La pubblicazione del volume di Davide Conti, “Gli uomini di Mussolini”, è un’occasione per approfondire il tema nella persistenza della presenza di personalità gravemente compromesse nell’epoca fascista durante il tempo della repubblica. Ed anche per misurare le difficoltà della piena affermazione delle idee della Resistenza nel dopoguerra, e di conseguenza dell’attuazione coerente della Costituzione. In questa riflessione si interpretano più agevolmente le vicende più drammatiche della storia italiana più recente: da Portella della Ginestra a Piazza Fontana ai ripetuti (ed abortiti) tentativi di golpe. Il tutto, nello scenario imprescindibile della Guerra fredda e dei condizionamenti delle alleanze politiche e militari del nostro Paese. I testi che seguono sono una recensione ed un’intervista: la recensione del volume è di Sebastiano Leotta; l’intervista all’autore Davide Conti è di Valerio Strinati.
G.P.
La defascistizzazione incompiuta
Sebastiano Leotta
Esistono eventi storici in grado di distinguere in modo perentorio e drammatico un prima e un dopo, come una specie di irreversibile discrimine: la Controriforma in Germania o le Rivoluzioni francese e russa.
Nella storia italiana, anche precedente all’Unità, è difficile invece rinvenire simili rotture, si pensi al passaggio “fondativo” dal regime fascista alla repubblica, che è stato da un lato ricco di novità assolute come la costituzione repubblicana, ma dall’altro contraddittorio e ambiguo visti i limiti dell’epurazione fascista e la cosiddetta “continuità dello Stato” puntualizzata a suo tempo da Claudio Pavone. E tuttavia la defascistizzazione, per una serie di ragioni che l’autore delinea nell’introduzione, si rivelerà un processo a metà che renderà più difficile l’attuazione della Costituzione, rallentando il transito verso la compiuta democratizzazione della società italiana. Si pensi al mantenimento del codice Rocco e del Testo unico di Pubblica Sicurezza di marca fascista, alla conservazione di pulsioni autoritarie nelle pratiche istituzionali; si potrebbe dire – riprendendo da altro contesto una frase di Saint Just – che la Costituzione fu parzialmente congelata, almeno fino agli anni Sessanta.
Settori della Magistratura e della Polizia, dell’esercito, della burocrazia e dell’università rimangono al loro posto, si sottraggono alle misure di bonifica democratica, gli stessi uomini che furono di Mussolini saranno gli stessi a gestire pezzi del potere istituzionale del nuovo Stato.
Davide Conti nel suo libro Gli uomini di Mussolini analizza la carriera di alcuni funzionari fascisti che ebbero ruoli importanti nell’amministrazione del nuovo Stato, in particolare nei servizi di sicurezza e della gestione dell’ordine pubblico, nomi che diranno poco a molti di noi: gli ispettori di polizia Ettore Messana e Ciro Verdiani, il capo della mobile Rosario Barranco, i generali Giuseppe Pièche e Giovanni Messe, prefetti come Temistocle Testa. Alcuni di questi furono anche imputati, e mai processati, per crimini di guerra compiuti durante l’occupazione italiana della Jugoslavia e della Grecia. Tutti costoro, sopravvissuti al 25 luglio 1943, si ritroveranno al loro posto negli anni del centrismo, della guerra fredda, di Mario Scelba, che, scrive Conti, fu uno dei fautori della rottura del nesso Stato e Resistenza.
Scelba, ministro degli Interni dal 1947 al 1953 e poi dal 1960 al 1962, ricollocò un buon numero di funzionari fascisti in posti chiave per l’ordine pubblico e per la repressione di ciò che si era individuato come nemico dello Stato: comunisti, partigiani, sindacati. La caduta del governo Parri, nonostante tutto il suo epos resistenziale, sembra inevitabile di fronte a una normalizzazione fatta dalla dialettica dei partiti, dalla presenza degli Alleati e di fronte a un nuovo schema geopolitico; scrisse Carlo Levi ne L’orologio, un libro ancora importante per comprendere quel nodo storico, che la grande guerra di Liberazione non era riuscita a bucare le acque stagnanti e fascistizzate dell’amministrazione statale.
