La Resistenza fu, nel suo insieme, un fenomeno nazionale: anche se gli eventi politico-militari che hanno richiamato l’attenzione (soprattutto della prima storiografia post-bellica) hanno avuto il loro epicentro al Nord, nel biennio 1943-1945 l’ostilità verso l’occupante tedesco e il fascismo restaurato, nonché la tensione verso profondi mutamenti politici e sociali si espressero, in forme indubbiamente molto diverse tra loro, armate e non, su tutto il territorio della penisola.

La sconfitta militare e la dissoluzione dello Stato monarchico-fascista seguita all’8 settembre avevano fatto sì che nel giro di poche settimane l’aspirazione nutrita negli anni della dittatura da una minoranza illuminata, di restituire al popolo il potere di decidere in autonomia del proprio destino, si trasformasse in una imprescindibile necessità di sopravvivenza, con una presa di coscienza di massa, tanto più avvertita nel momento in cui i destini individuali e collettivi apparivano governati da soggetti terzi, estranei e per lo più ostili.

Al tempo stesso, anche per la temporanea divisione del territorio statale tra il Regno del Sud, la pseudo-repubblica mussoliniana e il regime di occupazione militare tedesco al Nord e Alleato nei territori progressivamente liberati nell’avanzata verso la pianura padana, la guerra di Liberazione assunse caratteristiche legate al territorio, in qualche misura si plasmò su di esso, rispondendo a quella istanza primaria di protezione delle comunità locali dalle aggressioni e dalle violenze nazifasciste che avrebbe creato il presupposto per la nascita e il successivo rafforzamento delle prime formazioni partigiane, punto d’incontro dell’antifascismo esule e perseguitato con le giovani generazioni alle prese con scelte etiche ancora prima che politiche, rese tanto più problematiche e tormentate per il venire meno dei tradizionali punti di riferimento istituzionali che, soprattutto nel regime totalitario, avevano esaltato l’obbedienza all’autorità e mortificato l’autonomia dei singoli e delle comunità.

Partigiani senesi (Istituto storico della Resistenza senese)

Alla ricostruzione della dimensione locale del movimento di Liberazione, che pure ha una parte rilevantissima nella comprensione delle molteplici sfaccettature del fenomeno resistenziale, hanno dato un importante contributo sia le fonti memorialistiche e orali, sia i documenti di archivio; grazie anche al grande numero di lavori che si è andato accumulando negli anni e che ha colmato numerose lacune conoscitive, appare oggi possibile contare su una produzione storiografica legata alla dimensione locale ma al tempo stesso in grado di misurarsi sui grandi temi e problemi che la ricerca ha sollevato in questi ultimi anni, con effetti non trascurabili anche sulla dimensione pubblica della narrazione storica, e sulla percezione che si viene a determinare, nel presente e tra le diverse generazioni, delle radici della Repubblica e del terreno morale, culturale e politico su cui germogliò, dalla guerra di Liberazione, l’ordinamento democratico.

Un importante contributo in tal senso viene dalla recentissima Storia della Resistenza senese (2021), opera collettiva di un gruppo di studiosi – Alessandro Orlandini, Riccardo Bardotti, Michelangelo Borri, Pietro Clemente, Laura Matteri – promossa dall’Istituto storico della Resistenza senese e dell’età contemporanea “Vittorio Meoni”.

Un lavoro che si riallaccia idealmente a una notevole produzione memorialistica e saggistica (primo fra tutti, il lavoro di Tamara Gasparri, La Resistenza in provincia di Siena 8 settembre 1943-3 luglio 1944, edita nel 1976 da Olschki), ma al tempo stesso propone un approccio innovativo, proprio per il fatto di misurarsi con i risultati più maturi dalla ricerca storica in questi anni, come peraltro sottolinea Nicola Labanca nella densa introduzione al volume, che, inoltre, mette in rilievo in primo luogo un’impostazione che guarda all’insieme della società senese, senza trascurare di rivolgersi anche ad analizzare le fatiscenti strutture del fascismo saloino locale, e il taglio antiretorico, che sfugge alla tentazione della mitizzazione ma riesce al tempo stesso a cogliere nel reale svolgimento della vicenda resistenziale i primi passi della nuove vita democratica che da essa ha tratto origine.

