Balkan-Baroque

Ha speso la sua vita per introdurre la performance fra le principali forme d’arte. Marina Abramović, artista serba fra le più influenti al mondo, alla soglia dei cinquanta anni di carriera, è la protagonista di The Cleaner, una grande retrospettiva allestita nelle sale rinascimentali di Palazzo Strozzi a Firenze, dove sono riproposti tutti i suoi lavori del passato, alcuni filmati, altri ripetuti con l’aiuto di trentaquattro attori. L’artista, infatti, per superare il carattere effimero delle sue opere e reinventare l’idea stessa di performance ha programmato una serie di Re-performances, proponendo quotidianamente un’azione artistica nella quale saranno coinvolti gli spettatori. Per gli amanti del contemporaneo, The Cleaner è l’evento italiano dell’anno, un’occasione unica per scoprire e ripercorrere le principali tappe della carriera dell’artista che, giovanissima, esordì a Belgrado come pittrice figurativa e all’età di 72 anni continua ad esporre nei musei più influenti del mondo.

Imponderabilia

Il titolo dell’esposizione, The Cleaner, fa riferimento a un particolare momento creativo ed esistenziale, ad una riflessione dell’artista sulla propria vita: “Come in una casa: tieni solo quello che ti serve e fai pulizia del passato, della memoria, del destino”. Ad accogliere i visitatori una lavatrice d’epoca, The Cleaner appunto, protagonista di una delle storie di gioventù dell’artista. “Avrò avuto circa dodici anni – racconta la Abramović nella sua biografia – quando mia madre si fece arrivare una lavatrice dalla Svizzera. Era un evento non da poco: eravamo la prima famiglia di Belgrado ad averne una. […] Una mattina che non ero andata a scuola rimasi in bagno a contemplare l’affascinante nuova macchina che faceva il suo lavoro, agitando i panni con un suono monotono – dun-dun-dun-dun. Ero ipnotizzata. La macchina aveva uno strizzatore automatico e due rulli di gomma che giravano lentamente in direzioni opposte, mentre i panni da lavare sbattevano nel cestello. Cominciai a giocarci mettendo un dito tra i rulli e tirandolo via il più in fretta possibile. Una volta non tirai via il dito abbastanza rapidamente, e mi rimase incastrato in mezzo ai rulli. […] Quando mia madre rientrò a casa chiamò l’ambulanza e poi mi diede un sonoro ceffone”.

Con la ricerca costante di sperimentare una trasformazione emotiva e spirituale, il lavoro di Marina Abramović spinge ognuno di noi ad andare oltre i propri confini, ad attraversare i muri autoimposti, ad osare; ad essere liberi insomma. Con azioni forti e violente, spesso rischiose e cariche di energia, l’artista dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso è diventata una vera e propria “guerriera della performance”. Mezzo principale per comunicare è il suo corpo che viene sempre messo a dura prova, sia con prove fisiche sia con prove psicologiche.

Marina Abramović

Nel suo percorso di affermazione artistica, l’Italia ha rivestito un ruolo speciale. È qui, infatti, che nel 1973 è invitata a Roma in occasione della mostra a cura di Achille Bonito Oliva Contemporanea, una delle prime ad includere l’arte performativa. In quell’occasione Abramović presenta Rhythm 10: “Era – ricorda l’artista – una totale follia e si basava su un gioco da osteria dei contadini russi e jugoslavi. Si mette la mano con le dita allargate sul tavolo e con l’altra mano si colpiscono velocemente gli spazi tra le dita con un coltello affilato. Ogni volta che si manca il bersaglio e ci si taglia, si deve bere. Come nella roulette russa, sono in gioco il coraggio, l’idiozia, la disperazione e le tenebre: un perfetto gioco slavo”. La variazione nell’opera dell’artista prevedeva non uno ma dieci coltelli, il suono e una idea: trasformare gli incidenti nella traccia per una performance. Con questa opera, afferma Abramović, “avevo fatto esperienza di libertà assoluta; avevo sentito che il mio corpo era senza limiti e confini; che il dolore non aveva importanza. Ed era inebriante ed in quel momento seppi di aver trovato il mio medium. Nessun dipinto, nessun oggetto che potessi creare mi avrebbe potuto dare quella sensazione e sapevo che sarei tornata a cercarla, non una ma mille volte”.

L’anno successivo, l’artista è a Milano, alla Galleria Diagramma, dove presenta un’altra opera scioccante: Rhythm 4, dove nuda e sola in una grande stanza, si accovaccia sopra un potente ventilatore industriale, mentre una videocamera trasmette la sua immagine al pubblico nella stanza a fianco. Dopo pochi minuti, il potente getto d’aria farà svenire l’artista. “La cosa più importante – spiega Abramović – era farmi vedere in due stati diversi: vigile e priva di sensi. Sapevo di sperimentare nuovi modi per usare il mio corpo come materia prima”.

