Da molti definito lo scultore della solitudine, lo svizzero Alberto Giacometti (1901-1966) è forse uno degli artisti che meglio hanno saputo interpretare l’esistenza dell’uomo del Novecento. Visionario e solitario, Giacometti lascia un segno indelebile nell’arte, realizzando opere oniriche ed esistenzialiste che indagano con acume la profondità dell’anima. Cogliendo appieno il sentimento del suo tempo, Giacometti racconta l’uomo con essenzialità: nelle sue opere, i contemporanei trovano l’espressione più calzante degli anni del dopoguerra. «Per me – afferma l’artista – l’arte è il giusto mezzo per cercare di sapere com’è il mondo esterno. Quello che conta per me è solamente il soggetto, l’uomo».
Giacometti è un artista precoce. Non ha neppure trenta anni e già alcuni suoi lavori entrano nella collezione dei maggiori musei internazionali, uno fra tutti, il Modern Art di New York. Il suo apprendistato comincia da giovanissimo studiando dai libri del padre, pittore post impressionista, l’arte dei maestri. In casa, infatti, è presente una grande biblioteca, con testi ricchi di illustrazioni. Giacometti passa il tempo a ricopiare le opere di Albrecht Dürer, Andrea Mantegna, Rembrandt, ma anche Diego Velázquez e Katsushika Hokusai, divenendo abilissimo nella pratica del disegno. Una passione seria, che ricorderà più tardi con queste parole: «Da quando ho visto delle riproduzioni di opere d’arte, e questo risale alla più tenera età, si mescola ai miei più lontani ricordi, ho provato il desiderio immediato di copiare tutte quelle che mi attiravano di più e questo piacere di copiare in realtà non mi ha più abbandonato». Tanto che al padre, che nel 1919 gli chiede «vuoi diventare un pittore?», con fierezza risponderà, «pittore o scultore». All’età di diciotto anni è già alla scuola di Émile-Antoine Bourdelle a Parigi, la celebre Académie de la Grande Chaumière, dove scopre la portata rivoluzionaria dell’opera di Cézanne. Tuttavia il giovane artista, pur allargando il suo orizzonte, osserva criticamente l’arte del passato e per opposizione cerca un nuovo approccio alla forma e alla materia. Rompe con la tradizione della scultura dal XVI al XIX secolo e propone un’arte radicale e primitiva.
Giacometti fa parte del gruppo surrealista, ma poi, negli anni che precedono la seconda guerra mondiale, supera il movimento alla ricerca di una dimensione tutta propria. Non più soddisfatto dalla sola dimensione immaginifica, si concentra sulla figura umana, lavorando con modelli dal vero. Il suo impegno è infaticabile, dal mondo onirico passa alla diretta osservazione della realtà, scolpendo, disegnando e dipingendo. È però con la scultura che Giacometti si mette alla prova: «Vorrei passare tutta la vita a fare lo scultore – racconta l’artista –. Ho cominciato perché la scultura è la cosa di cui mi intendevo di meno. Mi sono dedicato alla scultura per liberarmene un giorno. Speravo di capirla prima o poi e invece ancora non l’ho capita. E perciò sono costretto a insistere. Non c’è altra scelta». Il suo lavoro procede per sottrazione: lavorando con la creta in preparazione alla fusione in bronzo, toglie la muscolatura alle sue figure, lasciando solamente lo scheletro. La superficie delle sculture non è mai liscia ma sempre corrosa, divorata dal vuoto del suo spazio.
Dagli “oggetti invisibili” degli anni Trenta, Giacometti passa a realizzare il suo universo di donne e uomini scarnificati e sofferenti. Con la sua Donna in bronzo ottiene poi la fama mondiale, ribadita nel 1947 dall’Uomo che cammina. Una versione di quest’ultima opera, rivisitata nel 1960, è stata a lungo la scultura più pagata al mondo: ottantadue milioni di euro, venduta dalla casa d’aste Sotheby’s ad una banca tedesca. Fra l’altro, il record di vendita è stato poi superato nel 2015 sempre da una sua scultura, Pointing man, venduta da Christie’s alla cifra di oltre 130 milioni di euro.
L’Uomo che marcia sintetizza appieno la poetica dello scultore: la figura, apparentemente fragile e pervasa dalla paura, procede verso un futuro incerto con le spalle ricurve. Esile come un ramoscello, la scultura alta un metro e ottanta, è scheletrica. Giacometti ne ha accentuato le linee verticali che, come Cézanne insegna, aumentano il senso di profondità spaziale di chi guarda. Il risultato è sorprendente: l’osservatore può sentire tutto il dramma esistenziale e l’isolamento in cui l’uomo di Giacometti è intrappolato. Vittima del suo tempo, l’uomo è un prigioniero moderno. «Sento – afferma l’artista – che ci vuole una energia straordinaria per far stare in piedi le mie figure, un istante dopo l’altro, c’è sempre nello spazio e nel tempo la minaccia di una caduta, della morte». L’uomo di Giacometti, solitario e anonimo è dunque, come direbbe il filosofo esistenzialista Jean-Paul Sartre, suo caro amico e critico, «sempre a mezza via fra l’essere e il non essere». Ciò nonostante le sculture di Giacometti sono sempre costruite in posizione eretta. La tragicità della vita le fiacca ma non le azzera. Al contrario, grazie a pose seriali, quasi ripetitive, Giacometti costruisce un mondo collettivo ripreso nell’atto del procedere quotidiano. Un’azione questa mai remissiva. Forse riflessiva e scoraggiata ma sempre costante e determinata. Proprio nella serialità risiede la forza dell’intera opera dell’artista: l’uomo è indivisibile dagli altri e, insieme, potrebbe lottare e resistere anche agli aventi più bui, oppure, isolarsi e cadere in una alienazione senza fine.
L’universo di Giacometti è lucidamente doloroso: ha visto e subito la violenza della guerra; conosce l’aberrazione delle dittature fasciste e, per questo, ha paura della morte. Una paura umana, consapevole e collettiva. Giacometti, partendo da una condizione di solitudine supera le “ferite dell’esistenza” di Nietzsche, per procede nella complessità della vita. «Mi sorprende l’uomo della strada – spiega l’artista – più di ogni scultura o dipinto. Ad ogni momento la folla scorre incessantemente per riunirsi e allontanarsi di nuovo. Senza posa forma e riforma composizioni viventi di incredibile complessità. Ed è proprio la totalità di questa vita che desidero riprodurre in ogni cosa che faccio».
Una vita, quella di Giacometti, interamente votata all’arte: «Io – scrive nel 1957 – faccio pittura e scultura per mordere nella realtà, per difendermi, per nutrire me stesso, per diventare più grosso; diventare più grosso per difendermi meglio, per meglio attaccare, per fare più presa, per avanzare il più possibile su ogni piano in tutte le direzioni, per difendermi contro la fame, contro il freddo, contro la morte, per essere il più libero possibile; il più libero possibile per tentare – con i mezzi che oggi mi sono propri – di vederci meglio, di capire meglio ciò che ho intorno, capire meglio per essere più libero, più forte possibile, per spendere, per spendermi il più possibile in ciò che faccio, per correre la mia avventura, per scoprire nuovi mondi, per combattere la mia guerra. Per il piacere? Per la gioia? Sì, per il piacere di vincere e per quello di perdere».
Francesca Gentili, critica d’arte
Pubblicato mercoledì 5 Aprile 2017
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