“Un giorno – disse Granger – il carico che portiamo potrà essere utile a qualcuno, ma anche quando disponevamo dei libri, molto tempo fa, non sapevamo mettere a frutto quello che ci offrivano. Abbiamo sempre continuato a offendere i morti, a sputare sulle tombe dei poveretti che ci hanno preceduti. Nelle prossime settimane, nei prossimi mesi e anni, troveremo molte persone sole. Quando ci chiederanno cosa facciamo, dobbiamo rispondere: Noi ricordiamo. È così che vinceremo, alla fine”.
Roy Bradbury, Farenheit 451
C’è un lungo filo rosso, anzi nero, che accomuna i regimi autoritari e i loro protagonisti, ed è la strategia dell’oblio, la demolizione programmata e sistematica della memoria storica. È stato Tzvetan Todorov (Memoria del male, tentazione del bene. Inchiesta su un secolo tragico, Milano 2004), tra gli altri, a individuare nella manipolazione della memoria uno dei caratteri distintivi dei regimi totalitari del 900.
Per Todorov la strategia totalitaria ricostruisce una versione addomesticata dei fatti, estratti dal contesto e trasferiti sui palcoscenici della propaganda, che alterano e mortificano all’estremo la complessità della realtà nella sintassi asfittica e nel lessico rinsecchito di quella che Orwell chiamò la “neolingua”. Parallelamente, l’affermazione del pensiero unico non ammette incertezze e confronti con modelli diversi e alternativi di convivenza umana: non può quindi concentrarsi sul presente senza aver prima sgretolato il continuum temporale che lega l’attualità al passato, costringendo all’oblio ciò che dal passato può far traballare le mitologie del nazionalismo, della supremazia etnica, della volontà assoluta del capo.
Il futuro che ogni fascismo ha sempre promesso di realizzare si radica così nell’ignoranza della storia, e si consolida sui muri che dividono e oppongono, sullo smantellamento di quello che nella coscienza collettiva e nella tradizione dei popoli richiama la libertà del pensiero, la pratica del dubbio o la ribellione all’ingiustizia. Detto altrimenti, la visione fascista della convivenza sociale richiede una sorta di metaforica lobotomia collettiva, del tutto simile a quel vuoto totale di storia e di memoria in cui vivono i distopici abitanti del Mondo nuovo immaginato da Aldous Huxley nel 1932.
Non è perciò un caso che il primo atto di ogni regime autoritario sia stato da sempre la distruzione dei libri, la cui valenza psicologica e simbolica vuole essere ammonimento per i gregari e minaccia per dissenzienti. Partendo dal gigantesco rogo del 10 maggio 1933 nella Opernplatz di Berlino è facile risalire agli analoghi episodi più lontani o ad altri più vicini nel tempo (purtroppo la storia ne è piena): per citarne solo alcuni, i roghi dell’Inquisizione e quelli voluti dal Savonarola, quelli del maccartismo, di Pinochet e Menendez, per arrivare all’incendio della biblioteca di Mosul compiuta nel 2015 dai miliziani dell’Isis.
La distruzione dei libri o delle testimonianze dell’ingegno e dell’arte simboleggia, più di altre nefandezze del fanatismo politico o religioso, il proposito di sterilizzare il sapere e la saggezza accumulati nei secoli dagli uomini, lasciandone soltanto frammenti sconnessi su cui innalzare le scenografie del potere, come furono le ricostruzioni mussoliniane di una romanità caricaturale e mai esistita o il delirante progetto della totale rifondazione urbanistica della Berlino millenaria affidata da Hitler ad Albert Speer.
Le ragioni stanno nella natura stessa di ogni dittatura, che al di là della micidiale mistura di ottusità, intolleranza, razzismo, omofobia, genera una vis distruttiva che riporta alla base istintuale della psiche, alla competizione esasperata e al disprezzo di ogni espressione di solidarietà. Il fascismo è perciò sempre gerarchico; non richiede creatività, iniziativa, sinergie, ma solo slogan, obbedienza e imitazione.
Di conseguenza ha bisogno di seppellire, insieme alla storia, anche la memoria culturale, quello spazio dai confini sempre aperti in cui raccogliamo esperienze, testimonianze, tradizioni, luoghi e persone che danno significato a quanto ci capita di vivere nel tratto di storia che ci è assegnato. La memoria culturale ha forse la sua metafora più calzante nella pratica dialogica, quel metodo antico dell’intreccio e del confronto delle posizioni che consente di illuminare da angolature differenti il medesimo oggetto per ricavarne nuove idee e modi nuovi di gestire il rapporto tra la conoscenza e la prassi. Come in un dialogo mai interrotto, essa associa il presente all’eredità del passato, riconosce analogie e somiglianze, argomenta e distingue, rispetta la saggezza da qualunque parte provenga e condivide il piacere della conoscenza.
Quello che l’alimenta è l’attitudine interrogativa, da sempre l’unica strada da percorrere se si vuole rimanere lucidamente avvertiti della complessità della natura e dell’umanità. La tecnica dialogica è probabilmente quanto di meglio ci abbia consegnato la tradizione culturale dell’Occidente, ma soprattutto coincide con la prassi del confronto democratico e col diritto al pluralismo delle legittime posizioni ideologiche, politiche, etiche o religiose. Essa, la memoria culturale , presuppone una situazione comunicativa in cui i ruoli sono paritari, le opinioni non sono soggette a nessun controllo preventivo, ma sono obbligate al rispetto dei valori della civile convivenza, alla verifica della coerenza e alla forza persuasiva degli argomenti.
È perciò evidente la sua incompatibilità rispetto a qualunque concezione che considera la persuasione una questione da risolvere con la suggestione della propaganda o, più sbrigativamente, con le pratiche della paura e della coercizione. Dove manca la libertà del confronto e l’autonomia delle scelte viene meno ogni espressione della cultura e la memoria perde la sua funzione principale, che è quella di consolidare il legame di ogni singola persona e di ogni comunità con l’immenso patrimonio dell’esperienza umana in tutte le possibili pieghe del tempo e dello spazio.
Le conseguenze sono purtroppo note, tanto per le nazioni quanto per gli individui: fuori dalla ricostruzione di senso intessuta dalla memoria quello che infatti rimane è solo un presente estraneo e indecifrabile, da vivere e consumare passivamente, delegando a terzi il ruolo di interpreti e controllori della propria esistenza. Per questa ragione, ogni qual volta un potere vuole ergersi sulle rovine della libertà sa, per lucido proposito o grossolana intuizione, di dover fare innanzitutto i conti con la memoria degli uomini e con qualsiasi strumento che, come un libro, ne possa essere il tramite.
La distruzione dei libri simboleggia perciò la distruzione delle idee, dell’immaginazione e delle emozioni di chi ha amato e saputo creare scienza e poesia, libertà e giustizia, bellezza e dignità. Vuole tacitare l’Umanità che si è conservata negli scritti e non stupisce perciò se, come scrisse circa due secoli or sono il poeta tedesco Heinrich Heine, dove si sono bruciati i libri, si brucino prima o poi anche gli uomini.
Fausto Clemente, dirigente Comitato provinciale Anpi Messina
Pubblicato venerdì 23 Aprile 2021
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