Il 25 aprile 1945 per il calendario è solo un giorno fra tanti. Nella storia invece si tratta di un inizio, un punto della linea del tempo, da cui sono maturate grandi esperienze, importanti scelte legislative, alte considerazioni morali, nuovi comportamenti etici, pensate forme di governo democratico e partecipativo. Ci è difficile immaginare che esista una forma di artisticità legata a un solo giorno, per quanto importante possa essere. Certo nel mondo dell’arte da quel giorno si sono operate scelte che hanno espresso un atteggiamento critico verso la guerra ma soprattutto verso le forme dittatoriali dominanti nella prima metà del secolo (Guernica ne è un esempio). Espressi e motivati rifiuti di una forma d’arte il cui scopo era essenzialmente quello dell’esaltazione del regime e dell’affermazione dell’ideologia fascista.
Chi ha qualche infarinatura di arte contemporanea non può che ricordare i Movimenti attivi nell’immediato dopoguerra, citiamo il Manifesto del realismo di pittori e scultori, Oltre Guernica, (programma per un nuovo Realismo stilato a Milano nel 1946 da un gruppo di artisti, anche partigiani, in cui si danno per scontate le ragioni dell’impegno politico e si ribadisce la necessità del legame con la realtà e la proposta di una nuova forma di figurazione), Corrente – nata come rivista nel 1938 e divenuta poi ricettacolo dell’opposizione antifascista – che dà origine al Fronte Nuovo delle Arti, o ancora Forma1, dove i sottoscrittori affermano: “Ci proclamiamo formalisti e marxisti”.
Comunque si tratta di movimenti artistici che meditano sulla storia, sui fatti. A volte ne affermano una presa di coscienza che si protrae nel tempo, che leggono criticamente le esperienze artistiche del passato, a volte immaginandosi o programmando un futuro nell’elaborazione dei linguaggi e nell’espressività delle percezioni individuali.
Un tema assai discusso dopo la Biennale del 1948 e nelle conseguenti mostre (una delle quali scatenò il giudizio fortemente negativo di Togliatti verso l’arte astratta, rea, secondo lui, di non essere rievocativa e conseguentemente educativa del popolo). Tutto questo attorno alla contrapposizione tra astrazione, che intende esprimere una forma di esistenzialismo utilizzando elementi linguistici come la materia, il segno, il gesto, il colore, ecc., e figurazione, che invece si impegna sul fronte realistico storico ed evocativo attraverso la riproposizione di una realtà propositiva e formatrice.
Questa seconda tipologia risponde maggiormente ad una narrazione storica, alla celebrazione o memoria di fatti e avvenimenti storici.
Trovare quindi una forma d’arte legata al solo 25 aprile, secondo queste prospettive, ci induce a limitare la nostra lettura a linguaggi specifici e ad abbandonare tutte le forme che prevedono una mediazione tra il linguaggio dell’arte e la realtà. Sarebbe invece più utile ampliare questa nostra riflessione sulla possibile esistenza di un’Arte della Resistenza (di cui certo ci occuperemo in seguito).
Sebbene esista, già dalla metà del XIX secolo, un cammino comune tra le arti figurative classiche e la neonata fotografia, “tra le due arti si manifesta una necessaria differenza esplicitata all’al di là dell’innegabile compromissione con la modernità, la fotografia possiede anche carte originali e vincenti sul tavolo della contemporaneità” (C. Marra, Fotografia e Pittura nel Novecento). È dunque il linguaggio della fotografia che può creare un’arte di “un solo giorno”, indipendentemente dalla volontà del fotografo di essere o non essere un artista.
È innegabile che la fotografia manifesti comunque un suo contenuto e una sua forma estetica (al passo con i tempi e anche nella logica del “non artista” del reporter), ed entrambi esaudiscono alla richiesta dell’arte e ciò essenzialmente per due motivi: il primo per l’emotività suscitata della realtà, secondo perché l’emozione individuale del fotografo si trasforma in emozione collettiva; l’attimo, proprio per la sua capacità narrativa e coinvolgente, non può che trasformarsi in un’opera d’arte poiché condiviso dalla collettività. Certo questo è un ragionamento mediato dalla consapevolezza che molte delle più recenti espressioni dell’arte contemporanea utilizzano prevalentemente il linguaggio fotografico. Con lo sguardo critico del presente si definisce il lato artistico del passato.
La stessa filmografia trae spunto dalla cronaca fotografica, esplicitandone i contenuti emozionali dell’avvenimento; ne è un esempio, Novecento atto secondo di Bertolucci, quando, nel sorgere della primavera (dopo le altre tre stagioni che hanno scandito il progressivo imbarbarimento degli avvenimenti storici), si riprende un gruppo di partigiani che percorre una strada di campagna annunciando la fine della guerra, o una ragazza, Anita, in piedi sul carro di fieno fantastica il futuro. Immagine retorica con una giovane donna che immediatamente ci porta alla magnifica foto della ragazza col Corriere della Sera alle spalle che annuncia la nascita della Repubblica; o ancora le molte istantanee che riprendono i partigiani che entrano da vincitori nelle diverse città italiane, gli alleati che sui mezzi blindati attraversano le città, le giovane compagne combattenti che sfilano nelle strade liberate delle città, i baci delle nonne ai giovani soldati alleati. Le pose baldanzose dei combattenti per la libertà, nel cui sorriso è espressa la certezza delle loro scelte, le Balilla, simbolo di un apparente benessere piccolo borghese del fascismo, che si trasformano in mezzi militari. Senza però dimenticare le foto crude della guerra, le stesse scene sono riproposte nella loro brutalità nei film di Rossellini. Così anche Bertolucci si appropria (come fece prima di lui il suo maestro Pasolini) delle foto scattate nell’emozione della liberazione, raccogliendo e condividendo l’attimo di felicità delle persone e i suoni della libertà.
Si tratta certamente di un linguaggio e di una forma espressiva fortemente motivata e sentita, che non ha bisogno di una lettura critica ma di essere inserita nella logica della contemporaneità di cui l’arte fotografica fa parte. Il grande archivio fotografico che ricostruisce la giornata del 25 aprile 1945, non deve essere solo un “documento storico” di una giornata, ma la continuazione di una emozionalità che ripropone, attraverso il suo linguaggio artistico, quei sentimenti provati dai protagonisti in quel giorno.
Diego Collovini, docente di Storia dell’arte moderna, Accademia Belle Arti Tiepolo di Udine, già docente di Teoria e Storia del Restauro presso Accademia Belle Arti di Venezia, membro del Comitato nazionale Anpi
Pubblicato martedì 24 Aprile 2018
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