Gli ultimi giorni di ‘qualcosa’ sono diventati un sottogenere storiografico: gli ultimi giorni di Pompei, gli ultimi giorni di una monarchia o quelli del Terzo Reich, come racconta questo saggio di Volker Ullrich, storico tedesco e autore della più recente biografia di Hitler. Ullrich ha narrato, attraverso diari, memorie e lettere, la cronaca degli ultimi sette giorni di vita del nazismo, le ultime voci di un regime che pretendeva di essere millenario.

Il racconto di Ullrich parte dalla morte di Hitler il 30 aprile 1945 e si arresta alla firma della resa incondizionata da parte della Germania l’8 maggio 1945. In un paese ormai invaso a Est dai sovietici e a Ovest dagli anglo-americani, la morte del Führer viene accolta da alcuni con disperazione, da altri con assoluta indifferenza, da altri ancora, i tedeschi non sedotti dall’ideologia nazista, con una gioia appena trattenuta dalla distruzione materiale e spirituale della Germania: gioia e sgomento, di fronte alla liberazione da una dittatura sanguinaria, si intrecciavano. In altri, infine, prevalgono pulsioni apocalittiche da fine del mondo con suicidio finale. Esemplare, per quest’ultima reazione, la fine di Joseph e Magda Goebbels, che si suicidano e uccidono con loro anche gli incolpevoli sei figli di età compresa tra i 4 e i 12 anni, perché, come scrissero prima di farla finita, era impossibile vivere in un mondo senza Hitler e il nazismo. Un’ondata di suicidi attraversa la Germania soprattutto ad est, perché lì si temeva (come del resto avvenne, tra saccheggi e stupri) la reazione violenta dell’Armata Rossa ai delitti commessi dalla Wehrmacht e dalle SS in Unione Sovietica. Del resto sarebbe stato ingenuo sperare che il soldato russo dimenticasse le stragi e i crimini inauditi che i tedeschi avevano perpetrato nei territori sovietici conquistati a partire del giugno 1941.

Joseph e Magda Goebbels con i loro sei figli

Demmin, una cittadina di circa 15 mila abitanti della Pomerania, rimane un caso limite ed estremo. Già prima dell’arrivo delle truppe sovietiche, il 30 aprile 1945, ventuno persone si erano tolte la vita. Poi l’arrivo dei russi, la depredazione della città e un’isteria di massa che provoca circa 700 suicidi di ogni età: «Chi poteva si avvelenò o si sparò un colpo in testa. Altri si tagliarono i polsi o si impiccarono. La maggior parte, tuttavia, si affogò: le donne si riempirono di pietre gli zaini, fecero nodi intorno ai polsi dei loro bambini e così, saldamente legati assieme si buttarono in acqua. Ancora a distanza di settimane, sul fiume Peene e dei suoi affluenti galleggiavano numerosi cadaveri».

In questo saggio lo storico è abile a incrociare storie di gerarchi, di gente comune e di tedeschi che in seguito avranno un ruolo decisivo, come Willy Brandt o Helmut Schmidt, due futuri cancellieri della Germania ovest.

Gli ultimi giorni del Reich furono affidati all’ammiraglio Dönitz, nominato suo successore dal dittatore prima di suicidarsi. Dönitz tentò vanamente di ritardare la resa immediata della Germania: in un surreale discorso radio alla nazione il 30 aprile sembrava ancora non rendersi conto che tutto era finito. Le sue parole esaltavano la fine gloriosa di Hitler, di cui erano taciuti i dettagli, si diceva che la guerra sarebbe continuata per sconfiggere il bolscevismo, né si rinunciò a idealizzare l’assurdo sacrificio di uomini e donne tedeschi, concludendo infine con un Heil Hitler; insomma, suscitò ilarità in chi l’ascoltava, a partire soprattutto dai generali tedeschi, un «fesso» irresponsabile come disse qualcuno.

Intanto a Berlino anche dopo la morte di Hitler si combatteva con «immutato accanimento», ma il 2 maggio i russi entravano in città e finalmente i berlinesi, che da giorni erano senza luce e acqua, poterono uscire dalle cantine dove erano nascosti. Quello che videro fu un paesaggio di rovine: soldati della Wehrmacht prigionieri dei russi, macerie, cadaveri ovunque, carri armati distrutti, tram ribaltati e incendiati ma anche carcasse di cavalli (un prezioso menù in quei giorni da anno zero). Incredibile era il silenzio inaudito dopo settimane di incursioni aeree e cannoneggiamenti senza tregua. Heinz Rein, giornalista berlinese antinazista, autore tra il 1946 e 1947 di una cronaca dal titolo “Berlino. Ultimo atto”, tradotto in Italia da Sellerio, che lo storico stranamente non mette tra le sue fonti, scriverà di Berlino: «questa città ormai in rovina, il cui corpo è stato bruciato e fatto a pezzi, le cui viscere sono state strappate e dilaniate, continuano ad abitarla, ammassati gli uni agli altri, degli esseri umani che vi conducono un’esistenza più terribile e più dura di quella dei soldati, la cui vita è pur interamente volta alla lotta e al pericolo. […] Mentre le bombe esplosive e quelle incendiarie cadono sulla città, come una volta pece e zolfo piovvero su Sodoma e Gomorra, i piccoli gruppi del movimento di resistenza attendono la liberazione col doloroso struggimento di non essere stati in grado di liberarsi con le proprie forze».

In un libro come questo, che intreccia vicende umane e catastrofi storiche, a un certo punto vediamo materializzarsi Marlene Dietrich. Com’è noto l’attrice, grande oppositrice del nazismo, negli Stati Uniti dal 1930 e dal 1939 cittadina americana, ritorna in patria al seguito del generale Nelson Bradley in veste di accompagnatrice delle truppe statunitensi. In Germania viene a sapere che la sorella, di cui non aveva più notizie da alcuni anni, si trovava a Bergen-Belsen: disperata, immaginò che i nazisti avessero voluto vendicarsi di lei, donna tedesca di fama mondiale e autentica icona dell’antinazismo, segregandone la sorella. La mattina del 7 maggio 1945 Marlene Dietrich arriva a Bergen-Belsen ma, con raccapriccio, scopre che la sorella Elizabeth non è tra gli internati ma assieme al marito gestisce, all’interno del campo di concentramento, il cinema per le SS. Ullrich conclude riportando una intervista del 1982 fatta dall’attore e regista Maximilian Schell alla Dietrich, dopo il ritiro dal cinema: «Alla domanda se avesse avuto fratelli o sorelle rispose soltanto: No».