«Tutte le strade portano a Roma? Può darsi. Di certo, però, nei nove mesi della Resistenza romana, tutte le strade portavano al Quadraro. strade consolari, e poi ferrovie e “tranvetti”. La fame era nera, ma il posto assolutamente ameno: dipinto, acquarellato e poi fotografato per oltre due secoli da legioni di turisti affascinati dai ruderi dell’acquedotto e delle porte monumentali. Un luogo straordinario il Quadraro, così carico di storia che nessuno, in quella primavera del 1944, sentiva il bisogno di finire ancora sui libri, col toponimo e data».
Una borgata importante nella storia della Resistenza romana. Un luogo e fatti, forse poco conosciuti, ma dove si è consumata la più alta concentrazione di azioni partigiane di tutta la Resistenza italiana. E non è un caso neppure che Roma abbia pagato il più alto tributo di sangue con i suoi quasi 5.000 assassinati fra stragi, deportazioni, fucilati nei forti Bravetta e Braschi, oppure sotto tortura e nei bombardamenti.
A Roma furono nove mesi di una guerra di Liberazione condotta con i metodi della guerriglia urbana. Una lotta profondamente radicata e in stretta connessione con la popolazione che, come al Quadraro, periferia sud-est della città, mai si recise anche nel momento in cui il Comando germanico ordinò il rastrellamento e la deportazione totale della popolazione maschile, esclusi vecchi e ragazzini.
Questo fu uno degli avvenimenti centrali della repressione del movimento partigiano attraverso la rappresaglia sulla popolazione civile che avvenne a Roma. E a guidare personalmente le operazioni di polizia militare, il tenente colonnello Herbert Kappler, il boia delle Fosse Ardeatine, consumatasi 23 giorni prima.
Il rastrellamento del Quadraro, iniziato alle 3 del mattino del 17 aprile 1944, fu il più “efferato rastrellamento dei germanici compiuto a Roma”, queste sono le parole che scrisse l’allora console nazista a Roma Moellhausen nelle sue memorie di guerra. E non c’è giornale dell’epoca che non lo ponga in massimo rilievo. Desta allora stupore, dice De Cesaris, che allontanandosi dai giorni della Resistenza il rastrellamento del Quadraro venga dimenticato o derubricato. Almeno fino agli anni Ottanta. Quelle 947 persone rastrellate diventano un episodio marginale.
Il libro ci illustra altri accadimenti della Resistenza romana anche, e soprattutto, attraverso le parole dei sopravvissuti. De Cesaris ci restituisce, dunque, il quadro di come la memoria della Resistenza al Quadraro e in altri quartieri periferici romani non sia “divisa”. Vale a dire tutti gli abitanti videro i nazisti e i fascisti entrare nelle case, sequestrare, ammazzare, bastonare le persone. In quelle borgate non esisteva una memoria divisa: no, la memoria era unica e da tutti condivisa.
Il rastrellamento del Quadraro, denominato “operazione Balena”, fu organizzato dai nazisti nei minimi particolari. E probabilmente neppure i fascisti ne sapevano niente tanto doveva rimanere segreta. E così avvenne infatti. Il Quadraro all’epoca era abitato da 5/6.000 persone e dunque con 947 deportati in pratica ogni famiglia ebbe una persona cara coinvolta. I deportati, nella maggior parte, non erano impegnati attivamente in operazioni di resistenza. E per questo l’operazione Balena deve essere inserita nelle azioni militari contro la popolazione civile. Fu un’azione di ritorsione militare e nel libro vengono poste in luce tutte le reali motivazioni. In un intero quartiere vennero catturati gli uomini fra i 16 e i 65 anni e sicuramente questa scelta evidenzia l’incapacità dei tedeschi di saper individuare i partigiani e reprimere il movimento resistenziale all’interno della borgata. Ed è ancora nelle sue memorie Moellhausen a spiegarcene il motivo: “Fu una operazione diretta dalla polizia responsabile della sicurezza di Roma, la quale vedeva nel Quadraro il rifugio di tutti gli elementi contrari, degli informatori, dei partigiani, dei comunisti, di tutti coloro che essa combatteva. (…) Non rientrò, però, nel quadro previsto dalle Forze Armate per procacciarsi mano d‘opera. (…) Voleva farla finita una volta per tutte con quel nido di vespe”.