Le biografie di fascisti transitate alla Repubblica sono da intendersi come il precipitato individuale di uno sviluppo storico, come scrive Conti, storico e archivista del Senato; si tratta di fare la storia di «un segmento del complesso processo di continuità dello Stato caratterizzato dalla reimmissione e dal reimpiego di un personale politico e militare non soltanto organico al ventennio fascista ma il cui nome, nella maggior parte dei casi, era stato inserito nelle War Crimes delle Nazioni Unite».
È proprio la mancanza di una rottura irreversibile, fatta a tempo debito, che – a mio modo di vedere – consente ancora in Italia che amministrazioni comunali erigano monumenti a Graziani o qualcuno tenti una riabilitazione di un golpista come Junio Valerio Borghese (anche da parte di uno storico come De Felice); la necessità di arrivare a una pacificazione purchessia, di cui l’amnistia Togliatti fu una tappa, portò già nel 1946 a considerare l’epurazione un capitolo chiuso. A livello burocratico, per stare ai numeri, dei 394mila impiegati pubblici solo 1580 furono licenziati e comunque molti rientrarono in seguito.
Il negativo delle carriere esemplari, cominciate nel regime e proseguite nella Repubblica, è quello delle sorti diametralmente opposte dei partigiani epurati e condannati dalle amministrazioni civili e dai tribunali dello Stato (si ricordi la rimozione dei prefetti insediati dal CLN all’indomani della Liberazione).
Giovanni Ravalli, accusato in veste di militare di crimini durante l’occupazione italiana della Grecia diventa prefetto nel 1960 di Catanzaro e poi di Palermo; scrive Conti che egli fu protagonista di una crociata anticomunista le cui vittime furono poveri braccianti e le organizzazioni sindacali della sinistra. Ravalli è morto indisturbato e mai processato nel 1998. L’inquietante Ettore Messana (classe 1888), questore di Lubiana e poi di Trieste tra il 1941 e il 1943, ricercato per crimini di guerra commessi sugli sloveni nel tentativo forzoso di italianizzarli; nel 1945 diviene ispettore di Pubblica sicurezza sotto Bonomi e De Gasperi; viene arruolato in Sicilia nelle attività anticomuniste del dopoguerra e nella repressione delle lotte dei contadini siciliani, e coinvolto nella strage politica di Portella della Ginestra; proteggerà di latifondisti e criminali come Salvatore Ferreri (il noto fra’ Diavolo, fascista e assassino al soldo della Repubblica di Salò). Nel 1953 Messana è collocato a riposo e, su proposta del ministro Scelba, riceverà l’onorificenza di Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.
Sull’incompiutezza della defascistizzazione, ha scritto Silvio Lanaro: «gli autentici vincitori dello scontro sull’epurazione, alla fin fine, saranno gli irreprensibili e scrupolosi funzionari della Polizia di Mussolini, simili al protagonista di Notti e nebbie di Carlo Castellaneta che attende placidamente la sconfitta perché sa che i “nuovi padroni” avranno presto bisogno di gente come lui, secondo quanto è sempre accaduto e sempre accadrà fino a che l’uomo sarà fatto della stessa merda».
Il “miracolo” della Repubblica e della Costituzione
intervista di Valerio Strinati a Davide Conti
La rottura tra lo Stato e la Resistenza su cui ti soffermi all’esordio del tuo lavoro, è segnata dalla precoce crisi e dal successivo fallimento dell’epurazione. Quali sono i passaggi cruciali di questa frattura, tra la caduta del primo governo Bonomi e il dopoguerra?
Il primo fattore di continuità, che precede la stessa formazione organica del movimento di Resistenza, si determina all’interno delle modalità con cui la monarchia, lo stato maggiore del regio esercito e le strutture di vertice dello Stato sabaudo prima depongono Mussolini il 25 luglio 1943 e poi giungono alla firma dell’armistizio dell’8 settembre (ovvero della resa incondizionata).
