Negli ambienti editoriali, ma non solo, circola l’idea che il successo di un libro dipenda non poco dal titolo. E non si andrebbe lontano dal vero, affermando che il presente volume ne esibisca uno piuttosto bello. L’anatomia è scienza antica che studia la forma e la struttura del corpo umano; il termine deriva dal greco anatémnein che vale “dissezionare”. Strage sta per uccisione violenta di molte persone o animali e deriva dal latino sternĕre ovvero “abbattere”. Entrambe le parole rimandano al corpo, ed evocano insieme l’analisi dettagliata al limite della dissezione di un gruppo di essere umani (a rigore anche animali) abbattuti. Il sottotitolo rimanda a un luogo preciso, una città di provincia, e a una data definita. Che però ben pochi sono in grado di identificare, a causa della dimensione provinciale. Si pensa immediatamente a una “microstoria”, lemma che da alcune decine di anni gode di una certa fortuna.
Detto della bontà del titolo, “Anatomia di una strage. Cesena, 8 maggio 1945”, proverò a contribuire alla discussione partendo dalla mia personale esperienza. Appartengo a un piccolo nucleo di persone che conoscono quei fatti, conservandoli nella propria memoria. Perché nel mio paese natale, San Mauro Pascoli, sono stati molto narrati, pur se – come vedremo – in maniera distorta. A questo punto, per procedere occorre riassumerli molto sinteticamente. L’8 maggio 1945, un gruppo di partigiani, composto da dodici o quindici unità, secondo le diverse testimonianze, penetra nella Rocca di Cesena, adibita a carcere, e, armi alla mano, costringe il custode e i guardiani a consegnare la chiave della cella numero sei; vi fa irruzione e liquida nel sonno i diciassette prigionieri ivi custoditi. Si tratta, con tutta evidenza, di un episodio della guerra civile – secondo l’ormai classica definizione di Claudio Pavone – che fu combattuta in Italia tra il 1943 e il 1945.
Ed ecco il fatto secondo la voce popolare sammaurese. Del commando partigiano che uccise non solo fascisti ma pure qualcuno capitato lì per caso o fascisti alquanto tiepidi, facevano parte cinque sammauresi, dei quali si sussurrano i nomi. Tra gli uccisi altri due sammauresi, quelli sì riconosciuti come fascisti veri e propri. La strage veniva collegata inoltre, in loco, a un “femminicidio” del 1945 punito dalla giustizia come delitto d’onore – sì, esisteva ancora in Italia – ma dovuto al fatto che la donna uccisa avrebbe minacciato di denunciare alcuni partecipanti al commando. Spremendo il succo: i partigiani avevano compiuto un atto esecrabile perché avevano ucciso prigionieri inermi che avrebbero avuto diritto a un processo, ma se possibile ancora più criminoso avendo anche liquidato qualcuno che non aveva nulla o poco a che vedere col regime.
Questa narrazione, che ha origini con tutta evidenza negli ambienti della destra fascista nostalgica, viene demolita nel merito e nel metodo dal lavoro di Brighi e Gagliardo. Nel merito indagando sui diciassette uccisi, ricostruendone le biografie per arrivare a concludere che erano tutti fascisti, pur se non tutti coinvolti allo stesso modo. Nel metodo collocando il fatto nel contesto storico che lo vide. Anzitutto osservano gli autori: “Se ad agire la violenza della vendetta furono le armi dei partigiani, ad armarla ci fu quasi sempre la rabbia popolare, il rancore di chi aveva subito torti e voleva chiudere il conto con la stessa moneta con cui era stato pagato dai fascisti. E proprio per questo suo presupposto corale e di massa, la giustizia partigiana spettacolarizzò le azioni, le rese rito pubblico e collettivo” (pag. 98). Non solo, come scrive Mirco Dondi, sembra che a Cesena sia “più forte il timore di una possibile liberazione dei prigionieri”, il che – secondo gli autori – “implica la sottolineatura dell’esistenza di una marcata pressione ambientale sulla possibilità che i reduci fascisti la facessero franca” (p. 100). Se era questo il clima che si respirava in città, Brighi e Gagliardo aggiungono un elemento ulteriore: “i silenzi collettivi che avrebbero coperto gli episodi di giustizia sommaria postbellica, più che mostrare un presunto clima di omertà indotto dal terrore (implicitamente ‘rosso’), rimandano piuttosto all’interpretazione che vi fosse una sostanziale condivisione pubblica delle punizioni” (pag. 103).
