Avere un dialogo attivo con il nostro patrimonio culturale serve ad avere coscienza di se stessi, della propria nazione e ad essere liberi. L’arte, nella storia, ha spesso avuto un importante ruolo civile, per la sua capacità di legare le comunità e di coinvolgere simultaneamente le persone. Conoscere le nostre radici culturali significa sapere chi siamo: le opere d’arte non sono mero intrattenimento ma coscienza attiva dei valori immateriali. Lo sapeva bene Antonio Canova (1757-1822), artista italiano di portata europea, promotore di una vera e propria svolta nella scultura nella seconda metà del Settecento. Il maestro indiscusso del neoclassicismo, infatti, è consapevole che fare arte vuol dire occuparsi non soltanto dell’estetica ma anche dell’etica. Osservare le opere della classicità è per lui fondamentale, perché in esse ritrovava quei valori ideali che nel tempo si erano persi.
Primo fra i suoi contemporanei, Canova guarda al patrimonio classico come a qualcosa di vivo, qualcosa da proteggere, tramandare e tutelare. Lo vedevano meditare nei musei antichi e, pieno di “slancio per la bellezza, Canova si impegnava a patrocinare i diritti davanti a Napoleone che li aveva impoveriti, cercare il riscatto delle opere d’arte tolte alla patria” (Adolfo Venturi). Napoleone Bonaparte, infatti, aveva deciso che, per far grande il suo museo enciclopedico parigino, avrebbe dovuto prendere, dove poteva, alcune opere d’arte. Le scelte erano indirizzate soprattutto ai capolavori dell’antichità classica e del Rinascimento. Nella primavera del 1798, dodici carri carichi di opere d’arte avevano così lasciato lo Stato Pontificio per Parigi: era il bottino di Napoleone che andava ad accrescere le collezioni del Louvre. Un bottino eccezionale, in cui si trovavano alcuni capolavori dell’antichità, come l’Apollo del Belvedere, che Winckelmann, storico dell’arte fra i più apprezzati all’epoca, aveva fissato come canone del bello ideale, la Venere de’ Medici, il gruppo scultoreo del Laocoonte e quasi tutta la produzione di Raffaello.
Queste opere si troverebbero ancora nelle sale del più visitato museo del mondo se Canova non avesse deciso di intraprendere una campagna per il loro recupero. Dopo la caduta di Napoleone, Canova, in qualità di commissario dello Stato Pontificio, aveva organizzato il rientro delle opere romane da Parigi (1816). Impresa che gli aveva fruttato anche il titolo di “marchese d’Istria di Carso”. Per Canova era indispensabile riportare a casa quel patrimonio. E non soltanto per il suo valore estetico ma anche perché strumento di conoscenza e comprensione. Attraverso le opere d’arte, infatti, l’uomo poteva avere un contatto diretto con la bellezza e, allo stesso tempo, essere coinvolto in un progetto di identità civile e culturale, in cui sono compresenti il passato, il presente e il futuro.
Fin da piccolo, Canova passava ore ad osservare marmi e gessi greco-romani nella Galleria Farsetti a Venezia. Il suo era un vero e proprio dialogo con le opere, di cui prediligeva soprattutto i miti degli dei e degli eroi antichi. Quasi mai si appassionava a soggetti cristiani, fatta eccezione della Maddalena penitente, perché si prestava allo studio del nudo che il cristianesimo voleva bandito. Il suo senso vivo della realtà aveva aiutato Canova a tradurre in scultura i soggetti mitologici, a sublimare le loro figure, rendendoli attuali. L’artista, difatti, guardava al passato per raccontare il presente, con l’obiettivo di ricreare una connessione fra arte e pubblico. Nella sua immaginazione le rovine di Roma e le sue architetture esercitavano un ascendente potente. L’osservazione diretta delle opere antiche era per lui imprescindibile. Per questo, dopo aver passato i primi anni a studiare scultura a Venezia, Canova all’età di ventidue anni era partito per Roma per contemplare i tesori dei Musei Capitolini e dei Musei Vaticani, come pure tutte le raccolte della famiglia Farnese e Ludovisi, senza dimenticare i molti marmi inseriti nel contesto urbano capitolino. L’artista pensava che la Capitale fosse il centro naturale dell’arte e ne subiva così tanto il fascino che diceva che i suoi veneziani, da Giorgione a Tiziano, avrebbero composto meglio se fossero stati a Roma.