In quei passaggi si manifestano le basi di un processo di ricostruzione dello Stato che nella logica del re e di Badoglio, nonché degli anglo-americani (soprattutto degli inglesi), è incentrato sulla totale assenza di una soluzione di continuità col passato. La Resistenza e il movimento partigiano riusciranno in parte a modificare questi assetti, e se da un lato i risultati più evidenti saranno la vittoria della Repubblica nel referendum del 2 giugno e la stesura della Costituzione, dall’altro all’interno dei gangli della macchina statale (magistratura, esercito, carabinieri, forze di polizia, pubblica amministrazione, strutture economiche) permangono personale, mentalità, gruppi di potere in grado di opporsi alle istanze di rinnovamento di cui la lotta partigiana si fece portatrice. La formula della «rottura tra Stato e Resistenza» rappresenta bene queste dinamiche, a coniarla fu Gianni Baget Bozzo in suo articolo su La Repubblica scritto all’indomani del ritiro dalla vita politica di Mario Scelba nel maggio 1983.
Secondo Baget Bozzo, Scelba, prima da ministro dell’Interno e poi da presidente del Consiglio, opera materialmente la disgiunzione, in epoca repubblicana e non più monarchica, tra il processo di ricostruzione dello Stato e il portato più innovativo e radicale delle istanze della Resistenza.
La reintegrazione di personale accusato di crimini di guerra; il riutilizzo in chiave anticomunista di capi-zona dell’Ovra; l’espulsione di migliaia di partigiani dalle file della polizia; la costruzione di una rete di «prefetti ombra» (come lui stesso li definì); la repressione delle lotte del movimento contadino nel sud-Italia (culminate nella strage di Portella della Ginestra che venne preceduta e seguita dagli assassini di decine e decine di sindacalisti e di membri delle Camere del Lavoro); i processi istruiti dalla magistratura contro i partigiani per fatti inerenti la Guerra di Liberazione e il «congelamento» della Costituzione fino al 1956 (anno in cui finalmente videro la luce la Corte Costituzionale, il CSM ed altri istituti fondanti della Repubblica democratica) furono soltanto alcune delle misure che evidenziarono questa rottura.
Nel passaggio tra la Liberazione e le elezioni del 18 aprile alcuni degli “uomini di Mussolini”, come Ciro Verdiani o Luca Osteria, riescono a trovare credito anche presso esponenti importanti dell’antifascismo e della Resistenza. Si può parlare, da parte di alcuni di essi, di una rassegnata presa d’atto dell’impossibilità di rifondare soprattutto i servizi di sicurezza in senso realmente democratico?
Gli apparati dei servizi segreti, dell’esercito, della polizia e dei carabinieri attraverso figure come quelle di Guido Leto, Ciro Verdiani, Giuseppe Pièche, Ettore Messana, Ugo Luca o l’allora giovane commissario di Ps Federico Umberto D’Amato riuscirono a svolgere un’azione particolarmente incisiva sia durante la guerra civile 1943-1945, sia nella fase di transizione tra la fine della guerra e della repubblica fascista di Salò e la nascita della Repubblica antifascista.
Alcuni di loro attraverso una sottile azione di «doppiogiochismo» in favore del fronte Alleato, ormai destinato a vincere la guerra, riuscirono ad accreditarsi presso gli anglo-americani e presso gli stessi partiti antifascisti come figure utili e funzionali ad un processo di ricostruzione dello Stato.
I casi di Ciro Verdiani (questore di Lubiana durante l’occupazione italiana della Jugoslavia, capo-zona Ovra in Dalmazia e in seguito questore di Roma «in quota» socialista e poi responsabile dell’Ispettorato di Pubblica Sicurezza in Sicilia inviato da Scelba nell’isola ai tempi del bandito Giuliano) o di Luca Osteria (già spia fascista ed in seguito stretto collaboratore di Ferruccio Parri) mostrano da un alto come questo fenomeno divenne trasversale ai partiti politici e dall’altro come il contesto e gli esiti della transizione post-fascista italiana fossero tutt’altro che scontati in chiave di democratizzazione dello Stato.
