Apro questo libretto di 100 pagine significative, specchio di mille altre vicende e sofferenze simili. Ho letto e visto tanto sulla Shoah, libri, film testimonianze, ma questa piccola tessera dolorosa mi ha colpito e commosso con la sua forte particolarità: la volontà di resistere, di vivere e di essere altra dal male assoluto dell’odio. Liliana Segre si rivolge ai ragazzi, ai giovani e li incita a prendere nelle proprie mani la vita, il futuro e di costruirne uno di pace, di altruismo, di solidarietà.
Dopo 45 anni di silenzio racconta di se stessa, travolta a partire dal 1938 da un ciclone, da quella tragedia difficile a descriversi che ha segnato il 900. Lo fa con grazia, con semplicità come parlerebbe sottovoce una nonna ai suoi nipoti, il che aumenta la commozione e la percezione dell’immane ingiustizia subita. E tutte le emozioni sfilano con la loro veridicità, dallo sbalordimento dell’espulsione improvvisa dalla scuola elementare, all’isolamento, alla discriminazione razziale, passo passo fino all’inferno di Auschwitz.
Al primo scontro di Liliana, da una vita familiare felice, con il male incomprensibile giunto da fuori c’è lo sbigottimento. La bambina si chiede “che ho fatto di male? Perché?”.
Tutti cominciano ad evitarla, a segnarla a dito, le ex compagne, le vicine. Perché? Credeva di essere come le altre, era come le altre, solo Mussolini aveva deciso la sua diversità (sei ebrea). Poi la solitudine, segnata a dito, evitata dalle ex amiche, le perquisizioni e maltrattamenti polizieschi in casa.
La seconda triste scoperta, l’indifferenza. Gli amici si eclissano per paura, per viltà. È il momento di capire chi sono i veri amici. Rarissimi, pochi quelli che rischiano per aiutare lei, suo padre, i nonni.
E poi un male ancora più feroce. Il regime di Salò del 1943, complice e servo di Hitler coi camion di sgherri che portano via gli ebrei, donne vecchi e bambini.
Fra i tanti momenti descritti in modo limpido e scarno ci tocca profondamente quello del rifiuto di Liliana di imparare i dati della falsa identità necessaria per la fuga. Il padre la implora di impararli a memoria. Ma a lei che si definisce “stupida tredicenne”, costa tanto. Le sembra di dover rinunciare a se stessa!
Il tentativo di evadere in Svizzera fallisce e possiamo immaginare cosa significhi essere respinti dopo tante vicissitudini di viaggio tra le montagne da un funzionario elvetico indifferente, se non ostile. Respinta alla frontiera con suo padre, dove li attendono i nazisti. Destinazione, il carcere di Varese. Il papà, brava persona ineccepibile, ammanettato come un malvivente e lei sola in carcere, divisa da lui. Si domandava ancora. Perché? E l’attendeva un altro carcere, quello di Como con una secondina truce e cattiva.
Altro momento quando, dopo il trasferimento alla prigione milanese di San Vittore con l’unico ma immenso sollievo della riunione col genitore nella piccola cella 202, vengono prelevati per la deportazione in Germania. Liliana conosce in quegli attimi tremendi la solidarietà dei detenuti che, impietositi al loro passaggio, si sporgono dai ballatoi e lanciano chi una mela, chi un’arancia, chi un paio di guanti. È straziante e consolante questa pietà, questa solidarietà inaspettata che viene dalle sbarre, dal buio, dal basso.
Su tutta questa odissea regna lo stupore infantile. Che si ingigantisce ad Auschwitz, dove la bambina inebetita è subito strappata dalla mano amata del padre. Divisi gli uomini dalle donne. Lei forse salva, lui alla camera a gas.
La forza innata della giovinezza la spinge però a vivere. Decide di chiudere gli occhi su tutto l’orrore che verrà dopo lasciandolo scorrere a fianco, come un sogno, un incubo parallelo.
