A nord di Parigi, c’è fermento al Café Guerbois. Un gruppo di giovani pittori si è riunito per definire gli ultimi dettagli della mostra che l’indomani avrebbe potuto distruggere o lanciare le loro carriere. Fra questi, il più tenace e determinato è Claude Monet (1840 – 1926). L’artista, insieme a Camille Pissarro, Paul Cézanne, Edgar Degas, Pierre-Auguste Renoir, ha deciso di sfidare l’Accademia, l’istituzione che, più di una volta, ha rifiutato i loro lavori. Entusiasmo e fiducia pervadono l’animo di ogni artista, consapevole di voler rivendicare il proprio ruolo nella storia dell’arte.
Il 15 settembre 1874, al secondo piano di un edificio in rue Daunou, all’angolo con il boulevard des Capucines, nel cuore di Parigi, viene così inaugurata la prima mostra indipendente degli impressionisti. Ad ospitare il grande evento è il fotografo Nadar, famoso per i suoi ritratti alle personalità più in vista della società. Tuttavia, le aspettative rimangono deluse: il pubblico non è molto e i giudizi feroci. Louis Leroy, critico severissimo, scrive addirittura sul giornale “Charivari”: «Ah, fu un giorno duro quando mi arrischiai a visitare la prima esposizione del boulevard des Capucines insieme a Joseph Vincent, paesaggista, premiato con medaglia e decorato da vari governi! L’imprudente ci era venuto senza pensar male: credeva di vedere della pittura come se ne vede dappertutto, buona e cattiva, più cattiva che buona, ma che non attentasse al buon costume artistico, al culto della forma e al rispetto dei maestri. Ah, la forma! Ah, i maestri! Non ce n’è più bisogno, vecchio mio! Abbiamo cambiato tutto».
Leroy scaglia parole al vetriolo contro una tela in particolare di Monet, Impressione, levar del sole (1872), ironizzando sul titolo («Impressione ne ero certo! Stavo giusto dicendo che, dal momento che ne sono rimasto impressionato, ci deve essere dell’impressione là dentro») e affermando che «la carta da parati allo stadio iniziale è più rifinita». Monet è furioso ma non si lascia abbattere, e poi, fortunatamente, le taglienti parole di Leroy non fanno troppo eco e al contrario del loro intento, danno all’Impressionismo un’identità e all’artista una buona dose di visibilità. Una visibilità che nel tempo cresce, affermando il pittore francese come uno dei grandi maestri del XIX secolo, colui che ha sfidato l’accademia e introdotto importanti novità, dalla negazione dell’importanza del soggetto alla riscoperta del colore e della pittura di paesaggio.
Chi volesse ammirare un numero cospicuo di opere dell’artista può recarsi al Vittoriano di Roma, che fino al tre giugno 2018 ospita la rassegna Claude Monet: circa 60 lavori provenienti tutti dal Musée Marmottan Monet di Parigi, dalla tele dedicate ai salici piangenti alla campagna francese. Fra i capolavori esposti il Ritratto di Michel Monet neonato (1879), Nenfee (1916-19), Le Rose (1926), Londra. Il Parlamento. Riflessi sul Tamigi (1905).
Se le critiche all’esposizione del 1874 sono abbastanza note, quelle riservate al ciclo delle ninfee lo sono di meno. «Tali opere – racconta la curatrice Marianne Mathieu – furono tuttavia criticate a lungo prima di essere innalzate, proprio come Impressione, levar del sole, al rango di icone». Le Ninfee appartengono alle opere tarde dell’artista che, in vecchiaia, dedica la sua attenzione al giardino, realizzando moltissime composizioni. Nel 1902, Monet confida agli amici: «Ho di nuovo ripreso a fare cose impossibili da fare: dell’acqua con erba che ondeggia sul fondo; è stupendo da vedere, ma è pura follia volerlo fare». In pochi mesi, l’artista realizza quarantotto schizzi, che raffigurano tutti lo stesso angolo di verde di Giverny. «È a Giverny – dirà il suo amico e critico Gustave Geffroy – che bisogna aver visto Claude Monet per conoscerlo, per comprenderne il carattere, il gusto per la vita, la natura intima».
Monet si era trasferito nel piccolo villaggio della Normandia nel 1883, e da subito se ne innamora. Fra la sua abitazione, la cosiddetta Le Pressoir, e la strada c’è un giardino, fonte di grande ispirazione per l’artista. Monet, pur di comperarlo, è disposto anche a chiedere in prestito una cospicua somma di denaro al suo mercante Paul Durand-Ruel. E quando, il 19 novembre del 1890, l’artista diventa proprietario della casa, vi allestisce il primo atelier e inizia a dipingere con meticolosità e costanza il giardino. Il giardino di Monet, con le sue ninfee, è un’opera in divenire, «la sua più bella opera», afferma Georges Truffaut. Ed è lì che il pittore vuole sperimentare le luci e l’impalpabilità dell’aria. Secondo il figliastro, Jean-Pierre Hoschedé, l’artista era «felice tra i suoi fiori che sembrava accarezzare con lo sguardo […], essi gli fornivano i soggetti che cercava: vere immagini della natura, ma create secondo la sua volontà, da cui trarre i suoi maggiori capolavori». Le Ninfee saranno oggetto di due esposizioni, una nel 1900 l’altra nel 1909, anche se ancora per tanto tempo il pittore si concentrerà su questo tema. Monet si dedica alle ninfee anche durante gli anni del primo conflitto mondiale. Una scelta, forse, un po’ dissennata, tuttavia l’artista la reputa un atto di resistenza al nemico e a quella barbarie. Terminata la Guerra, su suggerimento dell’amico Georges Clémenceau, l’artista dona i suoi pannelli allo Stato.
Monet con la sua tavolozza è capace di emozionare raffigurando soggetti semplici, come fiori, alberi, ninfee e barche. E anche quando le avanguardie artistiche del Novecento superano la pittura del secolo appena passato, nonostante una grave malattia agli occhi gli rende difficile perfino riconoscere i colori, Monet continua a dipingere, rimanendo fedele alla poetica impressionista. Le uniche cose che sa fare, a suo dire, è dipingere e piantare fiori. Per i suoi amici più intimi e per la sua famiglia, l’artista conserva i dipinti che ritiene essere l’espressione più vera della sua anima. Dipinti che sono stati preservati agli occhi del pubblico fino alla sua morte e custoditi proprio nella casa di Giverny. La rassegna al Vittoriano, grazie alla collaborazione con il Musée Marmottan Monet, vuole mostrare questo patrimonio più intimo del padre dell’impressionismo, dando conto del suo intero percorso artistico, a partire dai primi lavori, le celebri caricature della fine degli anni Cinquanta del XIX secolo con cui guadagna i primi soldi, passando per i paesaggi rurali e urbani di Londra, Parigi, Vetheuil, Pourville, per i ritratti dei suoi figli e dei celebri fiori, forse l’essenza più genuina della sua poetica.
Francesca Gentili, critica d’arte
Pubblicato giovedì 22 Marzo 2018
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