Nello stesso anno è a Napoli, nello Studio Morra, con la sua performance più temeraria Rhythm 0. Questa volta Abramović progetta una performance in cui sarebbe stato il pubblico ad agire su di lei. L’artista mette a disposizione dei partecipanti settantadue oggetti, di piacere e di dolore – fra cui un martello, un bicchiere d’acqua, un coltellino, una sega, una piuma, una rosa, un paio di forbici, un rossetto, una macchina Polaroid, uno scialle, degli spilli, una pistola e un proiettile – da usare a piacimento per tutte le sei ore della durata dell’evento. Alla fine della performance l’artista ne esce fortemente turbata, la tensione crescente aveva spinto il pubblico, fra le altre cose, anche a puntarle la pistola carica alla gola. Dopo sei ore, l’artista, nuda e coperta di sangue, si alza e cammina verso il pubblico che, all’istante, fugge via spaventato. “Come in tutte le mie altre performance, in Rhythm 0 non facevo che innescare le paure umane nel pubblico: usando l’energia per spingere il mio corpo il più lontano possibile. Facendo ciò liberai me stessa dalle mie paure. E mentre succedeva, divenni uno specchio per il pubblico: se potevo farlo io, potevano farlo anche loro”.

Nel 1976, invece, è la volta di Relation in Space, la prima performance realizzata insieme al tedesco Ulay, suo grande amore per oltre dieci anni e presentata alla Biennale di Venezia. I due, nudi, procedono l’uno verso l’altra sempre più velocemente, arrivano a scontrarsi, producendo con i loro corpi suoni ritmici.

Abramovic posa con un’opera di Piero Manzoni

Sempre alla Biennale di Venezia, molti anni dopo, Abramović realizzerà Balkan Baroque (1997), ispirata al dramma della guerra in Bosnia, con la quale vincerà il Leone d’Oro. Nell’opera, metafora contro tutte le guerre, l’artista, all’interno di uno scantinato buio, era intenta a pulire per quattro giorni, una ad una oltre duemila ossa di bovino, raschiando pezzi di carne e cartilagine, e intonando canzoni della tradizione serba. “Il premio – racconta l’artista – fu una gratificazione indescrivibile: avevo messo tutta la mia anima in quel lavoro. Nel mio discorso di accettazione dissi: “L’unica arte che mi interessa è quella in grado di cambiare l’ideologia della società… L’arte che insegue valori esclusivamente estetici è incompleta”.

Una delle performance più conosciute dell’artista è The Artist is Present, presentato al Moma di New York nel 2010. Si tratta di una delle performance artistiche più lunghe della storia (tre mesi), dove la Abramović è seduta su una sedia immobile. “Le regole – spiega l’artista – erano semplici: ogni persona poteva sedersi davanti a me per tutto il tempo che voleva, breve o lungo che fosse. Ci saremmo guardati negli occhi. Non era permesso né parlarmi né toccarmi. […] Ciò di cui mi accorsi subito fu che le persone sedute davanti a me provavano emozioni molto forti. Fin dall’inizio, la gente piangeva – e piangevo anche io. Ero un loro specchio? Non solo. Ero in grado di vedere e percepire il dolore della gente”. Un evento incredibile, capace di portare alle estremità il valore della comunicazione spirituale fra artista e pubblico. Fin dal primo giorno di performance, il museo americano è preso d’assalto. In coda per partecipare all’evento persone comuni e artisti affermati, da Lou Reed a Bijork, da Isabella Rossellini a Orlando Bloom.

In cinquanta anni di lavoro, la Abramović ha realizzato tantissime performance, suscitato commozione e paura, disgusto e tenerezza, spingendo le coscienze a confrontarsi con un nuovo modo di affrontare la realtà. I suoi lavori, portando alla ribalta temi cruciali dell’esistenza umana, ci permettono di comprendere un grande insegnamento: nella vita bisogna osare ed essere coraggiosi: “È – afferma l’artista – estremamente importante uscire dalla propria comfort zone, per conoscersi fino in fondo. È così che si scopre il nuovo Io. Con il tempo, ho voluto essere di ispirazione per gli altri, nel senso che volevo far capire che “se posso farlo io, lo puoi fare anche tu, sei tu l’unico padrone del tuo destino”. E lo volevo dire soprattutto alle donne, che devono smetterla di sentirsi in colpa”.

Francesca Gentili, critica d’arte