Un altro episodio ci colpisce. Quando, divenuta schiava del lavoro in una fabbrica di munizioni del campo, Janine, la sua più cara compagna di prigionia, viene selezionata per l’eliminazione. La portano via e lei non si volta indietro neppure per salutarla. Il lager nazista ledeva intaccava l’anima, non solo il corpo, ma il coraggio, la parte nobile di ognuno. Liliana se ne rende conto e sente di aver toccato il fondo.
Infine la marcia estenuante, e per moltissimi prigionieri letale, da Auschwitz fino in Germania. Sono ormai una fila di scheletri affamati, costretti a camminare per chilometri e chilometri. Lei sopravvive e giunge al campo di concentramento di Malchow. Nuove privazioni e paure. Fino alla liberazione quando i nazisti si spogliano in fretta e furia delle divise e indossano abiti civili per nascondere le loro nefandezze.
Davanti ai suoi occhi c’è il peggiore aguzzino che si traveste, resta in mutande e si libera delle armi. Getta la pistola più in là. Liliana è presa dalla tentazione di raccoglierla. È il momento di sparare al carnefice, di fare giustizia. Ma qualcosa la trattiene. È stata educata a rispettare la vita, non può toglierla a nessuno.
Al rientro in Italia accolta con affetto dai nonni materni (quelli paterni sono stati eliminati) si apre però per lei un percorso difficile. Come fa a dimenticare tutto quel vissuto inenarrabile, peggiore di una malattia che corrode il corpo e l’anima?
Peggio di tutto è l’indifferenza degli altri. Non vogliono capire o non possono capire? Non si sente creduta e come lei tutti i pochi superstiti dai campi di sterminio. È lo stesso silenzio che conobbe nel ’38 di fronte alla messa al bando di 35.000 ebrei italiani colpevoli di niente. I contemporanei guardano avanti distratti dal presente, dal futuro. Lei si chiude in se stessa, ritrosa, scontrosa. Va avanti con gli studi, con la vita, ma non parla del lager, si barrica nella rimozione.
Per spezzare questo muro dovrà diventare nonna. Di fronte al nipote sente d’improvviso un impulso, il dovere di trasmettere il passato ai giovani.
La barbarie nazifascista, nessuna barbarie deve ripetersi. In effetti il mondo è ancora in preda agli eccidi ,alle discriminazioni, agli attentati, all’odio contro la diversità, non importa quale. Ancora antisemitismo, ma anche discriminazione etnica contro nuove vittime, contro i rom, i migranti.
Il mondo è pieno di odio e contro quest’odio Liliana vuole combattere. Contro l’indifferenza, la resa all’effimero, alla banalità del quotidiano senza ideali, contro la droga, la disperazione, la violenza. Lei ha tratto dal male la forza di resistere.
Così diviene un testimone di pace, di civiltà, va nelle scuole, parla con centinaia di ragazzi, con parole semplici, comprensibili. Fa loro capire che il futuro, un “altro” futuro, è nelle loro mani.
Non dimentica, non perdona, ma è libera dallo spirito di vendetta.
Per i suoi valori è nominata senatrice a vita dal Presidente Mattarella, ma si considera e si presenta come si sente, una donna qualsiasi.
Raccomando questo libro nelle scuole per questi contenuti e il loro spirito etico. Lo vedo particolarmente utile oggi, quando le giovanissime generazioni, allevate nel benessere e nella superficialità, si trovano a dover fronteggiare scelte importanti. C’è un evento pericoloso e coinvolgente come la pandemia. Sono in campo vacuità contro responsabilità. Servono le lezioni del passato e il confronto, per crescere prendendo coscienza dei propri compiti, comprendere la pericolosità della circolazione dell’odio, sconfessare la menzogna, adottare l’altruismo. La gioventù ha un grande potenziale. Può essere positiva o negativa.
Come scrive Liliana: “Non dite mai che non ce la potete fare. Ognuno di noi è fortissimo e responsabile di se stesso”.
Serena d’Arbela, giornalista e scrittrice
Pubblicato giovedì 24 Dicembre 2020
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