Antica o moderna, da sempre l’arte rivela agli uomini la complessità delle cose. L’arte si rivolge a tutti e, grazie alla sensibilità del suo autore, offre una inedita interpretazione della società. I fatti di cronaca raccontano episodi spietati: bambini chiusi in gabbie, allontanati dai propri genitori; uomini dilaniati da guerre senza più speranza, esseri umani lasciati morire in mezzo al mare. Allo stesso tempo, altri uomini in panciolle decidono di non prestare loro soccorso. Proprio in queste occasioni è doveroso reagire, opponendosi con forza e sentimento alla deriva razzista che il mondo sta prendendo. In questo senso, i lavori dell’artista albanese Adrian Paci ci vengono in aiuto, permettendoci di sperimentare la realtà con occhi nuovi. L’artista è autore di opere estremamente esemplificative e suggestive, in grado di proporre spunti di riflessione anche alle coscienze più ostiche. Le sue opere, infatti, si contraddistinguono per la capacità di raccontare, con sentimento e senza retorica, storie di grande umanità e attualità.
Centro di permanenza temporanea (California, 2007), ad esempio, è una delle opere d’arte più straordinarie riguardante la crisi dei profughi e la situazione nei centri di detenzione degli immigrati senza carta in attesa di essere accolti o deportati.
Con la tecnica del video, Paci mostra allo spettatore le sorti di un gruppo di migranti che, ordinatamente, camminano sulla pista di un aeroporto, in attesa di un volo che non arriverà mai. Quegli uomini aspettano inermi che qualcuno dica loro cosa fare e dove andare: il loro destino è incerto e le loro vite in transito. L’attesa del cambiamento non è una condizione temporanea, ma eterna: nessuno verrà loro in soccorso, trasformando la speranza in disperazione. Paci ci rende partecipi del senso di incertezza che prova quel gruppo di uomini, e apre una riflessione sul dramma che, ogni giorno, alcuni esseri umani vivono. Il lavoro di Paci non dà giudizi, ma offre una visione delle trasformazioni politiche e sociali che stiamo vivendo. «Non mi do un compito sociale – spiega Paci – il rischio è quello di costruire delle categorie, dentro le quali si perde la dimensione personale che per me resta fondamentale, sia nella concezione dell’opera sia nella sua costruzione. Mi interessa attivare una discussione critica. Ogni lavoro apre un dialogo. Non sono interessato ad essere definito come “l’artista degli immigrati”, ma mi interessa indagare cosa succede in queste situazioni di passaggio e proporre un racconto di autenticità».
Il tema dell’immigrazione offre all’artista anche la possibilità di riflettere sul ruolo delle immagini nel racconto della nostra esistenza. «I media – continua Paci – trasmettono immagini che non ti lasciano indifferente, arrivano con una violenza che rischia di essere quasi seducente. Credo che ci si debba protegge da questa violenza e uscire dall’urgenza quotidiana dell’informazione, costretta ad adottare toni sempre più eloquenti pur di farsi sentire nella cacofonia generale, ma che poi ti paralizza o ti fa sentire impotente». Le immagini di Paci, nella loro lentezza e poeticità, sono capaci di generare emozioni, di scuotere lo spettatore e di far nascere un sentimento umano. Con il racconto di storie di donne e uomini, l’artista affronta tematiche universali come la guerra, le migrazioni, gli emarginati, i rifugiati, la ricerca di un riscatto e di una vita migliore. Il suo lavoro, in particolare, si lega alla memoria, alla patria abbandonata, al viaggio, temi che ci fanno riflettere sulla complessità delle dinamiche sociali, politiche, ideologiche e culturali della nostra contemporaneità. Attraverso l’esperienza estetica, l’artista ci spinge a ripensare alle strutture di potere e alle condizioni politiche che generano le situazioni di vulnerabilità e sottomissione di alcuni esseri umani.
Del resto, Adrian Paci ha vissuto l’esperienza della migrazione in prima persona. Nato a Scutari, in Albania, nel 1969, negli anni Novanta lascia la sua terra per stabilirsi in Italia, dove attualmente lavora. Sono anni difficili in cui molti suoi connazionali arrivano nel Belpaese con i barconi, scappando dalla guerra civile e dalla crisi economica. «Io – ricorda l’artista – giunsi in Italia per la prima volta da studente grazie a una borsa di studio. Poi, nel 1997 sono tornato con la famiglia, negli anni in cui la Lega si presentava con lo slogan: “Un voto in più alla Lega, un albanese in meno a Milano”. Ti sentivi diverso, il non voluto. Ma ho anche incontrato persone straordinarie che mi hanno aiutato e dato ospitalità nei primi tempi in cui vivevo a Bruzzano dove la gente si conosce e fa vita di quartiere». L’artista, dunque, sa bene cosa significa vivere in una terra che non offre possibilità, conosce il senso di perdita e la gioia nella scoperta di nuove possibilità.
Fra le sue opere più note, ricordiamo anche The Column (2003), un video che racconta il viaggio oceanico dalla Cina all’Italia a bordo di una nave migrante i cui passeggeri, un gruppo di artigiani asiatici, occupano il tempo del viaggio scolpendo una colonna di marmo. Il loro lavoro serve ad abbattere i tempi di produzione. «Un mio amico – ricorda Paci – mi dice che si possono fare sculture in Cina con una buona qualità a costi accessibili e possono arrivare con una certa velocità perché il lavoro lo fanno sulla nave. Questo mi ha affascinato perché è qualcosa di crudele ma allo stesso tempo di favoloso. Così nasce l’idea di questa scultura, e del film che racconta la sua venuta al mondo». A Real Game (1999) è un dialogo fra l’artista e la figlia in cui si ripercorre fra dramma e fantasia l’esperienza vissuta da entrambi in Albania. The Weeper (2002), in cui l’artista mette in scena il proprio funerale, è metafora del rapporto col suo passato. Home to go (2001) è una serie di nove fotografie nella quale Paci porta sulle sue spalle il tetto di una casa che non rappresenta più un porto sicuro in cui rifugiarsi. L’artista nello sforzo di sollevare il tetto comunica al mondo tutto il peso di una condizione umana.
L’opera di Paci ci invita così a riconsiderare i confini geopolitici, perché la storia dell’uomo è fatta di migrazioni e di spostamenti di massa, di conflitti e di risoluzioni. Noi non possiamo scegliere con chi vivere, respingendo chi incontriamo. Al contrario, dobbiamo combattere per il diritto ad una effettiva uguaglianza e lottare affinché tutti possano vivere una vita dignitosa. L’articolo 3 della nostra Costituzione deve essere un punto di riferimento imprescindibile per qualsiasi decisione politica: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». In questi tempi bui, dobbiamo sempre ricordarci di essere partigiani, di schierarci e di smascherare le menzogne di quanti affermano che il problema sono i migranti, di quanti parlano di invasione e di chi, sulla pelle dei più deboli, fonda la propria strategia di potere. Per farlo occorre essere preparati e determinati, coraggiosi e sensibili. Abbiamo la possibilità di costruire un mondo più giusto, nel quale un gruppo di migranti non sarà più costretto a vivere una condizione sospesa, e dove ogni essere umano avrà una casa dove abitare in armonia con gli altri.
Francesca Gentili, critica d’arte
Pubblicato mercoledì 18 Luglio 2018
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