Canova pensava che l’arte avesse perso il “suffragio popolare” e, attraverso la scultura, voleva riconnettere arte e pubblico. Ogni figura, in Canova, aveva un marcato accento di naturalezza. “La forma – ha spiegato il critico dell’arte Giulio Carlo Argan – non è la rappresentazione (e cioè la proiezione o il doppio) della cosa, ma è la cosa stesa sublimata, trasposta dal piano dell’esperienza sensoria a quello del pensiero”. Per questo motivo, Canova si rifiutava di realizzare copie di sculture classiche: per lui l’antico doveva rivivere nel presente con creazioni nuove. L’artista guardava alle forme classiche come ancora di salvezza. Una salvezza che, ancora oggi, ognuno di noi può trovare ammirando l’arte che più ama.
Famose le rappresentazioni scultoree dei suoi contemporanei, a cui l’artista dava un aspetto eroico o divino: Ferdinando I come Marte, Giorgio Washington come Cesare, l’imperatrice Maria Luigia come immagine della Concordia diademata, Paolina Bonaparte come Venere vincitrice e Napoleone nelle vesti di Cesare Augusto. Canova era un artista internazionale, a soli ventisei anni, aveva ottenuto il suo primo grande successo con il Monumento sepolcrale di Clemente XIV ai Santi Apostoli. In breve tempo era diventato lo scultore più celebrato del suo tempo, coinvolto nella gestione e nella salvaguardia del patrimonio culturale: l’artista partecipa alla stagione più gloriosa della politica pontificia per la tutela. Canova ha ricoperto numerose cariche di solito riservate all’aristocrazia o al clero: ispettore generale delle Belle arti, presidente della commissione per gli acquisti di antichità, ambasciatore del Papa per il recupero delle opere d’arte emigrate in Francia sotto Napoleone.
Anche oggi, come al tempo di Canova, l’arte è chiamata a svolgere un ruolo civile. E non solo. “Il patrimonio culturale – sostiene lo storico dell’arte Tomaso Montanari – è uno dei fondamenti su cui poggia la nostra Repubblica, che permette il pieno sviluppo della persona umana attraverso la conoscenza. Con l’articolo 9, e i suoi rapporti con gli articoli 1 e 3 della Costituzione, la democrazia italiana ha deciso infatti di ricostruirsi attraverso la ricerca dell’uguaglianza, da perseguire anche tramite la ridistribuzione della conoscenza. Una scelta lungimirante se vista oggi nell’età dell’informazione: conoscere è una condizione fondamentale per essere uguali e liberi”.
Dobbiamo ribellarci, quindi, a chi cerca di silenziare l’importanza dell’arte, togliendone lo studio dalle scuole o rendendo mostre e musei luoghi esclusivi. L’arte è di tutti e ognuno di noi deve poterne usufruire. Dovrebbe essere pratica comune poter passeggiare nei musei statali e ammirare i quadri che hanno fatto grande la nostra storia. E dovremmo batterci per avere musei gratis, dove trascorrere momenti felici con tutta la famiglia. La rendita prodotta dalle opere d’arte è culturale ed emotiva ed ha un valore inestimabile. Se usciamo dalla logica della monetizzazione, che vede l’arte come qualcosa da alienare o sfruttare, possiamo renderci conto di come rivendicare il diritto ad avere musei gratuiti sia del tutto naturale. E soprattutto sia una battaglia da compiere al più presto: ignorare il nostro patrimonio culturale equivale a privarsi di un bene prezioso, un bene che ci rende più forti e che ci fa sentire parte di una collettività viva. La bussola della nostra Costituzione è l’eguaglianza, anche in materia di patrimonio culturale. Ci si stupisce che in Italia la lettura sia un passatempo per pochi. Lo è anche andare per musei, che, al contrario dovrebbe essere uno dei luoghi di incontro di una comunità.
Potremmo anche noi rivendicare la necessità di guardare all’arte passata, attuando un’educazione al rispetto e alla sensibilità del nostro patrimonio. Potremmo così scoprire che guardare marmi antichi o pitture più recenti sia qualcosa che ci aiuti a vivere meglio.
A Roma, fino al 15 marzo 2020, va in scena “Canova. Eterna bellezza”, una mostra allestita nelle sale di Palazzo Braschi, dove sarà possibile ammirare moltissime opere dello scultore, in un percorso che ne ricostruisce il forte legame con la Capitale. Esposte anche trenta fotografie di un grande maestro dello scatto, Mimmo Jodice, che ritraggono i marmi di Canova.
Francesca Gentili, critica d’arte
Pubblicato venerdì 20 Dicembre 2019
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