Gli arrestati vennero portati al cinema Quadraro, per un prima registrazione, poi a un campo di detenzione provvisorio dentro Cinecittà e poi avviati in treno verso Firenze dove vennero rinchiusi nelle carceri cittadine delle “Murate”. Carceri oggi divenute centro culturale e residenziale e di quel passaggio di 947 civili inermi e innocenti non mi pare ci sia rimasta traccia. Poi, dopo alcune settimane, via verso il campo di concentramento di Fossoli, per poi essere dispersi nei vari centri di lavoro e industrie austriache e tedesche. I nazisti considerarono tutti i deportati come prigionieri politici, tant’è vero che a Fossoli furono messi insieme ai politici. E per questo furono oggetto, sia in Italia che in Germania, di restrizioni durissime. Ma la beffa più grande fu come i tedeschi li trattarono dal punto di vista formale. Infatti, prima vennero rilasciati dal campo di concentramento di Fossoli con tanto di foglio che ne attestava la libertà, ma in contemporanea li costrinsero a firmare di “propria autonoma volontà”, diciamo così, un documento con il quale, gli oltre 900 rastrellati, decidevano di andare volontariamente in Germania a lavorare per loro. Ovviamente, se qualcuno rifiutava erano botte e si rischiava di venire ammazzati. E il lavoro in Germania avveniva in condizioni durissime. In pratica erano degli schiavi. Dei moderni schiavi. E alla fine della guerra lo Stato non riconobbe loro lo status di deportati con tutte le conseguenze giuridiche ed economiche che questo ha comportato sia per i sopravvissuti sia per quelli che non ce l’hanno fatta. Una beffa nella tragedia. I tedeschi non riuscirono mai a distinguere fra chi combatteva attivamente contro di loro e chi li fiancheggiava. Il connubio fu inscindibile. Per i nazisti quella zona era di estrema pericolosità. Un fronte pericoloso da percorrere.
Malgrado la grandezza dell’operazione Balena e il duro colpo inflitto alla borgata, la Resistenza non si fermò. Bastarono poche settimane affinché essa riprendesse con vigore e infliggesse nuovi colpi al nazi-fascismo occupante.
Per questo per il Quadraro e le periferie romane di questa parte di città è l’elemento partecipativo che definisce più probabilmente il carattere della Resistenza: un moto di partecipazione popolare.
Quegli operai, artigiani, edili che hanno preso le armi per difendere Roma dall’occupazione nazista, riscattando il codardo abbandono delle autorità politiche e militari, torneranno dopo la guerra tranquillamente al loro lavoro. Riconsegneranno le armi ma non verrà però meno la voglia di partecipare, la passione civile, la capacità di ribellarsi. È proprio questa voglia di partecipare attivamente alla vita civile della propria città che sopravvivrà alla Liberazione.
Un bel libro questo di De Cesaris che merita d’essere letto perché ricolloca nella giusta luce fatti di straordinaria importanza compiuti da persone normali che non vollero abbassare la testa di fronte al nazi-fascismo. Persone che, con il loro coraggio e i loro ideali, permearono profondamente il carattere di una borgata che seppe contribuire anche nei decenni seguenti al processo di democratizzazione e di giustizia sociale di un intero Paese.
Andrea Genovali, scrittore. Con Viareggio 1920 ha vinto il premio “Scrittore toscano dell’anno 2011” indetto dalla Regione Toscana e dalla Fiera del Libro Toscano
Pubblicato giovedì 2 Febbraio 2017
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