Il mondo è un gran bel posto
per nascerci
se non vi dà fastidio che le felicità
non sia poi sempre tutto ‘sto spasso
se non vi dà fastidio
un pizzico di inferno
di tanto in tanto.
Lawrence Ferlinghetti

 

Quando te lo trovi tra le mani non sai se è per la forza della copertina o per la violenza del titolo. Certo anche la lirica in apertura non è male. Sai solo che tra i tanti che ti si offrono dallo scaffale della tua libreria preferita lui è lì per te, che ti guarda fisso negli occhi. Troppo neri di Saverio Tommasi, edito da Feltrinelli, non è un libro, è un pugno allo stomaco. Un pugno anche ben assestato, direi, grazie alle fotografie di Francesco Malavolta, fotogiornalista di Associated Press con esperienza ventennale nella documentazione dei flussi migratori, che non lasciano spazio all’immaginazione.

Lo scatto scelto per la copertina e il titolo sono una cosa sola: la mano destra stringe la barra di ferro arrugginita – appiglio, sostegno, rassegnazione – e poi quel “troppo neri”, “troppo” come davvero tanti e tanti per chi e sulla base di cosa? “Troppo neri” come intensità cromatica o come intensità emotiva? E poi “neri” perché caduti nell’oblio generale o “neri” perché inghiottiti dal buio del mare in tempesta o dai boschi delle frontiere più desiderate che se li mangiano nel freddo e nella neve?

Dal libro “Troppo neri, capitolo “Teste”

E allora, come sempre fai, lo sfogli questo libro e resti lì impalata, nel bel mezzo della libreria. Ti siederesti volentieri, le gambe vacillano un po’. A ogni immagine, visione, foto, corrispondono parole, lacrime, rabbia. Di intensità in intensità, gli occhi corrono dallo scatto alla parola e dalla parola allo scatto e poi viceversa: pagina dopo pagina i colpi al tuo stomaco sono sempre di più ma tu non smetti di sfogliare, leggere, commuoverti, incazzarti.

Fuga via terra (Imagoeconomica, Carlo Carino by Mid)

Spesso, in questi testi potenti che nascono come fiumi in piena nell’incontro con le immagini, emerge la dicotomia tra ciò che vedi accadere, soprattutto a donne e minori, nel variegato e straziante mondo dell’immigrazione: per mare o nella neve, tra i monti o i fili spinati, e la realtà della vita ‘normale’ nostra e dei nostri bambini, tra scuola e divertimenti. Nella loro poetica drammaticità, queste immagini di varia e vasta umanità sofferente ci riportano in fretta, molto in fretta, ad un solo pensiero, quello che dovrebbe essere il primo di ogni mattina al risveglio e l’ultimo di ogni sera al tramonto: perché io si e loro no?  Un pensiero che è il filo che lega chi legge a chi scrive, a chi scatta: perché io ho un tetto sulla testa, cibo caldo ogni giorno, acqua potabile e vestiti confortevoli e loro no?

Sbarco profughi (Imagoeconomica, Carlo Carino by Mid)

Perché, mentre sono al lavoro, i miei figli vanno a scuola con la merenda nella cartella e all’arrivo dell’estate progettiamo vacanze e riposo? Quale grande merito ho, ho avuto e avrò, tale da poter vivere questa vita qui, la mia, imparagonabile alle tante vite che, senza alcuna colpa se non il caso avverso, incontro sfogliando questa pagine?

Dal libro Troppo neri, capitolo “Pacco”

Se lo chiede spesso anche l’autore, confrontando la sua vita di giornalista, scrive per Fanpage.it come autore di reportage e inchieste, spesso condotte proprio con Francesco Malavolta, e di padre. Padre di Caterina e Margherita, ancora bambine, alle quali dedica questo lavoro “perché non vi stanchiate mai di indossare calzini spaiati, continuando ogni giorno a mischiare i colori. Affinché rimaniate curiose sul mondo, e i vostri sogni siano capaci di volare sempre ogni oltre recinto”.

Ma la dedica non finisce qui, Tommasi cita e ringrazia qui anche la sua Sheep Italia, l’associazione che presiede e che sa trasformare gesti e attenzione in tanti doni concreti per chi soffre. “Intrecciamo storie e portiamo calore”. Questo il motto, la mission, di Sheep Italia, onlus nata nel 2019 che coinvolge migliaia di volontarie e volontari su tre fronti uniti da un filo di lana rossa: realizzare coperte di lana per i senza dimora, creare borse lavoro per donne in difficoltà, insegnare a lavorare a maglia ai più fragili e vulnerabili. Atti concreti, caldi e essenziali, che merita conoscere meglio visitando il sito. Superata la dedica, ricominci a leggere e, se sei strano come me, lo fai dal fondo: l’indice riporta 144 titoli, sostantivi o aggettivi isolati, pungenti, che già da soli sarebbero poesia.