Fondamentale per la comprensione del contesto storico, l’indagine degli eccidi compiuti in quel triste periodo dai fascisti. Tra i quali spiccano la fucilazione di otto partigiani alla Rocca di Cesena il 3 settembre 1944, e i nove fucilati a Ruffio il 18 agosto 1944, catturati mentre cercavano di unirsi ai partigiani in montagna. Considerati insieme “i due distinti episodi della brutale violenza” – della quale, non lo si dimentichi, sono responsabili i fascisti cesenati – “si prestano a una possibile interpretazione della strage dell’8 maggio 1945” (p. 108). Nove sono i fucilati a Ruffio (anche se solo otto sono morti perché uno si salva fortunosamente). Otto sono quelli alla Rocca. Sommati fanno diciassette come i morti dell’8 maggio. Dopo aver proposto questa ipotesi, gli autori chiamano in campo due storici, la cui auctoritas è fuori discussione: Sergio Luzzatto: “la Resistenza aveva troppo sofferto delle esibizioni mortuarie del fascismo saloino per rinunciare alla tentazione del contrappasso” (pag. 110).
Claudio Pavone il quale riconosce che in Emilia-Romagna più che altrove “la guerra civile fra fascisti e antifascisti può essere vista come la ricapitolazione e lo svolgimento finale sotto la cappa dell’occupazione tedesca di un conflitto apertosi nel 1919-22” (pag. 114).
Ho anticipato che nella memoria popolare del territorio cesenate si è subdolamente infiltrato un racconto, frutto di un pregiudizio ideologico di parte e privo, ovviamente, della benché minima metodologia scientifica. Che è nondimeno esondato nel discorso pubblico persino “in voci meno politicamente connotate e perfino in alcune appartenenti a tutt’altra area culturale” (pag. 175). E al proposito Brighi e Gagliardo esaminano il caso esemplare del periodico cattolico “Corriere cesenate”. Dove compare nel 2004 un articolo di un certo rilievo, apparso a firma di un noto intellettuale locale, Giovanni Maroni, che riprende un tema ricorrente negli interventi di parte: “non c’è più guerra dopo il 25 aprile, ma scorre il sangue dell’odio” (ivi). A conferma del peso del giudizio, un articolo apparso undici anni dopo, a firma Michelangelo Bucci, nello stesso giornale: “La guerra quel 9 maggio era finita, finita in Europa da un giorno. Finita in Italia da un paio di settimane. Ma soprattutto finita a Cesena, liberata dagli alleati quasi sette mesi prima” (ivi). Accusa gravissima che sottolinea una vendetta ancora più colpevole data la distanza, concepita a freddo senza nemmeno l’attenuante emotiva della reazione immediata. La domanda centrale a cui rispondere è la seguente: quando è finita la guerra oppure quando è cominciata?
Ancora una volta la risposta di “Anatomia di una strage” dimostra una perfetta conoscenza degli strumenti dello storico, ben cosciente che fissare delle date serve alla periodizzazione ma altamente improbabile anzi fuorviante perché “impossibile” è stabilire l’ultima o la prima volta di… Insomma come osserva Francesco Filippi nella prefazione, questo libro “possiede due caratteristiche fondamentali del sapere storico: per prima cosa l’acribia, per meglio dire, la cocciutaggine nell’interrogazione delle fonti, oltre a questo, poi, ha la passione nel ricostruire ancora una volta, senza fermarsi alle riletture consolidate, la successione degli eventi, la loro contaminazione e i risvolti interpretativi dello svolgersi dei fatti” (pag. 10). Concludo con una postilla: “Anatomia di una strage” rientra nell’ardua ma necessaria impresa della “dissezione” di un passato che non passa, anzi riaffiora limaccioso, perché i conti col fascismo in Italia sono stati fatti male o addirittura non sono stati fatti.
Gianfranco “Miro” Gori, saggista e poeta, presidente provinciale Anpi Forlì-Cesena
Pubblicato sabato 6 Luglio 2024
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