Il volume, edito col patrocinio dell’Anpi ed uscito in questi giorni, propone una serie di saggi frutto di un seminario del 2018 promosso dall’Anpi provinciale di Bari. Lo presentiamo attraverso le parole della prefazione del direttore di Patria.

Questo volume raccoglie una serie di saggi che, a partire dalla specifica vicenda di Nicola Pende, autorevole scienziato che aderì convintamente al fascismo e sostenne una specifica teoria della razza, tratteggiano le premesse, la genesi e lo sviluppo del pensiero razzista in Italia fino alle sue conseguenze legislative ed ai suoi devastanti effetti sulla vita di decine di migliaia di persone. Si tratta perciò di un lavoro – nato da un seminario svoltosi nel 2018 – di grande interesse, perché va oltre la dimensione morale del problema ed interroga tutti noi sulle origini della pulsione a discriminare che affonda nella storia del Paese e ci consente forse di osservare con maggior precisione fenomeni analoghi o affini che stanno avvenendo nel tempo in cui viviamo.

Appare un quadro in cui la linfa della discriminazione scorre nel tempo in modo carsico, ma permanente, per poi emergere in specifici momenti di congiuntura economica e politica, come in Germania dopo il crack del 1873 o nel secolo successivo dopo la mostruosa inflazione degli anni Venti, o come nell’Italia ottocentesca, quando la stampa clericale propose l’antisemitismo come “risposta religiosa alla modernità” e su Civiltà Cattolica si espresse l’auspicio di “leggi d’eccezione contro gli ebrei”. A ben vedere il tema dell’eccezione, come circostanza il cui il Sovrano deroga alle sue stesse regole, cioè l’ordine costituzionale vigente viene sospeso da parte dell’autorità che dovrebbe garantirne il rispetto, ricorre in tutta la vicenda delle leggi razziali in Germania ed in Italia, con significative diversità ma con un iter analogo: dalla negazione dei diritti alla negazione della vita.

Eppure da questo percorso non si può espungere il senso comune dominante, sia esso di accondiscendenza, sia di indifferenza verso le politiche razziali. C’è da interrogarsi sulle famose parole di Piero Gobetti tratte da La rivoluzione liberale del 23 novembre 1922, quando afferma che “Il fascismo in Italia è un’indicazione di infanzia perché segna il trionfo della facilità, della fiducia, dell’entusiasmo. Si può ragionare del ministero Mussolini come di un fatto d’ordinaria amministrazione. Ma il fascismo è stato qualcosa di più; è stato l’autobiografia della nazione”. E aggiunge: “Privi di interessi reali, distinti, necessari gli Italiani chiedono una disciplina e uno Stato forte”. Si tratta di ingredienti di un cocktail davvero attuale: la semplificazione (“un’indicazione d’infanzia”), la nozione di popolo sprovvista di articolazioni e contraddizioni interne (“privi di interessi reali, distinti, necessari”), la concentrazione del potere nella modalità di comando come forma di governo (“una disciplina e uno Stato forte”). Il pregiudizio razzista si compone in questo quadro? E’ innestato nello “spessore reazionario accumulato nei secoli nella società italiana” di cui parlava Giorgio Amendola? E quanto “l’autobiografia della nazione” riguarda davvero tutta la nazione e non una sua sia pur grande parte? Perché è vero che c’è a tutt’oggi un evidente consenso elettorale (e non solo) di una parte dell’opinione pubblica a posizioni di destra radicale, ma è anche vero che c’è un’altra parte che sostiene un punto di vista opposto, saldamente ancorato alla Costituzione, fieramente avverso ad ogni tipo di discriminazione.

Sta di fatto, come nel volume si mette in luce, che non ha fondamento la storiografia “pesantemente influenzata dalla interpretazione defeliciana delle persecuzioni razziali poste in essere dal regime fascista quali estranee alla sua ideologia originaria, derivate piuttosto da motivazioni di carattere squisitamente politico, dipendenti dal legame sempre più stretto instauratosi con la Germania hitleriana nella seconda metà degli anni Trenta”. Viceversa, è proprio la “ideologia originaria” del fascismo che contiene i germi della discriminazione, che diventa legge nel 1938 anche come effetto/riflesso della costituzione dell’impero coloniale italiano.

