La morte del padre raggiunge Giulio Rallo attraverso le pagine di facebook: l’uomo viveva nella capitale tedesca, per qualche tempo era stato alla guida dei Berliner (nell’interregno tra la direzione di Claudio Abbado e quella di Sir Simon Rattle), aveva inciso per la Deutsche Grammophon ed era addirittura stato protagonista di una comparsata televisiva come giudice di X-Factor. Apparentemente Federico Rallo era dunque un uomo di successo.

Ma le cose stanno diversamente: l’ultimo romanzo di Giuseppe Culicchia, Il cuore e la tenebra è in realtà un viaggio nel buio, nella fosca coscienza di un uomo lacerato e disperato. La vita privata del direttore d’orchestra è infatti costellata di fallimenti: la rottura del matrimonio (causato da una scappatella dell’uomo), la lontananza dai figli Giulio e Pietro, il senso di solitudine e di abbandono che ha finito per travolgere l’intera famiglia con una micidiale forza centrifuga. Non solo: in quanto musicista, Federico Rallo ha maturato nel corso degli anni un ossequio, quasi un culto per l’esecuzione che Wilhelm Furtwängler procurò della Nona di Beethoven in occasione del cinquantatreesimo compleanno del führer, il 19 aprile 1942; una venerazione che ha condotto il musicista ad abbeverarsi non solo a quella particolare forma d’arte che mira all’eccellenza ma anche a quell’atto particolare di perfezione che si alimenta nella sconfitta, nella certezza che non ci sia più tempo per altro, nel disfacimento, un apice che attinge – sembra un paradosso – alla finitudine dell’uomo e alla disperazione della Storia.

“Quando Furtwängler aveva diretto i Berliner per quella Nona, la Wehrmacht aveva appena conosciuto la sua prima disfatta alle porte di Mosca. E, stando a te, quella versione della Nona era stata così straordinaria e carica di pathos perché nel momento in cui l’aveva diretta Furtwängler si era già reso conto che la Germania aveva perso la guerra.

Il Primo Movimento è suonato con una ferocia incredibile. Fin dalle prime note, l’orchestra sembra gridare: Siamo perduti! […] La sconfitta è certa. L’orrore incombe.

Giuseppe Culicchia (da https://www.ilnuovoberlinese.com/ wp-content/uploads/2015/05/ Giuseppe-Culicchia_foto_Emilio-Esbardo_02.jpg)

Un orrore che diventa anche quello del figlio che scopre la disperazione di un padre. Ma come può radicarsi la tenebra nel cuore di un uomo? Giulio lo scopre poco alla volta, il suo viaggio a Berlino è un’immersione nell’oscurità, simile a quella compiuta da Charles Marlow (nel capolavoro di Conrad palesemente accennato nel titolo, Cuore di Tenebra) che, ossessionato dal commerciante d’avorio Kurtz, risale i meandri del fiume Congo, attraverso i luoghi della seduzione e dell’orrore, per bere direttamente alle fonti del Male. La medesima parabola compiuta dal direttore d’orchestra: le prove estenuanti a cui sottopose i Berliner nel tentativo di eguagliare l’interpretazione furtwängleriana alla ricerca di quell’antica e irripetibile disperazione conduce per via diretta al tema del fallimento: quello ideologico-politico di Hitler e quello umano di Federico Rallo. Prendendo le mosse dal momento di lacerazione e bilancio che è la morte del genitore, il figlio pietoso (l’unico di tutta la famiglia, dacché suo fratello Pietro non vuole sentir parlare del padre, mentre la madre si trova in Vietnam), nel suo viaggio di tenebra a Berlino scopre, a partire da una serie di cartelle conservate sul computer del direttore d’orchestra, che dallo studio di Furtwängler e della temperie culturale in cui fu diretta quella celebre Nona il padre di Giulio ha appreso la pericolosa seduzione della resistenza alla sconfitta che incombe. Il padre, insomma, ha resistito alla disfatta come persona e come artista, allo stesso modo in cui Hitler lo fece come ideologo e uomo politico.

Una seduzione dunque. Quella del Male, un vuoto tutto da scoprire, una forza incantatrice, la tenebra che dobbiamo colmare in noi stessi, in un viaggio di ricerca e di espiazione, in un farsi carico – forse – di colpe più grandi delle nostre, per purificarci. Sembra dirci questo Culicchia, nutrendo ossessioni dentro a ossessioni come in un sadico gioco ad incastro. Perché Furtwängler non ha lasciato la Germania di Hitler? È la domanda che si pone Federico e che riecheggia anche nella mente del figlio. Perché?

Wilhelm Furtwängler (da https://www.britannica.com/ biography/Wilhelm-Furtwangler/ media/1/222722/99801)

Il cuore e la tenebra è un libro sulla colpa e sul perdono. Fino a dove può arrivare l’indulgenza? E anche: quali sono, se ci sono, i luoghi e i tempi giusti per rimettere le colpe altrui? Culicchia prova a rispondere a queste domande e il lettore vaglierà fino a che punto ci sia riuscito; ciò su cui però raggiungiamo una certezza è che la ricognizione operata dal figlio nella coscienza paterna non è mai un tentativo di giustificazione, piuttosto una tenera e a tratti sconcertata volontà di comprendere.

Tra i documenti diligentemente raccolti da Federico negli anni, all’interno della cartella intitolata Orizzonti di guerra, compaiono stralci di considerazioni personali a commento di aforismi di Nietzsche o a frasi di Joachim Fest (tra i più importanti biografi di Hitler) accanto a fotografie che ritraggono gerarchi nazisti in compagnia dei loro figli. Perché quelle immagini? Perché lì è concentrato quel liquido raro e cristallino che è il perdono. Il direttore d’orchestra è affascinato e esterrefatto all’idea che quei personaggi, con il carico di dolore e di violenza che macchiava le loro coscienze, avessero potuto godere del perdono dei loro figli. Dove sono la misericordia, la clemenza, l’assoluzione? Federico Rallo ha atteso per tutta la vita che arrivassero dai propri figli, immergendosi in una male più grande del suo, nel Male assoluto del Novecento, di quella volontà abnorme che fu la pazzia di Hitler.

Ma Culicchia fa un passo avanti e ci dice qual è il limite oltre cui l’immersione nel Male non può procedere. Lo scoprirà il lettore, assieme al significato che hanno gli spiragli di bontà nel cuore della violenza (il romanzo ricorda l’episodio del ‘soldato buono’ di Sant’Anna di Stazzema, per esempio) e ai rimpianti che un figlio può nutrire nei confronti di un padre che non ha conosciuto o lo ha fatto solo in parte. Il tutto in una dicotomia temporale che separa il passato – fonte di sconcertanti e terribili e malinconiche emozioni – da un presente che sembra assumere su di sé i tratti dell’effimera ordinarietà; mentre infatti il Male viene sollevato dal contenitore in cui una superficiale lettura del libro della Arendt lo ha collocato e etichettato – quello appunto della banalità – e viene ricollocato in una dimensione diversa che ha a che fare con il serbatoio di miti, il ritratto del presente – verso il quale a tratti il narratore riaffiora – ne esce davvero dipinto colle tinte della mediocrità, con i suoi social – ormai unico accesso al mondo – pieni di notizie assurde e scialbe, e di commenti stereotipati e privi di complessità, tanto da chiederci se il presente non stia diventando ormai la nostra tenebra quotidiana.

Giacomo Verri, scrittore