Nell’epoca della “post verità” e del dominio dei social network sul dibattito pubblico, la memoria della Resistenza e lo stesso antifascismo (anima e comune denominatore delle donne e degli uomini che fecero la Resistenza) sono minacciati da un nemico ancora più insidioso del loro storico avversario.

Qual è questo nemico? Come si chiama? Luca Casarotti, giurista, autore e militante antifascista, lo identifica come “il contrario” dell’antifascismo per mettersi sulle sue tracce con un primo identikit in tasca. Il risultato è una ricerca che procede, come dichiara l’autore in apertura, per analisi delle parole altrui. O meglio, dei testi. E la ricerca diventa libro, che esce alla fine di ottobre 2023, pubblicato da Alegre, proprio con quel concetto nel titolo: L’antifascismo e il suo contrario.

L’autore (che, mi piace ricordarlo, è anche pianista jazz, membro del gruppo di lavoro sul revisionismo storico in rete “Nicoletta Bourbaki” e presidente di una Sezione Anpi fra le mie preferite, la “Onorina Brambilla Pesce” di Pavia) ci invita a seguirlo nel suo “esperimento” e apre, primo fra i testi che esaminerà, un saggio di Ernesto Galli della Loggia: il titolo è La morte della patria: la crisi dell’idea di nazione, tra Resistenza, antifascismo e Repubblica ed è stato pubblicato nel 1996 da Laterza, ampliamento del testo di una relazione presentata a un convegno nel 1992.

Casarotti parte dalla tesi fondamentale del libro: l’8 settembre segna la crisi definitiva dell’idea di nazione e la Resistenza non può essere considerata idonea per rifondare lo Stato su base unitaria, né a fornire al Paese una memoria condivisa, perché la lotta di Liberazione non è stata una guerra patriottica ma una guerra civile. Banalizzando, l’accusa alla Resistenza che emerge dal libro di Galli della Loggia si potrebbe riassumere in uno dei termini-prezzemolo che coloro che hanno a cuore la memoria della guerra di Liberazione si sentono ripetere in continuazione: la Resistenza è divisiva. Con la pazienza e le brillanti capacità dialettiche che i suoi lettori conoscono bene, Casarotti smonta accuratamente la tesi, evidenziandone le fallacie e indicando a Galli della Loggia con puntuali citazioni ciò che avrebbe dovuto considerare e non ha fatto.

Se dovessi scegliere un passaggio, fra i tanti che mi hanno colpito di questa prima parte de L’antifascismo e il suo contrario, citerei la riflessione che l’autore fa partendo dal libro di Giuseppe Filippetta, L’estate che imparammo a sparare: «la scelta partigiana non è stata la scelta di un popolo, cioè del soggetto sul quale si esercita la sovranità dello Stato, ma d’individui e di gruppi che a quella sovranità si sottraggono, perché ne hanno compreso la disgregazione. Perciò moltitudine e non popolo. Venuta meno la sovranità dello Stato, volontà del partigianato era anche di darsi nuove istituzioni, un diverso ordinamento: perciò già la scelta partigiana era la manifestazione di un potere costituente, prima delle Zone libere, delle Repubbliche partigiane, prima della Costituzione».

Se il primo testo esaminato ruotava intorno a uno dei termini “anti-antifa” più in voga, il secondo esemplifica bene un altro concetto molto à la page per attaccare la Resistenza e l’antifascismo. Il libro è Ma se io volessi diventare una fascista intelligente? di Claudio Giunta e il concetto che Casarotti isola e affronta è: l’antifascismo è anacronistico perché il fascismo è morto da 80 anni. Con le immagini di Acca Larenzia ancora fresche nella mente, che anche quest’anno hanno suscitato orrore in tutto il mondo (quasi punto in Italia), verrebbe da dire: “morto? il fascismo è vivo e (non) vegeta (tutt’altro)”. Ma ovviamente nelle argomentazioni dell’autore c’è molto di più, ed è tutto da scoprire.

(Imagoeconomica, Sara Minelli)

Segnalo un passaggio che riguarda da vicino la nostra Associazione e che ripropone un altro cliché anti-antifascista, che si trova anche nel libro di Giunta. Scrive l’italianista dell’Università degli Studi di Trento: «non ho mai capito come ci si possa iscrivere all’Associazione nazionale partigiani d’Italia (Anpi), non perché penso che i partigiani non avessero ragione, ma perché credo che per appartenere a un’associazione che s’intitola ai partigiani occorra averne il diritto, e per averne il diritto occorra esserlo stati».

