La street art non nasce come il tentativo di mascherare ma, al contrario, porta con sé la determinata sfrontatezza di obbligare a vedere anche ciò che ci si rifiuta di vedere. Nella sua essenza è, prima ancora che arte ed estetica, riflessione sociale: è un pugno assestato alle convenzioni, rappresentate da una parte dai musei, che “imprigionano” le opere e, dall’altra, dal perbenismo sociale, che distoglie lo sguardo dalle aree abbandonate, che si avviluppano nella loro stessa spirale di problematicità.
In questo senso, questa forma d’arte è un faro puntato su quelle zone che, per molti, rappresentano la vergogna del tessuto urbano e sociale insieme, tanto delle periferie metropolitane, quanto dei piccoli centri. Esercitando anche una certa “violenza” visiva, la street art si impone in modo coercitivo, al pari di un corteo rumoroso che reclama. Ci sono casi che interessano intere città, con una diffusione capillarizzata delle opere, dal centro alle periferie, e ci sono, invece, gli interventi circoscritti a determinate aree: in qualsiasi caso, un fenomeno che, attraverso la bellezza, attira l’attenzione sulle storture e le contraddizioni dei luoghi. E non è un caso che questo fenomeno si sia molto diffuso nella provincia e, in modo particolare, al sud, in luoghi afflitti da forti criticità, come dimostrano molti casi sviluppatisi tra Lazio e Sicilia, passando per Campania, Puglia e Calabria.
Già da qualche tempo è celebre l’attività di Jorit, artista non convenzionale (ma la cui arte è riconosciuta anche dai canali più classici e istituzionali) che arricchisce i muri di Napoli con enormi ritratti: San Gennaro, Eduardo De Filippo, Totò, Massimo Troisi, Che Guevara, Maradona e Ilaria Cucchi, solo per citarne alcuni. Le dimensioni di queste opere attirano immediatamente l’attenzione, insieme alla corposa aneddotica che portano con sé: si dice che i murales siano pieni di messaggi nascosti – nomi, dettagli, citazioni – che collegano le figure raffigurate ad altre vicende e, in modo molto originale, i personaggi raffigurati tra di loro. L’attenzione di Jorit per la realtà partenopea non si concretizza solo nelle figure monolitiche del teatro, del cinema e dello sport: protagonisti delle opere murarie sono anche gli scugnizzi, come quello che reca la scritta “Essere umani”, e protagonisti-simbolo della cronaca locale come Davide Bifulco, il diciassettenne la cui vicenda resta ancora nebulosa, ucciso “per errore” da un carabiniere. Figure, queste, che per le loro dimensioni e il loro significato, sembrano quasi un’apparizione, un gigantesco monito su come sia difficile vivere da ultimi, ma non per questo si debba rinunciare ad alzarsi e a riscattare la propria condizione.
Scendendo più a sud, si scopre che Catanzaro non è da meno: a partire dal 2014, Altrove Fest colora le strade della città, le riqualifica, restituisce gli scorci cittadini a un nuovo fulgore, sottraendoli all’abbandono e allo squallore di un’urbanizzazione cieca e incontrollata. E lo fa con un’arte pura, perché volatile e vulnerabile, che diventa parte integrante dello skyline, esposta allo smog e alle intemperie, agli atti vandalici e perfettamente integrata con gli edifici, le attività commerciali, i palazzoni di periferia. Nel corso degli anni, questa manifestazione è diventata migrante (o, per meglio dire, pandemica), spostandosi in tutte le direzioni per arrivare a Favara, in Sicilia, e in Puglia, a Vico del Gargano. E proprio in Puglia, precisamente a Grottaglie, in provincia di Taranto, per cinque edizioni ha preso vita il Fame Festival, pionieristico nell’ambito della street art. Quale sia la pronuncia di questa manifestazione che ha portato in un piccolo centro le opere di street artist di fama internazionale come Blu, Ericailcane e Nunca non è dato sapere. Da una parte la fama (se letto in inglese), dall’altra la pronuncia italiana che, invece, suggerirebbe una chiave di lettura più affamata e molto pregnante, se si pensa che la manifestazione si svolgeva proprio a due passi dall’Ilva e dalle sue ingiustizie, dal ricatto occupazionale e dalla sommessa accettazione che il mostro siderurgico, in fin dei conti, dia da mangiare.
Ma la street art è qui per sovvertire tutto e dimostrare che anche gli ecomostri possono diventare tele bianche su cui dipingere un nuovo scenario, specchio di una volontà di rigenerazione. La street art si mescola con i luoghi, per diventare public art ed estrinsecare la sua profonda missione sociale, come dimostrano le attività portate avanti a Lecce. Nella zona 167b (nata dalle ceneri del vecchio rione Stalingrado) la street art aiuta a guardare oltre e superare i limiti di un quartiere-lager, per diventare un ponte di congiunzione con l’altra sponda dell’Adriatico. Infatti, grazie al laboratorio “167bstreet”, realtà attiva sul territorio leccese da oltre dieci anni e che si muove «fra le crepe e gli intonaci della vita comune», ha preso vita il MurAL Fest, iniziativa che cuce insieme arte e profondità sociale e le trasla in Albania, a conferma che le identità si consolidino con la contaminazione culturale e il coinvolgimento di nuovi linguaggi.
Un arricchimento, questo, che è stato ben compreso anche nelle grandi città: una su tutte, Roma, che in molteplici zone diventa un museo a cielo aperto. Partendo da Pigneto e Torpignattara, con il loro melting pot, per arrivare all’avamposto di resistenza (ieri nazifascista e, oggi, alle convenzioni) del Quadraro, passando per la zona del Porto Fluviale, dove campeggia il più grande murales europeo “ecologico”, realizzato, cioè, con una vernice capace di catturare lo smog. Tra identità urbane ritrovate e benefici per l’ambiente, però, la street art è sempre più spesso accusata di imborghesimento. Infatti, accanto alle accuse di gentrificazione, secondo le quali la street art starebbe trasformando anche i quartieri più autenticamente popolari in covi per speculatori immobiliari che vogliono cavalcare l’onda di questa spontanea rinascita e riqualifica delle strade e degli edifici, ci sono domande sulla reale efficacia e completezza che queste opere possano portare con sé, al netto di una genuinità dell’idea.
Il problema potrebbe riassumersi in questo: la mancanza di una reale riqualifica istituzionale dei quartieri più degradati e la stagnazione di tutti i problemi connessi all’abbandono di un’area urbana, agghindati, però, in una veste urbanistica più gradevole. Le attività illecite, la bassa scolarizzazione e, più in generale, la permanenza delle regole di marginalità che hanno sempre regolato l’ecosistema delle periferie, tra legge del più forte e frustrazione per l’abbandono da parte delle istituzioni, non sono problemi risolvibili con un’opera, inutile illudersi.
Esercizio più complesso sarebbe, quindi, una cooperazione tra l’arte e le istituzioni, per poter fattivamente attirare l’attenzione su alcune realtà difficili, su alcuni quartieri di periferia, e non farli, al contrario, diventare solo più gradevoli alla vista per gli implacabili difensori del decoro urbano. E questo la street art lo insegna magistralmente, con una metafora molto potente: se non adeguatamente preservate, le opere si deteriorano in pochi anni e, con loro, l’effetto benefico di riqualifica delle aree degradate.
Letizia Annamaria Dabramo
Pubblicato lunedì 20 Maggio 2019
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