Il mondo della danza un mese fa ha perso la sua stella più luminosa: Carla Fracci. Se ne è andata il 27 maggio scorso, all’età di 84 anni, la più grande étoile italiana, dopo aver lottato contro un cancro incurabile. Dotata di straordinarie doti artistiche e umane, la Fracci è diventata un simbolo iconico della cultura italiana; donna forte e tenace ha conquistato il mondo con la sua leggiadria e la sua maestria.
Carla Fracci è stata un riferimento “prezioso e indimenticabile, una delle più grandi ballerine classiche dei nostri tempi a livello internazionale” – parole del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella –, punto cardine per chiunque ami la danza, un’artista generosa, dotata di incredibile sensibilità e empatia. Il New York Times la definì la “ballerina assoluta”.
Numerosi i suoi successi, fra cui, nel 2020, il premio alla carriera assegnatole dal Senato della Repubblica Italiana. “L’Italia della cultura ti sarà grata per sempre”, ha commentato il ministro della Cultura, Dario Franceschini.
Da Giselle (il suo ruolo più acclamato) a Giulietta, da Cenerentola a Medea, Carla Fracci interpreta nella sua carriera oltre duecento ruoli, calcando i palcoscenici più importanti del mondo, come quelli di Los Angeles, Mosca, L’Avana, Tokyo, Londra. Applaudita dai più autorevoli critici, Fracci danza con i più famosi ballerini del mondo, fra cui Erik Bruhn (il partner artistico più amato), Rudolf Nureyev, Mikhail Baryshnikov, Mario Pistoni, Paolo Bortoluzzi e Roberto Bolle. Nel 1999, Fracci è anche protagonista de “Il tempo dell’acqua”, l’assolo ideato per lei dalla coreografa contemporanea Carolyn Carlson alla Biennale di Danza di Venezia.
Artista di grande personalità, Carla Fracci è musa ispiratrice anche di importanti poeti, Eugenio Montale le dedica nel 1969 “La danzatrice stanca” quando è incinta di suo figlio Francesco e temporaneamente via dalle scene per la maternità, Alda Merini la definisce “una fata che genera altri tempi”.
Nata a Milano nel 1936, da padre tranviere dell’Atm e madre operaia della Innocenti, lontana parente del compositore Giuseppe Verdi (dal quale eredita un servizio da caffè), Carla Fracci vive i primi anni della sua vita in campagna con la sua famiglia, sfollata dalla guerra, in mezzo “alla terra e alle oche. Non pensando che esistesse un teatro”.
Dotata di una grazia innata e di una spiccata musicalità, Fracci viene sollecitata da amici di famiglia a iscriversi a scuola di danza. “A quell’epoca – racconta l’artista in un’intervista – la scuola di ballo era gratuita, altrimenti non avrei mai potuto frequentarla. In famiglia non ne avevamo le possibilità. Mia mamma una volta mi disse: ‘Tu non potrai portare i fiori alle maestre, non ce lo possiamo permettere. Se ce la fai è grazie alle tue possibilità’.
All’inizio la danza è stata solamente fatica: “La maestra – prosegue Fracci – diceva a mia mamma che avevo delle possibilità ma non mi applicavo. E in effetti era vero: per me tornare dalla campagna e trovarmi alla sbarra era un salto enorme. Mi sentivo un po’ come in prigione. Poi ho visto Margot Fonteyn, aveva questa linea, questa eleganza, questo sorriso…”.
Da quel momento, per lei la danza diventata una priorità, un mestiere da vivere in maniera assoluta, con l’impegno e la cura quotidiana. E così, nel 1946, all’età di dieci anni, inizia a studiare alla scuola di danza del Teatro della Scala, dove incontra come maestra la grande coreografa russa Vera Volkova. Dopo essersi diplomata nel 1954, continua la sua formazione, partecipando a numerosi stage fra Londra, Parigi e New York.
Grazie ad una visione democratica e partecipativa della danza, Fracci promuove un nuovo modo di vivere l’arte del balletto, considerandolo un valore per l’intera collettività.