Dal capitolo “Sagrati”

Si va da Sopravvissuti a Primavera, e già qui c’è tutta la speranza in un futuro migliore, ma passando per Teste e Nero, Freddo e Noia, Rudere e Ferita, Capelli e Amore, Giocare e Alitare. Non sono tutte qui, ovvio, ma ognuna di queste solitarie, lapidarie parole, viene declinata nella sua più evidente sostanza con uno stile immediato e colloquiale, trascinante.

Saverio Tommasi scrive come vive e come parla, con emozione, energia e tanta passione. Di testa, di pancia e di cuore.

Saverio Tommasi

Scrivo questo libro perché sono ossessionato. Non lo scrivo perché sono buono, o immigrato. L’esperienza diretta non mi appartiene, ho semplicemente svolto l’attività umana più comune: per anni ho parlato con le persone, a centinaia, provenienti da decine di Paesi del mondo, da nord a sud, ognuno di loro in fuga da molte cose e da qualcuno”: Così nel capitolo Ossessione, un ‘manifesto programmatico’ che, a pagina 72, racconta motivi, scelte e finalità personali che lo hanno portato a Troppo neri.

Dal capitolo “Cravatta”

Non è un messaggio, non è un augurio, non è un manifesto politico. Semplicemente non posso tenere tutte queste storie per me, perché nessuna delle persone con cui ho parlato, quelle che mi hanno confidato la loro storia, lo ha fatto per me. Lo hanno fatto perché quelle storie le facessi risuonare al di là delle nostre conversazioni, perché se nessuno le racconta rischiano di non essere mai esistite, di scivolare via come una lista della spesa”.

Dal libro “Troppo neri”, capitolo “Definitivo”
Malavolta, il fotografo di chi fugge da guerre

“Scivolare via”, come una lista della spesa che, una volta fatta, non serve più. Affascinante e tragico questo ‘scivolare’, perfetto per raccontare ciò che la mente non ricorda. E poi ancora: “Scrivo questo libro perché sono ossessionato dalla vita, e quando la vedo perdersi agli angoli. provo dolore: il dolore degli altri mi indolenzisce, non mi lascia quieto, perché so di esserne, in qualche forma, responsabile”: provo dolore, mi indolenzisce, responsabile. In un climax ascendente di emozioni l’autore descrive esattamente quanto proviamo nell’incontro-scontro con queste immagini. Dolore, malessere, senso di colpa. A nulla vale tacitare la coscienza con ‘sono lontani, non li conosco, non mi compete, non mi interessa’ ma qualcosa ribolle dal profondo, e se non lo fa allora siamo malati gravi, forse già morti.

E da questo malessere e da questo “in qualche forma so di esserne responsabile” che prende avvio la scelta di vita di Saverio Tommasi, dalle prime esperienze nella vita politica. Giovani comunisti, Rifondazione, arriva all’impegno concreto nell’aiuto di migranti e senza fissa dimora. Ossessione è il capitolo centrale, non a caso il n. 72 di 144, per capire il prima e il dopo e per costruire il poi, il domani, il futuro.

Centro di accoglienza (Imagoeconomica, Carlo Carino by Mid)

Leggerlo ci aiuta a conoscerlo meglio, soprattutto a condividerne tenacia e forza d’animo. Ci fermiamo sull’affermazione “mi occupo di immigrazione da quando ho memoria”. Noi, invece, ce ne occupiamo? Eccoci, quindi, a fare i conti con la parola migrazione, con l’idea stessa di migrazione. Ma davvero crediamo che “migrare” sia sempre e solo passare il mare le barricate i deserti e le montagne? Che sia rischiare la pelle per non farsi ammazzare o non morire di fame, o tutte e due insieme, che sia per forza l’estremo gesto di chi è senza cibo, acqua, medicinali, lavoro, riparo, diritti, speranza e futuro?

Che sia sempre un dramma dell’altro, del distante, del diverso, dello sfortunato, del colpevole? Avete mai cambiato casa, posto di lavoro, città o nazione? Anche solo banco a scuola – vicino alla finestra, lontano dalla lavagna, vicino a chi mi fa copiare, lontano dal professore – o squadra di calcio? Mai cambiato partito o idea, mai smesso di mangiare carne o fumare, mai scelto abiti di un nuovo colore, mai lasciato l’auto per la bici, lo zucchero per il miele, la tele per la radio? Non è quindi “migrare” ogni nostro gesto che ci porta da un luogo all’altro, da un’abitudine all’altra, da una convinzione all’altra? Migranti siamo tutte e tutti, per tutta la vita e in ogni angolo del Pianeta. Fortunato chi lo sa, infelice chi pensa di non esserlo.

Elisabetta Dellavalle