“Signor Capitano sono svenuto. Ero di piantone come mi avete detto, ma non è venuto nessuno a darmi il cambio. Poi mi hanno aiutato dicendo di andare via perché Badoglio ha firmato l’armistizio. – E perché sei tornato? – Signor Capitano, e dove devo andare? –Torna a casa. Fai quello che vuoi. Vattene. – Ma Signore, è finita la guerra? – Sì, è finita la guerra. – E gli altri che fine hanno fatto? – Di Meo, qui non è rimasto nessuno. Hanno disertato tutti – Me lo disse mentre mi offriva una razione di cibo in scatola e una bottiglietta di liquore. – Grazie, ma io non bevo, balbettai. – Non ho altro, figlio mio. Buona fortuna. Nomine tanto firmissima, disse il Capitano alzandosi. – Salutai sull’attenti. – Il Capitano Vacca andò via tirandosi dietro la porta come fa un maggiordomo in una stanza d’albergo. Rimasi solo in caserma. Con la polvere che rimbalzava contro i vetri, le munizioni al posto loro e le marmitte della cucina stranamente appese per quell’ora. Mi giravo intorno per sapere cosa fare, mentre dei miei commilitoni percepivo solo l’odore delle barbe rasate”.
Nel brano estratto da La promessa, romanzo-verità di Gianlivio Fasciano, c’è la sorpresa del protagonista Romolo Di Meo, un giovane pastore nato nel 1921 a Mastrogiovanni, paesino del Molise, dove sogna di tornare per fare il suo amato mestiere e stare con la moglie Giovanna e la loro figlioletta. La Seconda guerra mondiale lo ha costretto al fronte: a Trieste diventerà tiratore scelto e in seguito marconista. Nonostante le brutture a cui è stato costretto e ha assistito, assolverà i suoi compiti senza lamentarsi, come prima di partire ha promesso alla madre.

L’8 settembre, intento a fare un turno di guardia di quattro ore al Foro Italico per difendere a ogni costo, secondo gli ordini che gli sono stati impartiti, una statua con l’oro di Mussolini, non solo non riceverà mai il cambio, ma si ritroverà svenuto per il caldo e la sete, ignaro che in quelle ore cruciali, è stato firmato l’armistizio. La novità lo coglie di sorpresa, creandogli un iniziale sbandamento che lo porterà a diventare disertore e affrontare un lungo cammino e una serie di peripezie nel tentativo di tornare nella sua terra. In treno, insieme ad altri sbandati, si imbatte prima in un camerata intento a braccare i “traditori”, che gli punta la pistola alla tempia, in seguito nei bombardamenti degli Alleati finché, dopo un estenuante cammino, finalmente si avvicina al suo paese, che da lontano gli appare intatto.

Si accorgerà solo più tardi che in realtà era stato trasformato in un cumulo di macerie, “sventrato come le mele dai vermi. Da dentro”. Qui dovrà nascondersi dai vendicativi tedeschi, intenti a rastrellare tutto e tutti, “più arrognati di un cane con la rabbia”. Quei tedeschi che, gli racconta l’anziano che lo ha avvertito del pericolo, entrano in paese e in quel che rimane delle case, puntano le pistole alle tempie degli anziani e se la ridono, prendendosi qualsiasi cosa trovino: un uovo, una fetta di pane. “Se non trovano niente scassano quello che avevano già rotto il giorno prima”.
Proprio due di loro gli ammazzeranno il padre e tenteranno di violentare le sorelle, che lui riuscirà a difendere uccidendoli. Dovrà darsi di nuovo alla macchia, mentre gli altri tedeschi bruceranno una casa al giorno in attesa che qualcuno riveli chi ha ucciso i due soldati. Ancora lo attendono fughe, fame, campi minati, grotte, freddo, paura, sensi di colpa, domande e dubbi sulla differenza tra lui, i fascisti e i tedeschi, tutti accomunati dalla ferocia, finché non ritroverà Giovanna, anche lei in fuga e incinta, risparmiata dai tedeschi.

Altre drammatiche vicissitudini attendono i due, finché la fine della guerra non vedrà finalmente Romolo e la sua amata riprendere una vita “normale”. Ma se dalla guerra si esce vivi, non vuol necessariamente dire essere salvi: alcune ferite rimarranno aperte per sempre, pronte a sanguinare a ogni richiamo. La sensibilità di Romolo lo spingerà a recarsi a Parigi per scoprire un segreto della madre fino a riappacificarsi con lei e i fantasmi che lo hanno ossessionato.
Una storia commovente, d’amore e di ferro, raccontata con un linguaggio autentico e genuino di un soldato del Sud che spreca quattro anni di vita in una guerra che non avrebbe voluto fare, di cui non comprende il senso: quale guerra ne ha uno? Un romanzo di grande attualità, che nel millennio in cui avremmo dovuto raccogliere e rendere disponibili per tutti i frutti del progresso, ci vede ancora barbaramente alle prese con assurde, cruente guerre e ci obbliga a riflettere sull’inutilità e i gratuiti orrori di ogni guerra sterminatrice di uomini, donne, bambini, animali e cose. Mentre al contrario, l’essere umano, invece di distruggere i propri simili, dovrebbe combattere contro gli unici veri demoni da sconfiggere: avidità ed egoismo, così da ritrovare l’umanità e la fratellanza smarrite.
Nota biografica
Nato a Termoli (CB) nel 1974, laureato in Giurisprudenza all’Università del Molise, Gianlivio Fasciano è iscritto all’Albo degli Avvocati di Napoli, città in cui vive dal 1999. È esperto di Diritto del lavoro e delle relazioni industriali e sindacali, per il quale nel 2021 ha ottenuto il riconoscimento di “Avvocato dell’anno”. Ha pubblicato: Il tempo delle ciliegie, vincitore del Premio Villaggio, un libro per il cinema 2017”; il racconto, Tempo, sì grazie, vincitore del primo premio Città di Grottammare 2016; la favola per bambini, Le simpatiche avventure del regno di abbondanza. Dal 2018 al 2022 si è dedicato alla stesura de La promessa, che rappresenta la maturità della sua scrittura e un riconoscimento di un mondo a lui caro, quello dei contadini e dei pastori, intriso di valori e relazioni che nessuna modernità può stravolgere e sradicare. Continua a scrivere e occuparsi di Sud, identità e lavoro. Raccoglie storie e le traduce per farne romanzi e testimonianze identitarie. “È un modo per tenere insieme la nostra memoria”, ci ha detto con orgoglio. Ha una predilezione per le comunità italiane all’estero, specie quella in Francia, dove si reca abitualmente anche per lavoro, oltre che per interesse verso la lingua e la letteratura francese. Iscritto all’ANPI, lo considera: “Non un luogo di ricordi, ma un’officina di avanguardia. Un luogo capace di tradurre i sentimenti di solidarietà umana, di fratellanza incondizionata. È un luogo di limature per fare in modo che la vita giri senza mai offuscare le sue ragioni. Questo è l’ANPI per me”.
Floriana Mastandrea
Pubblicato sabato 5 Luglio 2025
Stampato il 05/07/2025 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/quei-nazifascisti-in-ritirata-piu-arrognati-di-un-cane-con-la-rabbia/