Ultimata la lettura di Noi due brillanti di rosso, viene voglia di incontrare l’autrice, Serena D’Arbela, e chiederle di esaudire un desiderio: accompagnarci a Venezia e farcela conoscere attraverso i suoi occhi, i suoi ricordi, gli aneddoti della sua vita.

Nell’impossibilità che ciò si avveri, al lettore resta un libro prezioso, da usare anche come “guida sentimentale” e alternativa alla città lagunare, soprattutto alla sua storia novecentesca: l’isola di Burano popolata di pittori, il ponte della Paglia per raggiungere il gruppo artistico dell’Arco che aveva sede al Palazzo delle Prigioni, il negozio in Bocca di Piazza San Marco gestito dalla famiglia Sereni, ebrea, improvvisamente chiuso nel dicembre del ’44, il Teatro Goldoni e la sua famosa “beffa partigiana”, Campo Santa Maria del Giglio nei pressi del quale si trovava la federazione del Pci veneziano… ci si ritrova così non soltanto in spazi ignoti e indifferenti al flusso anonimo dei turisti, ma direttamente immersi in un altro tempo.

Infatti Noi due brillanti di rosso è anche una commossa dichiarazione d’amore (si legga in particolare l’ultimo capitolo, “One way ticket”) alla città in cui le gemelle Serena e Valeria nascono non alla vita biologica – questo avvenne a Firenze nel 1930 – ma a quella sociale e culturale. È la città in cui si accende la loro “rossa passione”, quella per il comunismo e per il Partito, una passione destinata – come ogni cosa che brucia – a consumarsi e trasformarsi. E l’autrice racconta, o meglio confida al lettore con uno stile da Lessico famigliare ricco di soprannomi e consuetudini domestiche, la metamorfosi sua e di Valeria da bambine a donne.

Una trasformazione innescatasi il 28 aprile 1945 dal saluto a pugno chiuso dei partigiani che sui barconi solcavano i canali di Venezia liberata: le due quindicenni li osservavano eccitate dal balcone del palazzo signorile in cui risiedevano, vicino Rialto. Un punto di vista privilegiato, il loro, non solo per la sfilata partigiana in quell’aprile di Liberazione, ma per l’esistenza intera: di famiglia borghese colta e liberale, i genitori le stimolarono a coltivare l’intelligenza e la cultura attraverso lo studio, la lettura, l’arte; l’autrice ne è consapevole e grata. I molti libri divorati (specie i grandi autori russi) costituiscono la prima lente attraverso cui osservare e interpretare la realtà, ben presto si aggiungeranno i film d’autore e la musica (classica, jazz, leggera e popolare è questa una colonna sonora sottesa a tutte le pagine del libro). Tutto ciò nutre la loro fantasia e si traduce in composizioni, pittoriche per Valeria, letterarie per Serena.

Serena D’Arbela (da https://www.abitarearoma.net/wp/ wp-content/uploads/2017/11/IMG_9854.jpg)

Ma il privilegio delle gemelle è doppio: esse hanno altresì la ventura di schiudersi alla giovinezza proprio quando un Paese intero si schiude alla libertà, i sogni e le aspirazioni di miglioramento di un popolo si incarnano nell’esistenza specifica e simbiotica (in fondo è «Noidue», scritto sempre tutto attaccato nel testo, il vero protagonista della memoria) di due ragazze che provano a tradurre in realtà, non senza scorno, la loro inesauribile sete di «giustizia [e] felicità per tutti». Qualcuno potrebbe accusare l’autrice di retorica, ma l’estrema giovinezza delle protagoniste fuga ogni sospetto: quel loro slancio generoso non può essere descritto a mezze tinte. Furono talmente giovani da non poter partecipare attivamente alla Resistenza che tuttavia le lambì indirettamente, attraverso le vite degli altri: quella di Ermes, per esempio, un compagno di scuola schivo e sorridente (come il dio da cui aveva preso il soprannome) che scomparve all’improvviso; solo anni dopo l’autrice seppe che Manlio Chirco – salito in montagna – era stato fucilato col fratello il 24 settembre del ’44; o quella di Antonia, cameriera in casa D’Arbela, che un giorno tornò in lacrime da Bassano dove un cugino era stato impiccato dai fascisti agli alberi di un viale.

Il loro desiderio di giustizia è rosso, una vernice con cui entrambe sono impazienti di colorare la realtà: cominciano con l’iscrizione, a Firenze, al Fronte della Gioventù fondato da Eugenio Curiel, passano poi alla Fgci e al Pci veneziano. L’adesione all’ideale e all’utopia comunista le travolge e soddisfa la loro curiosità di conoscere il mondo e le persone: i Festival internazionali della Gioventù comunista di Berlino e Bucarest, immortalati da Valeria con la china e da Serena con la cinepresa Eumig; le riunioni e l’attivismo per la provincia veneta contadina e operaia; l’amore che attendeva Serena in un ufficio della federazione con le sembianze di Primo de Lazzari, il partigiano “Bocia”, che sposerà nel 1955.

 

Il comunismo sembra davvero la strada verso una “nuova umanità”, ma poi arriva il 1956 coi carri armati sovietici in Ungheria e – soprattutto dopo la morte di Stalin – cominciano a circolare le notizie di purghe e torture. Pian piano il mito si sgretola e la D’Arbela perde gli incrollabili punti di riferimento dell’ideologia. Tuttavia è proprio in quel momento di smarrimento che il lettore può imparare dalle memorie dell’autrice la lezione più importante: continuare a lottare contro l’ingiustizia e la disuguaglianza, per esempio contro una condizione femminile lontana dall’emancipazione promessa dalla Costituzione e ancora asservita a una cultura patriarcale; continuare a cercare e riconoscere “l’altro”, «la comunità umana» sempre e comunque, come diceva uno dei primissimi insegnamenti dell’amato padre Felice (cui è dedicato in particolare il capitolo “I Lari”), primario all’ospedale civile di Venezia: «vedere l’uomo sotto i suoi travestimenti». Ecco dove continua a scorrere tenace, nonostante tutto, la vena rossa che le aveva fatte brillare adolescenti. E brillare ancora, senza dubbio: Serena D’Arbela – come si diceva – fa nascere il desiderio di poterla incontrare, di ascoltare ancora dalla sua viva voce (e sotto, sempre presente, si riconosce anche quella di Valeria, scomparsa nel 2002) la sua storia e quella dei personaggi grandi e piccoli incontrati, più numerosi di quelli inventati dalla fantasia bambina delle gemelle: Festa Campanile, Berlinguer, Emilio Vedova, Luigi Nono, gli operai di Porto Marghera, i braccianti del Delta del Po… Vorremmo farci rivelare ancora – in questi tempi indifferenti e sempre più foschi – che il segreto capace di tenerci vivi e giovani è la dedizione a una causa giusta, da riconoscere giorno per giorno.

È così che gemelle hanno fatto, è così che Serena D’Arbela vive tuttora: seguendo l’urgenza di ricercare e comprendere senza avere mai la presunzione di credersi arrivate, un po’ – dice l’autrice – come accade nel secondo movimento del Concerto Brandeburghese in fa maggiore di Bach: «quella musica sempre aperta e che sempre ricomincia ci ricordava la vastità della vita».

Note: Alla fine del libro, la curatrice Maria Teresa Sega aggiunge un’utile appendice di “Personaggi e fatti salienti”, in cui però manca il profilo di Luigi Ferrante, marito di Valeria D’Arbela. Molti di questi nomi si possono comunque ritrovare nel libro di Serena D’Arbela Siete proprio veri?, Tracce edizioni 2000.