Milano, 1928; Petritoli (Fermo), 2015. Se n’è andato il 13 dicembre, dopo una lunga malattia.
Per parlare di Mario Dondero bisogna prima dar conto di che cosa era la fotografia italiana durante il ventennio fascista. Altrimenti nulla è chiaro e non si capisce lo straordinario distacco e il vero e proprio ribaltamento tra il prima e il dopo. Certo, con il crollo del fascismo, tutta la società italiana rinacque a nuova vita e in particolare il cinema, la fotografia, l’arte figurativa, la stampa, i quotidiani, i settimanali, i mensili. E rinacquero tutti a nuova vita perchè ognuno era direttamente coinvolto nelle grandi speranze di cambiamento, di rinnovamento politico, culturale e sociale. Persino i conservatori e i reazionari. D’altra parte c’era l’Italia vera da riscoprire, capire, far vedere e interpretare. Ovviamente non era quella dei cinegiornali, dei libri e dei settimanali fotografici fascisti. Era, quella del 1945, un’Italia povera, distrutta dalla guerra, dolorosa e dolorante che usciva dalle cantine e dalle macerie, per aggrapparsi di nuovo al sole, alla vita, al cielo azzurro e al mare. Un’Italia, insomma, che non voleva più pennacchi, petti in fuori, sfilate marziali, frasi roboanti, retorica e nullità e che rivoleva a casa i propri soldati, sopravvissuti a quella ventata di follia che era stata la Seconda guerra mondiale.
Non che la fotografia si fosse fermata durante il ventennio, ma era stata, per tanti anni, una fotografia estetizzante, chiusa nei laboratori e nelle gallerie, fatta di pecore al pascolo, di tramonti dorati, di campagne coltivate e di paesetti e contadini come quelli scoperti dalle cartoline.
I bravi fotografi lavoravano anche durante il fascismo, eccome. Quelli di guerra dell’Istituto Luce, per esempio, venivano tutti dalla scuola del grande Porry Pastorel, ma erano massacrati, ogni giorno, da una censura occhiuta e obbedientissima al regime. Poi c’erano Giuseppe Cavalli, Arturo Bragaglia, sopravvissuto alle sue fotodinamiche, Giuseppe Vannucci Zauli, Luigi Veronesi, Grignani, Albe Steiner, Alex Franchini Stappo e Domenico Peretti Griva. Tutti sperimentavano molto ma, appunto, al chiuso e non potevano in alcun modo uscire dai binari prefissati dal Ministero della cultura popolare. Furono loro ad accogliere, con grande gioia, il famoso librettino di Alberto Lattuada “L’occhio quadrato” perché da quelle pagine occhieggiava un’Italia finalmente diversa e più reale. Stesso effetto ebbe la pubblicazione da parte della “Domus” di quel notissimo catalogo della fotografia italiana del 1943 firmato da E.F. Scopinich, Alfredo Ornano e Albe Steiner. Fu un incredibile successo perché sapeva, appena appena, di nuovo e di libertà. Proprio come il primo film di Luchino Visconti, il cupo e bellissimo “Ossessione” che puntava la cinepresa su un’Italia di poveracci e non di “santi, navigatori e poeti”.
Il lavoro e lo stile di Mario Dondero e quel suo particolare modo di guardare il mondo, hanno profonde radici proprio in quello stile di ricerca, in quell’ansia calma, ma solida, di capire e di mostrare gli altri. E d’altra parte come poteva essere diversamente con la storia personale che Mario aveva alle spalle?
Veniva da un’agiata famiglia genovese, ma studiava a Milano, al “Berchet”. Durante la guerra aveva visto la madre nascondere ebrei e partigiani. Quando era stato il momento, lui aveva scelto: la montagna per difendere la repubblica partigiana dell’Ossola. Poi il ritorno a Milano, nei giorni della Liberazione, con i suoi compagni.
