo Luca Cignetti, Michele Cortelazzo, Fabio Ruggiano, Luigi Spagnolo), hanno esaminato da vicino la lingua della Costituzione, mettendone in evidenza lo sforzo di chiarezza, l’intento di rivolgersi a tutti i cittadini, anche quelli con istruzione molto limitata (che rappresentavano all’epoca la grande maggioranza della popolazione). Delle parole della Costituzione, tre quarti appartengono al “lessico di base”, cioè a quei circa 2000 vocaboli di massima frequenza (come dire, fare, lavoro e come le parole grammaticali: preposizioni, pronomi ecc.), che tutti siamo abituati a usare e a leggere più volte al giorno. I tecnicismi giuridici, quelli che possono disorientare il lettore comune, anche colto, che si trovi alle prese per esempio col testo di una circolare, sono quelli inevitabili in un testo che, come dicevamo, è prima di tutto un testo normativo; e oltretutto non sono certo impervi: giurisdizione, comma, erariale, revoca.

Ma la difficoltà di un testo non dipende solo dalle parole. Contano molto la lunghezza e la complessità dei periodi: pensiamo ancora una volta alla difficoltà di orientarsi in un testo burocratico. Bene: la Costituzione supera brillantemente anche questa prova. I periodi in cui si articola il testo sono 480, con una media di 19,6 parole per frase. Ciò comporta, ricorda De Mauro, un indice di leggibilità pari a 50, il che vuol dire che, nella situazione socioculturale di oggi (forse non brillante, ma certo ben più avanzata di quel che valesse per la metà del Novecento), la Costituzione può raggiungere quasi il 90% della popolazione, magari con una lettura assistita e spiegata; e raggiungeva, «negli anni in cui fu scritta, il 41,8% della popolazione non analfabeta». Il periodo tipico degli articoli della Costituzione è quello rappresentato dalla frase lineare: soggetto – predicato (art. 14: «Il domicilio è inviolabile»; art. 27: «La responsabilità penale è personale»), con eventuali espansioni che non ne modificano la struttura (art. 5: «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali», con duplice attributo del soggetto, sequenza di due coordinate e oggetto).

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Lo sforzo di scrivere in modo chiaro ed efficace, soppesando il valore di ogni parola e badando anche ai particolari, proprio come farebbe uno scrittore prima di licenziare una sua opera creativa, era ben presente nella coscienza dei costituenti. Il testo passò al vaglio di vari organismi, di cui hanno fatto parte anche letterati all’epoca molto noti, come Pietro Pancrazi. Uno dei costituenti, Meuccio Ruini, in una seduta dell’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947, dichiarava: «La revisione stilistica si è ispirata ad intenti di correttezza linguistica, di semplificazione – desiderabilissima in un testo costituzionale – e di chiarificazione dei concetti che hanno determinata l’adozione delle formule della Costituzione».

Qualche volta si può avere l’impressione di una certa ridondanza. Nell’art. 3, che dichiara l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, potrebbe sembrare superfluo precisare che questo avviene «senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Ma non è superfluo: di fronte a quella che i giuristi definiscono una “supernorma”, cioè a un principio che orienta e condiziona tutte le altre norme costituzionali e che è alla base di tutte le democrazie moderne, è opportuno sottolineare solennemente gli ambiti in cui questo principio si esplica. D’altra parte, se nessuno attualmente metterebbe in discussione l’uguaglianza tra uomo e donna, l’appartenenza a un’altra etnia o il professare una religione particolarmente difforme dai modelli occidentali creano tutt’oggi discriminazioni ben note alla cronaca quotidiana.

Naturalmente questo non significa che l’interpretazione sia sempre pacifica: anche perché, oltre che di norme, la Costituzione parla anche di doveri (più difficilmente sanzionabili in caso di inosservanza) e di auspici, per definizione non soggetti all’imperatività di una legge. Un auspicio è quello che si legge nel citato art. 3, quando si introduce il concetto di effettività dei diritti appena enunciati, un concetto di particolare importanza nel mondo del lavoro: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana […]». I giuristi si sono chiesti a più riprese quali siano i concreti margini di applicazione del concetto di “uguaglianza sostanziale”: chi ne sono i destinatari? in che possono consistere le misure di supporto?

E a proposito di lavoro: lo stesso art. 1 («L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro») fa riferimento più a un valore ideologico che non a una concreta norma giuridica. E infatti non è mancato chi ha ritenuto che quell’articolo «non significhi assolutamente nulla» (Renato Brunetta, 2010) o che l’articolo dovesse essere modificato, eliminando il riferimento al lavoro e introducendo la nozione di “libertà” e la conseguente promozione del diritto di proprietà tra i diritti fondamentali (Angelo Panebianco, 2017).

Ma, come si diceva, la Costituzione non è soltanto il testo che contiene le norme fondamentali dello Stato: è anche il manifesto dei valori, delle idee che sono state alla base della costruzione repubblicana e in particolare i primi articoli vanno letti tenendo ben presente lo sfondo storico dal quale sono scaturiti. In un recente libro scritto a quattro mani col giurista Michele Ainis, il critico d’arte Vittorio Sgarbi ha evocato, a commento di questo articolo iniziale della Costituzione, un celebre quadro di Pellizza da Volpedo, Il quarto stato (1901). Il quadro, si ricorderà, rappresenta un folto gruppo di braccianti che avanza con serena fermezza, consapevole dei nuovi diritti che spettano al proletariato; Sgarbi fa notare che la prospettiva del quadro rovescia quella della tradizionale pala d’altare, «che si sviluppava verso l’alto, in verticale, perché l’umanità si rivolgeva al cielo per ricevere protezione». Qui la pala non è più verticale, ma orizzontale: l’umanità avanza verso il proprio destino, «conquista nuovi diritti, conquista un salario, e avanza senza che ci sia più nessuno a proteggerla».

È un’interpretazione molto suggestiva, che ci porta appunto dal piano del diritto e della sua necessaria formalizzazione in specifiche norme di riferimento, a quello della critica letteraria o artistica. Ma può servire bene a cogliere lo spessore culturale del testo e la pregnanza con cui sono state scelte le parole che ne scandiscono gli articoli.

Luca Serianni, linguista e filologo, Socio dell’Accademia della Crusca e dell’Accademia dei Lincei, vicepresidente della Società Dante Alighieri, già Professore ordinario di Storia della lingua italiana alla Sapienza. Il 14 giugno 2017, presso la Facoltà di Lettere della Sapienza, ha tenuto una lectio magistralis di congedo dall’attività didattica.