La potente memoria della storia orale è alla base del lavoro di Maurizio Casali, attore e scenografo, che ha raccolto le storie di famiglia sulla lotta partigiana della zona della Bassa Romagna. Il risultato è un libro istruttivo e divertente. Il padre Sergio, sergente partigiano della 28° Brigata Garibaldi, con capacità affabulatoria e l’uso del dialetto riusciva a rendere comici episodi di guerra cruenti, restituendo ai partigiani la loro dimensione umana di ventenni.
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Dai racconti dei due protagonisti (oltre al padre Sergio, Maurizio Casali riporta anche i ricordi del nonno materno, Domenico) emerge anche tutta quell’umanità diffusa che ha difeso, nascosto, protetto e accolto i partigiani. E il coraggio delle donne nell’affrontare quotidianamente i gerarchi fascisti vicini di casa, un tempo amici, ora delatori. Più che la ricostruzione storica è la storia orale che ci restituisce un affresco realistico di quegli anni, delle vite di intere comunità coinvolte nella guerra di Liberazione.
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Ma il libro di Casali ha anche il merito di unire il racconto personale, rielaborato negli anni dalla memoria dei protagonisti, a una notevole parte documentale. Foto, lettere (tra cui un interessantissimo scambio con il comandante Bulow sul giornalismo), articoli di giornale: Sergio Casali, giornalista nel dopoguerra per Il Garibaldino e L’Unità, ha anche archiviato con cura materiali di cronaca di quegli anni che meticolosamente il figlio autore giustappone a ogni racconto. Ed è anche interessante leggere lo stesso episodio con il doppio registro: quello intimo e domestico del ricordo, in cui prevale l’ironia, con quello ufficiale e artificioso dei resoconti delle battaglie.
Il libro si apre con due antefatti che ancorano la storia della famiglia al Risorgimento e ai Mille, a segnare un indiscusso filo rosso che lega le generazioni. Continua con la presentazione del primo narratore, il nonno materno dell’autore, Domenico, iscritto al Partito Comunista clandestino e con un figlio chiamato, coraggiosamente nel ’41, Vladimiro (in onore di Lenin), e del secondo narratore, Sergio Casali. Giovanissimo, sportivo, con buoni studi e di famiglia borghese, Sergio comincia a nutrire dubbi sull’andamento della guerra e diventa allergico alla retorica di regime. Si accorge di non essere l’unico tra gli studenti e riesce a entrare in un gruppo che si riunisce alla biblioteca di Ravenna. Ufficialmente “un gruppo di studio”, in realtà uno spazio di dibattito libero dove confrontarsi sulla guerra, la giustizia sociale, e il comunismo.
Anche Sergio nei primi mesi del ’43 è costretto ad arruolarsi ma, grazie ai buoni uffici della sua famiglia, viene mandato vicino casa anziché al fronte. L’8 settembre, come molti, diserta; il 24 del mese ha già un incarico nella nascente brigata partigiana. Per due anni Sergio si dedicherà completamente alla causa, rischiando la vita numerose volte con i suoi compagni. Compagni che non sono comprimari nel racconto ma protagonisti, ritratti con l’ironia tenera che sopravviene dopo anni nel ricordo dell’amicizia e del sacrificio.
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Come Fiamȇt (Fiammetta, l’artificiere del gruppo che a fine guerra diventa sminatore e muore nel tentativo di salvare gli altri da una mina), Sburgnì il carrettiere, S-ciòp (Fucile, soprannominato così non per l’abilità con le armi ma per la lingua affilata), il vecchio partigiano Saraghéna e le sue bastonate ai fascisti il giorno della Liberazione di Ravenna, Martlèna, autore di una delle battute più divertenti del libro, e Rino, il valoroso migliore amico Medaglia d’Argento al Valor Militare, morto quasi banalmente nell’ultimo atto di eroismo a guerra finita. “Rino era morto quando la morte non era più contemplata come possibilità”, dirà Sergio, che poi dedicherà all’amico la copertina del Garibaldino e splendide parole di riconoscimento.
Dalle poesie scritte da Sergio in quegli anni e dalle riflessioni che aggiunge ai racconti d’azione percepiamo anche le considerazioni intime di un ventenne partigiano sul valore della vita in guerra, sui vinti, sul senso della vendetta e su quello di giustizia.
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Emerge poi un ritratto complessivo di donne “fiere, indomite e dalla lingua pronta”, come scrive l’autore, Maurizio Casali. C’è Evelina, moglie di Domenico, che prima minaccia il gerarca che lo tormenta ogni mattina perché non ha preso la tessera e poi che aiuta il marito a nascondersi dai nazisti attraverso una ninna nanna in dialetto; Emma, la madre di Sergio, provetta organizzatrice di fughe, l’anonima ragazza che salva la vita a Sergio nel ’43, e poi c’è uno splendido ed emozionante episodio di Resistenza attiva delle donne di Alfonsine: “Dasìi la mola! Dasìi la mola!” (trad.: “Liberateli!”). A seguito di un rastrellamento all’alba, un folto gruppo di giovanissimi era stato arrestato e portato alla Casa del Fascio.
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Nel giro di pochi minuti, le donne delle famiglie dei ragazzi imprigionati si radunano davanti all’edificio e cominciano a urlare “Dasìi la mola! Dasiì la mola!”. Il capo del partito locale e i miliziani intimano con le armi alle donne di sgomberare ma loro non desistono, anzi, man mano che si sparge la voce, arrivano altre donne. Più i fascisti minacciano più loro urlano “Dasìi la mola!”. Intimiditi, i miliziani sparano una raffica di mitragliatrice a vuoto per spaventarle. Ma è inutile, le donne restano immobili finché all’imbrunire il portone della Casa del Fascio si apre e i giovani riabbracciano le famiglie.
Notevoli anche le pagine sul contributo dei soldati Sikh e sull’accoglienza delle famiglie della Bassa Romagna che permettevano loro di fare i lavaggi rituali nei cortili.
Come scrive Pietro Caruso nella prefazione, Maurizio Casali ha il merito di aver “intuito la pedagogica ironia e autoironia, la vena umoristica, la profonda dimensione umana” dei racconti del padre partigiano e per questo “è uno dei migliori esempi della ricostruzione della memoria della Resistenza e garantisce modernità di riflessione”.
Pubblicato venerdì 12 Maggio 2023
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