Il Caffè Nazionale presso la Casa del Popolo ai primi del 900
(pinterest, Archivio fotografico Malandrini – Fondazione Mps)

In questo ambito va considerata anche l’attenzione rivolta a sottolineare la “lunga durata” dell’opposizione al fascismo nel territorio senese, con la messa in evidenza della continuità e della radicalità della dimensione di classe di un conflitto ventennale, in un territorio in cui, soprattutto nelle campagne, le mobilitazioni sociali del primo dopoguerra – e ancor prima, agli esordi del 900 – avevano messo in discussione gli statici e secolari equilibri del mondo mezzadrile, caratterizzati da un alto livello di stabilità sociale, che ne legittimavano l’ordine gerarchico, ma anche da una condizione di forte subalternità, culturale oltre che materiale, dei mezzadri e della massa della popolazione agricola; subalternità che le lotte del biennio rosso, soprattutto in alcune aree del senese, avevano messo in discussione, in un processo che lo squadrismo avrebbe interrotto bruscamente, lasciando una scia latente di ostilità nei confronti del regime che si sarebbe manifestata sia nella persistente attività clandestina (soprattutto comunista) sia nell’inabissarsi carsico di una opposizione destinata a riemergere all’indomani del 25 luglio 1943.

Peraltro, un interrogativo che le interessanti e documentate pagine dedicate al ventennio prospettano e che meriterebbe ulteriori approfondimenti riguarda proprio l’atteggiamento delle classi dirigenti senesi (e in particolare della grande proprietà agraria) nei confronti del regime: un atteggiamento che appare più differenziato che altrove e che segna a fianco di una convinta adesione al fascismo come protagonista di un processo di stabilizzazione violenta dei rapporti di classe in chiave anti-contadina, la presenza di uno strato minoritario ma non irrilevante di proprietari, legato alla tradizione liberale prefascista, mantenutosi a debita distanza dal regime e destinato a esercitare un ruolo importante soprattutto nella fase finale dell’amministrazione saloina e nel trapasso dei poteri all’arrivo degli Alleati.

Di grande interesse, a questo proposito, sono le pagine dedicate al difficile processo di ricostituzione dei partiti e ai dilemmi del Comitato di Liberazione Nazionale senese, diviso tra un più determinato attivismo, soprattutto da parte comunista, e la propensione a evitare di portare entro le mura cittadine il conflitto armato, sulla falsariga di quanto stava avvenendo anche a Roma (dove peraltro il confronto militare della Resistenza con l’occupante tedesco aveva raggiunto punti di particolare asprezza) e diversamente da quanto si sarebbe verificato a Firenze, liberata dall’insurrezione guidata dal Comitato toscano di liberazione nazionale.

La vicenda senese si presenta per questo aspetto meno lineare, anche se essa non può essere spiegata solo con il prevalere dell’attendismo delle componenti moderate dello schieramento antifascista, che pure ebbe parte non irrilevante, ma va esaminata alla luce di dinamiche più complesse, rivelatrici di una sostanziale debolezza della compagine partitica e della difficoltà nell’assumere una posizione egemonica in un contesto politico ancora dominato da logiche notabiliari, come dimostra il sostanziale successo dell’iniziativa di Mario Bracci, giurista antifascista ed esponente di una cospicua famiglia senese, per una ritirata indolore dalla città delle ormai evanescenti istituzioni repubblichine – alla cui vicende peraltro sono dedicate pagine molto interessanti del volume – impersonate soprattutto dal prefetto Chiurco (già storico di punta del regime) desideroso di giungere a un compromesso per alleggerire le proprie personali responsabilità e quelle del fascismo locale.

Quest’ultimo, soprattutto laddove aveva preteso di recuperare le tradizioni più violente e oltranziste del primo squadrismo, si era macchiato di gravi colpe, nel supporto assicurato all’apparato militare nazista nelle rappresaglie e nelle stragi contro i civili (l’Atlante delle stragi naziste e fasciste registra 819 episodi di violenza accertati in Toscana, 102 dei quali avvenuti in provincia di Siena, con un totale di 4.439 vittime inermi), nel reclutamento forzato di manodopera da inviare in Germania e nella caccia ai cittadini di religione israelitica.