Che cosa voleva fare da giovanissimo Dondero? Il cronista: anzi il cronista di nera. Certo la sua era una vita tutta piena di aneddoti, di storie e di leggende, ma la vocazione per il giornalismo d’assalto non lo lasciava mai un momento. Poi aveva cominciato a lavorare con la macchina fotografica e ad accumulare le ore e i giorni, passati al mitico bar Jamaica in via Brera a Milano. In quel periodo lavorava a Milano Sera, ma non perdeva un’occasione per scattare con la sua “Rollei”, scrivere pezzi di nera e discutere, ore e ore, con Augusto Pancaldi, Luciano Bianciardi, Davide Lajolo, Montand (sì proprio lui, il mitico cantante), con Sartre, Salvato Cappelli, Ugo Mulas, Sonego, Pasquale Prunas, Albe Steiner, l’architetto Albini e un sacco di colleghi e amici.
Una volta, durante una intervista, mi disse: «Guarda che al Jamaica discutevamo moltissimo di Flaubert e pochissimo di fotografia». Ma era il momento dell’esplosione del cinema neorealista con Ladri di biciclette, Roma città aperta e tante altre grandi opere. Escono anche, nello stesso periodo, i libri di Moravia, Pavese, Pratolini, Fenoglio, Gadda, Gatto, Mastronardi, Cassola, Zavattini, Corrado Alvaro. Ma c’è anche l’esplodere, tra i fotografi, della passione per Bob Capa e Cartier Bresson, per Paris Macht, e Life, per il “realismo magico” e la scoperta dell’Italia che si stava muovendo: ci sono, infatti, le grandi lotte operaie, lo straordinario movimento per l’occupazione delle terre, le battaglie per la Repubblica o la monarchia, l’attentato a Togliatti e tanto, tanto altro. Intanto Vittorini, con il suo Politecnico, spedisce Mario Crocenzi in Sicilia perché vuole le foto di “quell’incredibile terra”. Dondero viene assunto da Le Ore e scatta fotografie splendide scrivendo anche i relativi articoli. Dal Jamaica i fotografi si muovono per il mondo come in una grande diaspora e si incrociano con altri straordinari personaggi dell’immagine ottica che sono partiti da Roma, da Napoli, da Genova, dalla Sicilia, da Firenze. Si chiamano Sellerio, Caio Garrubba, i fratelli Sansone, Calogero Cascio, Ermanno Rea, Carlo Bavagnoli, Alfa Castaldi, Patellani, Gianni Berengo Gandin. Già esce Il Mondo di Pannunzio, che assorbe i primi grandi fotoservizi dei fotografi italiani che vanno in giro ovunque a riprendere tutto e tutti: guerre, ribellioni, aggressioni, indipendenze, grandi incontri internazionali. E i nostri vanno anche a scoprire tutti i Paesi del socialismo reale e pubblicano notevoli fotoservizi anche sui settimanali di sinistra come Vie Nuove, Noi donne, Lavoro. Dondero, ovviamente non si ferma un momento. Anzi si trasferisce a Parigi e incontra il “ragazzino” Ferdinando Scianna.
Mario lavora per un paio di agenzie fotografiche italiane e per tutti i grandi settimanali del nostro Paese, dell’Europa e dell’America. È ormai conosciutissimo ed ha uno stile tutto particolare. Non “mette mai in scena” niente. Aspetta paziente alle fermate delle metropolitane, alle fermate degli autobus, nei treni, alle grandi e piccole manifestazioni, politiche, sociali e culturali. Segue i soldati, le battaglie, le lotte, le donne ai mercati, i bambini nelle scuole, i sottoproletari nei loro locali. Nelle sue foto “lui” sparisce completamente e non è né facile né semplice. Così come sparisce la macchina fotografica.
A te che guardi le foto, pare sempre di essere direttamente sul posto, appoggiato a qualche angolo per guardare quello che succede. Le immagini sono sempre “morbide”, calme e non appaiono mai dure o secche. Comunque piene di attenzione e di comprensione, ma senza sbrodolamenti, falsi pietismi o dettagli per strappare una lacrima.
Dondero guarda il mondo, fa parte del mondo, e le sue foto sono il risultato di uno che piange e ride come tutti, si emoziona come ognuno e ha pena per la difficoltà del vivere quotidiano. Per questo, ognuno, quelle foto le sente vicine. Sono la finestra sul mondo di un uomo sensibile e delicato.
Naturalmente, Mario ha pubblicato moltissimi libri e tenuto un gran numero di mostre. Non poteva essere diversamente.
Pubblicato mercoledì 23 Dicembre 2015
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