E arriviamo a Pende ed alla sua biografia arricchita dalle vicende che portarono alla nascita dell’Università di Bari: la controversa questione della sua firma in calce al “Manifesto della razza” non attiene minimamente ad una sua presunta non condivisione di una visione razzista; si legge nel volume, citando uno studio del 1997 di Karl Ipsen, che “le obiezioni di Pende nulla avevano a che vedere con un’opposizione alle leggi razziali in quanto tali, provvedimenti che egli stesso aveva auspicato apertamente in più di un’occasione”. In realtà erano in competizione scuole diverse; quella di Pende, la corrente cosiddetta nazional-razzista, si differenziava dalla corrente biologista di ispirazione tedesca e da quella di matrice esoterico-tradizionalista. Da ciò i distinguo dello scienziato di Noicattaro. Si trattava, per farla breve, di contraddizioni interne ai razzismi. Ma la vicenda del “Manifesto” è solo una pagina del “caso Pende”; l’intero suo percorso personale e professionale pone a tema il nesso fra scienza e politica. Si legge nel volume che in un’opera del 1933 dedicata a Mussolini Nicola Pende scrisse: “l’organizzazione statale non è che un grande organismo di cellule-individui, il quale deve vivere secondo le leggi naturali della biologia”. Quattro anni prima auspicava che il fascismo creasse “nuove generazioni di donne socialmente, fisicamente e moralmente simili alle nostre madri, alle donne della generazione che volge purtroppo al tramonto”.

Nel 1938, in diverse circostanze, scriveva: “A me sembra si possa conchiudere che per noi italiani debba valer il principio italici con italici per poter conservare e migliorare ancora i puri caratteri civilissimi della progenie di Roma e delle componenti etiche varie, che quale in un senso quale nell’altro han dato alla nostra supremazia un contributo di indiscusso valore”, e “Nella politica matrimoniale biologica è evidente poi la necessità di proibire il matrimonio con razze di colore e con razze che, come l’ebrea, nulla hanno a che vedere con la progenie di Roma”. Da queste citazioni emerge in modo drammatico il rapporto fra la politica e la nuda vita, e cioè la biopolitica, l’esercizio del potere della politica direttamente sulla vita e sui corpi delle persone, quel potere che in modo paradigmatico si è incarnato, secondo un filosofo italiano, nei campi di sterminio.

La lettura delle pagine che seguono serve perciò per fare mente locale su alcuni concetti chiave sottesi alla critica del pensiero razzista: l’eccezione, la nuda vita, il rapporto fra scienza e politica, la responsabilità civile. Questo libro ci serve oggi come abbecedario, affinché non avvenga mai più quello che è avvenuto nel 900. Mai più: eppure sembra che queste due parole tante volte declamate dal dopoguerra in poi siano diventate in qualche caso un esercizio retorico, un flatus vocis. Davanti alla desolante quotidianità che ci circonda e che parla di naufragi, irrisioni, discriminazioni, violenze, c’è da chiedersi se ci sia o meno il rischio di una reiterazione, certo, in forme diverse dal passato, ma comunque un violento contrasto del “mai più” con un angosciante “di nuovo” spesso circondato da una delle più gravi patologie sociali della modernità: l’indifferenza. Non nascondiamocelo; è in corso una grande battaglia di dimensioni europee fra due diverse visioni della società: la società democratica, aperta, ricca di fecondi conflitti, dove la salvaguardia delle differenze è condizione per l’eguaglianza, e la società autoritaria, chiusa, gerarchica, unita contro il nemico immaginario che comunque è minoranza, quando il vero obiettivo di chi organicamente colpisce le minoranze è subordinare, irreggimentare la maggioranza.

Inesorabilmente in questa lotta si scontrano razzismo e antirazzismo non come categorie astratte ma come forze che incidono qui ed ora sulla vita vivente. Dunque il volume, a cura del comitato provinciale dell’Anpi di Bari, è un’opera meritoria, perché ci serve per riflettere e per irrobustire le basi del nostro impegno. Augurandoci che, in questo caso, valga davvero la famosa affermazione di Marx per cui la storia si presenta due volte: “la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa”.