Con il congresso Anpi del 2006, i partigiani inaugurarono “la nuova stagione”, aprendo le porte dell’Associazione agli antifascisti, giovani e meno giovani che per ragioni anagrafiche non potevano aver partecipato alla Resistenza

Confesso che la mia prima reazione è stata l’ululato, lo stesso che erompe dai miei organi fonatori ogni volta che mi imbatto in questa “obiezione” sui social (e capita spesso). Essenziale, chiara ed efficace la risposta di Casarotti, da salvare e usare d’ora in poi in ogni occasione la meriti: «Giunta senz’altro sa che non erano dello stesso avviso i partigiani che, all’inizio degli anni 2000, hanno deciso di aprire i ruoli dell’associazione anche ai non partigiani, proprio perché non volevano portarsi l’Anpi nella tomba. Non sono gli iscritti all’Anpi senza essere stati partigiani a usurparne il nome, e quindi la reputazione. L’usurpazione è di chi va ripetendo che l’Anpi dovrebbe sciogliersi alla morte dell’ultimo partigiano, senza sapere o voler tenere conto che i partigiani dell’Anpi, non i cacciatori della loro eredità, hanno deciso diversamente».

Il saggio di Luca Casarotti prosegue con l’esame di un terzo testo (Contro l’impegno. Riflessioni sul bene in letteratura, una raccolta di saggi di Walter Siti pubblicata da Rizzoli nel 2021) e con due capitoli, fra quelli con cui conclude il suo lavoro, che ho trovato particolarmente importanti. Nel primo, partendo da una domanda posta durante una presentazione del libro di Nicoletta Bourbaki, La morte, la fanciulla e l’orco rosso («Secondo voi l’antifascismo dev’essere scientifico?») Casarotti espone diversi principi che parlano direttamente a noi “militanti della memoria”.

Scrive l’autore: «È ovvio, la quasi totalità delle persone che portano ora avanti la militanza antifascista appartiene alle generazioni venute dopo i vent’anni del fascismo regime e dopo la Resistenza. Per noi testimoniare è impossibile, e la dimensione della memoria è necessaria ma insufficiente. […] Il tempo che ci separa dai fatti di cui è consistita la Resistenza ci consente, ma anche ci impone, di conoscere quei fatti con l’accuratezza della storiografia». Lo studio, quindi, l’approfondimento e il rigore: «aspirare alla precisione come stile di militanza; di modo che l’imparzialità presunta non sia l’alibi per non prendere posizione, e lo schieramento dichiarato non sia l’alibi per mancare di rigore. E di modo che l’avversario non trovi punti deboli da colpire, lasciando invece scoperti i suoi».

Segue un altro tema importantissimo, quello sull’attualità dell’antifascismo, che l’autore lega a doppio nodo a quello, affrontato poco prima, dello studio: «L’attualità dell’antifascismo si misurerà dunque in questo: nell’attitudine a mantenersi fedele [alla verità storica], il che comporta l’obbligo di conoscerla, e nel trarre da essa una proposta idonea a decifrare e aggredire il presente».

In conclusione, l’autore mette in guardia chi voglia raccontare la Resistenza: il rischio della mitizzazione è forte, anche e soprattutto adesso che, dopo un ventennio di dominio della narrazione antipartigiana (un nome su tutti: Pansa), sembra esserci stata un’inversione di tendenza (Casarotti cita anche il paradosso dell’uso un po’ ardito – pun intended, direbbero gli anglofoni – tentato a volte a destra: «un sacrario dell’occidente a cui fare visita per rinfocolare lo spirito dello scontro di civiltà»). Un rischio specifico, avverte l’autore, è «la tentazione di recuperare il terreno perduto confezionando un messaggio che postula un destinatario molto più ingenuo, molto meno smaliziato di quanto non sia in realtà. Un messaggio che per il timore dell’incomprensione incappa nel difetto opposto: banalizzare, e dunque rendere inservibile, il repertorio complesso che è la storia dell’antifascismo».

L’antifascismo e il suo contrario è un testo a tratti complesso, che richiede una lettura attenta e approfondita (e anche per questo è prezioso; abbiamo bisogno in tanti/e, io per primo, di vincere una certa pigrizia mentale legata al consumo di notizie e di comunicazione costrette nel cosiddetto “microblogging”). Il libro ha poi un altro pregio che ho apprezzato molto: lo stile. In breve: è scritto bene. E questo, lo scrivo e lo sottolineo, non è solo un dato estetico: i libri scritti bene invogliano alla lettura e fanno dello stile sprone e veicolo di conoscenza.

L’autore si muove con leggerezza fra un registro alto, confermando il suo valore di fine intellettuale, e uno di segno diverso, con riferimenti frequenti e gustosi alla cultura popolare dagli anni 70 a oggi. Non disdegna, accanto all’analisi dei testi e alle citazioni dotte, i riferimenti alle polemiche social, richiamando (o così ha suggerito a chi scrive) quella che una vecchia trasmissione radio, che chi ha più di 40 anni ricorderà con un pizzico di nostalgia, definiva “caccia all’ideologico quotidiano”.

Molto bello anche il capitolo bibliografico finale che, a differenza di una bibliografia tradizionale, guida il lettore fra i rimandi e le scelte fatte dall’autore in modo discorsivo e coinvolgente e invita a scoprire e approfondire i testi segnalati in modo molto più efficace di quanto farebbe un semplice elenco di titoli.

Carlo Gianuzzi, Commissione scuola ANPI “Dolores Abbiati”, Brescia