Valentino Zeichen, personaggio scontroso e a volte bizzarro, è sempre stato una vestale della scrittura, albero maestro della sua navigazione esistenziale, malgrado egli la definisca un passatempo, una pausa concessa alla sua pigrizia. Tutto il resto, vicende dell’infanzia e vicissitudini dell’adolescenza, relazioni e salotti mondani, conferenze, attività manuali, viaggi, amori, sono onde che sbattono intono alla sua prua puntata con sicurezza, profondità e attenzione giornaliera alla mèta artistica imposta dal dna.
Con “La Sumera” romanzo ironico e leggero che rimanda a schegge biografiche dello stesso scrittore, egli resta soprattutto il poeta cultore dell’espressione significativa e pungente in cui ogni frase e parola apre sipari di storie e di allusioni.
Zeichen torna alle atmosfere degli anni 60, col girovagare di tre giovani invecchiati inquieti nel cuore artistico della capitale, tra la Galleria d’arte moderna, Piazza del Popolo, via Flaminia. Più che vitelloni o moschettieri, più che ricercatori di modelli pittorici, i tre sono collezionisti di bellezze “cotte e mangiate” cioè di studentesse da rimorchiare, per spegnere le intime ansie e i tormenti dell’ispirazione nel continuo divenire di un mercato rivolto alla ricerca materica. Intorno a loro circola il pubblico delle inaugurazioni, i critici logorroici già abili nella “spiazzistica” capaci di trasformare uno scarabocchio in un Modigliani, la folla di frequentatori, dame danarose, nuovi ricchi, politici, nobildonne decadute che popolano in quegli anni ogni tipo di ricevimento. Li incontriamo nelle sale delle ambasciate, nei drink delle gallerie pronti a ingoiare prelibati pasticcini e tramezzini come e più di affamati in una mensa assistenziale. E poi tanti pittori ansiosi di sbarcare il lunario.
Le scene evocate da Zeichen rendono con finezza ed acume modi di vivere di quel tempo, costumi, luoghi, persone. Il piglio sarcastico della narrazione immaginaria e immaginifica nasconde la tristezza esistenziale e gli intrichi di anime diverse.
Ecco arrivare alla Galleria d’arte moderna Ivo che si perde in vane fantasticherie, incollato al ricordo di una donna. Si apre per lui la caccia alle tentazioni femminili. Incontra Paolo e Mario, interessati quanto lui alle “avances” verso le “ragazze in fiore”. Il primo è un pittore di stampo pionieristico che tenta di emergere e l’altro il suo esperto, indolente, astuto e segreto aiutante. Entrambi sfottono Ivo a proposito della sua collaudata arte della conquista. Lui si dichiara stanco e passivo. Non è più come ai vecchi tempi. Ormai preferisce essere “rimorchiato”.
Ma ecco l’incontro fatale. Una giovane, seduta sugli scalini della scalinata museale, attira prepotentemente lo sguardo del dongiovanni. Ha un volto strano dagli occhi di statua mesopotamica. Lui le parla, tenta il colpo sfoderando battute originali e alla fine ottiene la promessa di essere, forse, chiamato al telefono. Anche i due amici sopraggiunti tentano di fissare un rendez-vous. Paolo invita la sconosciuta a posare per lui, riesce a darle il suo numero telefonico. Chiamerà? Chi sarà il vincitore?
Lei, la Sumera diviene la metafora della rivalsa femminile e dell’ignoto in noi e fuori di noi. Diviene per Ivo al di là di ogni tecnica, rovello d’amore di infelicità e fallimento, per Paolo piacere, per il dispettoso Mario occasione di sfida.
Le scene erotiche che seguono, ricche di ginnastica fisica e mentale svelano le insicurezze di Ivo di fronte alla volitiva compagna e il pragmatismo di Paolo che afferra a volo l’occasione materiale. Quest’ultimo, già passato dalla pittura tradizionale al bendaggio surreale del quadro e poi alle metafore geopolitiche anticolonialiste di moda, forse più redditizie, è disposto a qualsiasi sacrificio per la carriera artistica. Così perde la Sumera e si concentra su Stella la gallerista. Mario si muove agile fra i due cercando spazi per il suo ego. È un continuo girotondo governato dall’impulsività decisa della Innominata autonoma e sfuggente, mentre Ivo cade in depressione.
Le scene scorrono con ritmo quasi musicale passando dallo scherzo al mosso, al triste finale di una morte casuale, forse fatale.
Mentre i protagonisti si esercitano nei loro giochi quotidiani, Zeichen li inchioda con le sue frecce letterarie beffarde ben mirate raggiungendo sempre il bersaglio amaro e crepuscolare di una stagione vissuta, che avrà sviluppi rivoltosi di lì a poco per le nuove generazioni.
Serena D’Arbela, scrittrice, traduttrice, giornalista
Pubblicato venerdì 15 Gennaio 2016
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