La particolare attenzione dedicata ai diversi modi con i quali nella società senese viene vissuto il periodo dell’occupazione tedesca e della lotta partigiana rinvia al tema della cosiddetta “zona grigia” ovvero a quell’ampia parte della società civile che non prese direttamente parte alla lotta armata e nella quale, secondo una vulgata interessata a svalutare la funzione della Resistenza come matrice di una nuova cittadinanza democratica, sarebbe prevalso lo spirito di sopravvivenza e un sentimento di estraneità nei confronti di una guerra civile percepita come conflitto tra da due minoranze.

Il volume, sia pure con un preciso e delimitato riferimento territoriale, offre numerosi spunti per una analisi molto più articolata e differenziata degli atteggiamenti oppositivi della popolazione nei confronti del rinato potere fascista e degli occupanti tedeschi e sottolinea come, indipendentemente da una adesione esplicita al movimento di Liberazione, essi si siano manifestati attraverso una serie di comportamenti che andavano dalla disobbedienza passiva agli ordini degli occupanti, alla resistenza alle requisizioni, agli ammassi, alle ruberie e alle violenze nazifasciste, all’aiuto e alla protezione offerta ai militari sbandati all’indomani dell’armistizio, ai prigionieri alleati fuggiti dai campi di internamento italiani, ai renitenti ai bandi di arruolamento della sedicente repubblica e ai numerosi cittadini ebrei perseguitati, fino al sostegno aperto, di carattere logistico e informativo, alle formazioni partigiane operanti nel territorio.

(Fondazione Mps)

Il capitolo dedicato alla partecipazione femminile alla Resistenza mette inoltre in luce il protagonismo delle donne nel movimento di Liberazione, nel quadro di una partecipazione non subalterna, ma essenziale anche dal punto di vista militare, così come trova spazio la riflessione sulle divisioni all’interno del clero, con una parte dei parroci schierati a favore della Resistenza e attivi in essa, mentre al vertice l’arcivescovo Mario Toccabelli, già fedele sostenitore del regime, avrebbe mantenuto un rapporto cordiale con le autorità repubblichine, in un ambiguo gioco di equilibri protrattosi fino alla liberazione della città.

Tra gli aspetti più importanti della Resistenza disarmata, va annoverata la vicenda deli Internati militari italiani, il cui rifiuto in massa di prestare giuramento di fedeltà al resuscitato regime di Salò costituisce una delle pagine più significative (e anche tra le meno ricordate) nella storia dell’Esercito italiano e, più in generale, del nostro Paese: il dettagliato resoconto della vicenda dei 1.328 militari senesi finiti a lavorare in condizioni di semi schiavitù in Germania restituisce il dato di una volontà ampiamente maggioritaria di respingere l’offerta di rimpatrio in cambio della adesione alla Rsi.

(toscananovecento.it/)

Opportunamente, inoltre, il volume dedica ampio spazio alla questione dell’atteggiamento dei contadini che, all’epoca, rappresentavano la maggioranza della popolazione, mettendo in evidenza la pluralità delle motivazioni che condussero soprattutto i mezzadri ad assumere un atteggiamento di sostegno alla guerra partigiana e anche, per i più giovani, a prendervi parte: motivazioni legate, come si è detto, alla protezione dei beni da requisizioni e saccheggi, dai rastrellamenti e dalle deportazioni, nonché dall’ostilità verso i bandi di arruolamento della repubblica sociale che avrebbero perpetrato la sottrazione dei lavoratori più giovani ad attività fondate sulla collaborazione familiare, ma anche riconducibili idealmente a una tradizione di organizzazione politica e sindacale risalente ai primi anni del XX secolo, che aveva conosciuto momenti di alta tensione negli anni del primo dopoguerra e, alla fine della seconda guerra, avrebbe capitalizzato una cultura dell’impegno e della partecipazione politica destinata a sopravvivere allo stesso sistema mezzadrile, giunto a estinzione negli anni 70 del 900.