“Ho danzato – dirà l’étoile – nei tendoni, nelle chiese, nelle piazze. Sono stata pioniera del decentramento. Volevo che questo mio lavoro non fosse d’élite, relegato alle scatole d’oro dei teatri dell’opera. E anche quando ero impegnata sulle scene più importanti del mondo sono sempre tornata in Italia per esibirmi nei posti più dimenticati e impensabili. Nureyev mi sgridava: chi te lo fa fare, ti stanchi troppo, arrivi da New York e devi andare, che so, a Budrio…ma a me piaceva così, e il pubblico mi ha sempre ripagato”.
La sua arte, infatti, è riuscita ad arrivare al cuore di tutti, aprendo le porte della danza ad un pubblico vastissimo che mai si sarebbero avvicinati al balletto classico. Carla Fracci segna un’epoca, con generazioni di ballerini che a lei si sono ispirate.
Il desiderio di far vivere la danza a tutti e in differenti contesti sociali, del resto, deriva da un pensiero più profondo della cultura, strumento fondamentale per la crescita del nostro Paese: “Un Paese senza cultura e arte – affermava – senza i mezzi per fare cultura e arte, è un Paese che non si rinnova, che si ferma e non ha accesso a ciò che succede nei paesi più importanti, negandosi così ad un futuro vero, autentico e soprattutto libero”. Un futuro che per ripartire ha bisogno di non perdere mai la speranza.
Carla Fracci dunque non è stata solamente la più grande ballerina lirica del nostro tempo ma è stata anche una donna impegnata che, con il suo esempio, ha dimostrato come i valori della democrazia, della solidarietà, del lavoro e dell’antifascismo sono sempre principi su cui orientare la propria bussola.
Proprio lo scorso anno, in occasione della festa della Liberazione, la ballerina, assieme all’inseparabile marito, il regista Beppe Melegatti, aveva invitato tutti a fare propria Bella ciao, i valori del 25 aprile e ad avere più coraggio: “Più che mai oggi occorre un maggior coraggio nelle scelte da intraprendere, un’assunzione di responsabilità che sembrano mancare accanto a delle proposte convincenti”.
Un coraggio, quello della Fracci, che l’ha portata a impegnarsi concretamente in difesa dei diritti dei lavoratori dello spettacolo, come pure ad occupare la carica di assessora alla cultura di Firenze nel 2009, sempre presente al Quirinale il 2 giugno, in occasione della festa della Repubblica. Carla Fracci è non soltanto l’immagine della danza italiana ma anche il simbolo di chi si impegna per la causa comune.
Unico grande rimpianto è il non aver potuto dirigere il Balletto alla Scala, per incomprensioni con l’amministrazione meneghina. “Non me ne faccio una ragione – sentenziò. – Ho lottato tutta la vita per creare una mia compagnia, mi sarebbe bastato anche un gruppo sostenuto dal Ministero. E la direzione della Scala mi spettava di diritto, invece no. Eppure all’Opera di Roma, in dieci anni di direzione, ho dimostrato di saper costruire anche dalle macerie”.
A chi gli chiedeva quale fosse il suo punto di forza, l’artista rispondeva: “La mia forza? Sapevo da dove venivo. E volevo farcela. Ecco: decoro, dignità, voglia di fare. Non la rabbia, il disfattismo, l’invidia sociale, non il rancore che oggi è così diffuso”. E, proprio la voglia di fare, ha contraddistinto ogni impresa che intraprende, dal balletto alla recitazione, dall’insegnamento alla difesa del concetto di decentramento culturale: “Ricordo bene – raccontava – le critiche velenose del mio ambiente: ma che ci vai a fare in Africa? Mi dissero una volta mentre mi preparavo per andare a Bari. Certo, erano anni diversi, le sfumature di razzismo erano più frequenti. Non mi hanno mai perdonato lo spirito popolare. Eppure è quello spirito che mi rende così amata dalla gente comune”.
Francesca Gentili, critica d’arte
Pubblicato domenica 27 Giugno 2021
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