Le loro storie, ricostruite nel libro, si intrecciarono poi con alcuni degli episodi più tragici dell’Italia repubblicana come la strage di Portella della Ginestra del 1947, la strage di Piazza Fontana del 1969, il golpe Borghese del 1970 ed il golpe «bianco» di Edgardo Sogno del 1974. A riprova del fatto che l’impunità garantita a questi personaggi pose una concreta ipoteca sulla qualità dello sviluppo democratico della nostra «Nazione Repubblicana» ben oltre gli anni dell’immediato dopoguerra.
Nel tuo libro sottolinei il ruolo centrale di Mario Scelba nella sua posizione di ministro dell’Interno, come garante della continuità degli apparati di sicurezza e del reinserimento ai vertici di esso di personaggi gravemente compromessi con il fascismo, contestualmente ai processi e alla condanna di numerosi partigiani. In quale quadro di politica interna e di politica internazionale si consuma questo processo?
La «Guerra fredda» e la necessità della lotta anticomunista «di Stato» (cioè organizzata in modo istituzionale all’interno dei ministeri e del governo) finì per valorizzare l’esperienza ventennale di questi funzionari in seno agli apparati repressivi del regime fascista e divenne un elemento fondamentale per lo sviluppo delle loro carriere. Molti di loro, inoltre, erano iscritti nelle liste delle Nazioni Unite come «presunti criminali di guerra» da dover processare per le condotte operate contro civili e partigiani in Jugoslavia, Grecia, Albania, Urss, Francia e Africa (parliamo di crimini come rastrellamenti, deportazioni, fucilazioni di massa, impiccagioni, persecuzioni di oppositori politici e partigiani) e questa «ricattabilità» derivante dal loro passato ne fece dei funzionari zelanti e fedeli del nuovo ordine organizzato intorno alle logiche anticomuniste della divisione bipolare internazionale.
Qual è il ruolo degli Alleati e in particolare degli USA, nella mancata punizione dei criminali di guerra italiani e nella loro rapida reintegrazione negli apparati dello Stato?
Quello degli Alleati fu certamente un ruolo centrale sia nella mancata «Norimberga italiana» sia nel processo di «continuità dello Stato». Finita la seconda guerra mondiale, la definizione di una nuova contrapposizione internazionale ridisegnò il contesto delle alleanze rovesciando i ruoli.
Nel campo occidentale i nemici della «Guerra calda» (Italia, Germania e Giappone) divennero gli alleati della «Guerra fredda» e la rapida riorganizzazione economica, politica e militare divenne una necessità impellente per la costituenda alleanza atlantica. I processi per crimini di guerra avrebbero decapitato i vertici degli eserciti e degli apparati di forza ponendo la questione di un loro effettivo rinnovamento magari con l’ingresso dei partigiani in seno all’esercito, ai carabinieri, alla polizia. Una situazione non compatibile con il nuovo ordine internazionale compostosi attorno alla contrapposizione ideologica tra l’ovest atlantico e l’est sovietico.
Tuttavia quello della «continuità dello Stato» fu un processo storico che mantenne dei forti caratteri endogeni derivanti dal passato fascista dell’Italia, dalla pervasività del radicamento del regime di Mussolini nei gangli delle istituzioni e degli apparati amministrativi, nonché dallo stesso consenso che gli italiani avevano dato al fascismo).
In questo quadro storico e in considerazione dei rapporti di forza reali dell’epoca mi sento di concordare pienamente con la considerazione che Corrado Stajano ha espresso nella sua recensione del libro sul Corriere della Sera affermando che la Repubblica, la Costituzione e la democrazia furono quasi un «miracolo» nell’Italia uscita dalla guerra.
Pubblicato martedì 3 Ottobre 2017
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