Partigiani della brigata “Spartaco Lavagnini”

Naturalmente, l’approfondimento delle diverse forme in cui si manifestò la resistenza all’invasore e ai suoi complici fascisti non deve fare perdere di vista la dimensione più strettamente militare: il volume ricostruisce accuratamente la storia delle formazioni partigiane che agirono nel senese per circa sette mesi (tra l’8 settembre 1943 e la fine di luglio 1944) e le principali azioni, dalle prime iniziative di lotta armata, animate dai non pochi antifascisti “storici”, quelli cioè che avevano vissuto l’esilio, il carcere e anche la guerra civile spagnola, alla nascita e al consolidarsi di quattro formazioni: la XXIII Brigata Garibaldi Guido Radi “Boscaglia”, dal nome del partigiano caduto durante un’azione di sabotaggio, la Brigata Garibaldi Spartaco Lavagnini, intitolata al dirigente sindacale ucciso dai fascisti nel 1921, alle formazioni cosiddette “autonome” (nelle quali peraltro non mancavano partigiani fortemente politicizzati) della Simar e del raggruppamento del Monte Amiata, entrambi comandati da ufficiali di carriera e sostenuti anche da gruppi vicini al Partito d’Azione.

Nel complesso, ricordano gli autori, “nella provincia di Siena si contarono più di duecentocinquanta azioni di guerriglia e di sabotaggio, più di trenta occupazioni temporanee di centri abitati con attacchi alle caserme della Guardia nazionale repubblicana, una quindicina di combattimenti in campo aperto, oltre trecento partigiani caduti su oltre millecinquecento riconosciuti come combattenti, più di duecento fascisti uccisi, un numero non quantificato di soldati germanici messi fuori combattimento […]”. Degno di nota è anche lo sguardo rivolto alla parte fascista, la riflessione sulle motivazioni (per lo più di carattere familiare, oltre a quelle legate alla fedeltà all’alleanza con la Germania) che condussero pochi giovanissimi ad affiancare, nelle file della Gnr, i vecchi squadristi alla ricerca di un impossibile ritorno al passato.

(toscananovecento.it)

Malgrado i riconoscimenti da parte degli Alleati al fondamentale apporto della Resistenza toscana alle operazioni militari contro i nazisti, la Liberazione della provincia di Siena non avvenne senza tensioni e conflitti, sia a causa delle numerose violenze e umiliazioni che la popolazione civile dovette subire a opera delle truppe nordafricane al seguito delle forze armate francesi, sia per la condotta del Governatore militare alleato, il colonnello inglese Jaspers Nicholls, incline a emarginare il Comitato di Liberazione Nazionale (del quale, si legge nel volume, giunse perfino a pretendere – senza successo – il cambio del nome in Comitato di unità nazionale) e a mantenere al vertice delle forze dell’ordine e dell’amministrazione cittadina personaggi legati al fascismo; una linea di condotta, peraltro, che il Governo militare alleato aveva tentato senza successo anche a Firenze. Nel capoluogo toscano, il Cln, reduce dalla battaglia vittoriosa per la liberazione della città, era riuscito a mantenere una posizione autonoma nei confronti del Governo militare alleato e a fare valere il proprio ruolo politico, costringendo gli Alleati a riconoscere tutte le nomine alle principali cariche pubbliche cittadine che il Comitato stesso aveva effettuato nei pochi giorni trascorsi tra la cacciata dei nazifascisti e l’arrivo degli angloamericani.

3 luglio 1944, Sine è libera, sventolano le bandiere delle contrade

La diffidenza degli Alleati, e soprattutto degli inglesi, nei confronti del movimento di Liberazione e del suo carattere accentuatamente politico, non giunse peraltro a intaccare la volontà di molti partigiani senesi di continuare la lotta per la cacciata dei tedeschi e la sconfitta definitiva del fascismo, anche dopo la Liberazione della provincia. Più di 900 senesi, senza essere soggetti all’obbligo di leva, si presentarono come volontari nei gruppi di combattimento, nuclei del ricostituito Esercito italiano, e molti di essi furono arruolati nel Gruppo Cremona (dal nome della Divisione stanziata in Corsica che l’8 settembre non aveva ceduto le armi ai tedeschi e si era battuta al fianco dei francesi) che, inquadrato nei ranghi dell’VIII Armata britannica e schierato nel Ravennate, fu protagonista della liberazione di Alfonsine, risalendo poi la penisola nel Ferrarese, fino a Venezia, dove giunse il 29 aprile. Una pagina di storia, quella dei Gruppi di combattimento dell’Esercito italiano, ancora poco nota, ma che pure entra a pieno titolo a comporre il quadro complessivo della storia di un popolo che, con grandi sofferenze, riuscì a sollevarsi dal baratro nel quale era stato gettato dalla guerra fascista.